mercoledì 18 novembre 2009

Quel che resta della recessione


Il peggio è passato, dicono gli esperti, adducendo gli indicatori economici a sostegno della loro tesi (beninteso, sono gli stessi esperti che la crisi non l’avevano prevista, il mondo ci stava crollando addosso ma a sentir loro andava tutto bene). L’economia è in ripresa, la tempesta sta per cessare ma, aggiungono gli analisti, perché i livelli occupazionali tornino quelli antecedenti al settembre 2008 (l’inizio della recessione), bisognerà aspettare, probabilmente, un bel po’. In effetti, comincia, finalmente, a diffondersi un certo ottimismo – lo constatiamo, con compiacimento, anche noi -, sono mutate le aspettative (che in economia sono molto più importanti di quanto comunemente si creda) ed è certo che si è riusciti ad evitare che la recessione, come nel 1929, diventasse depressione ed assumesse dimensioni catastrofiche. Il 2010 dovrebbe essere l’anno della svolta e la speranza, ovviamente, è che lo sia davvero. Un altro anno come quello che sta per concludersi avrebbe conseguenze incalcolabili. Detto questo, va fatta, inevitabilmente, una considerazione. Le recessioni costituiscono anche un’opportunità per affrontare e risolvere alcuni problemi. Quando ci si riesce, l’economia esce dalla crisi più forte e più solida di quanto vi fosse entrata. Le recessioni costringono a riflettere sui propri errori, a fare una disamina generale, a rivedere tutto, ad andare alla radice dei problemi. Ora, la domanda è: le analisi della crisi attuale ed in via superamento consentono di affermare che le sue cause sono state veramente comprese e rimosse? A noi, francamente, pare di no. Una sola analisi ci ha veramente convinti, l’unica che sia andata in profondità ed il suo autore non è un economista, ma un teologo. La migliore spiegazione dei mali dell’economia internazionale dei giorni nostri è quella che si può leggere nelle pagine della enciclica sociale “Caritas in Veritate”. Per chi l’avesse dimenticato, la recessione ha avuto inizio quando milioni di famiglie americane non sono più state in grado di pagare le rate del mutuo. È stata l’avidità dei grandi manager bancari degli States a portare il mondo sull’orlo del baratro. «L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento», scrive nella suddetta enciclica Benedetto XVI. Già, l’etica. Andare alla ricerca di cause prettamente “tecniche” del disastro significa ritrovarsi sempre punto e daccapo. L’economia non è un mondo a parte, non può ridursi semplicemente a “tecnica”, quindi non può illudersi di fare a meno di saldi princìpi morali. Quest’illusione, prima o poi, ha effetti devastanti. Sostituire ai vertici delle grandi banche i vecchi manager con dei nuovi altrettanto spregiudicati significa andare dritti verso una nuova recessione. È solo questione di tempo. Il Papa scrive anche: «Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana.» La globalizzazione, infatti, non è buona o cattiva di per sé, essa comporta rischi ed offre opportunità. È solo uno strumento, spetta all’uomo decidere che uso farne. Se n’è fatto finora un uso cattivo, che ha inasprito le ineguaglianze nei popoli e tra i popoli. Nell’economia globalizzata, spiega Benedetto XVI, «l’aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri deve essere considerato come vero strumento di creazione di ricchezza per tutti». Gli Stati sviluppati potranno destinare «maggiori quote del loro prodotto interno lordo… anche rivedendo le politiche di assistenza e di solidarietà sociale al loro interno, applicandovi il principio di sussidiarietà e creando sistemi di previdenza sociale maggiormente integrati, con la partecipazione attiva dei soggetti privati e della società civile. In questo modo è possibile perfino migliorare i servizi sociali e di assistenza e, nello stesso tempo, risparmiare risorse, anche eliminando sprechi e rendite abusive, da destinare alla solidarietà internazionale.» Se negli ultimi anni, invece che agli economisti, avessimo dato retta ai teologi, forse ora non saremmo qui a farci coraggio dicendoci che il peggio è passato.
Mauro Ammirati