mercoledì 26 maggio 2010

Le ragioni dell'economia


Stavolta è diverso, è un’altra storia. Con L’Europa, in fondo, si può anche scherzare. Se serve, a Bruxelles chiudono un occhio, talvolta tutti e due. I mercati no, gli occhi li hanno sempre spalancati, ti fanno i conti in tasca e se capiscono – e lo capiscono sempre – che non sei affidabile, se non li convinci, allora sono dolori. Ne sa qualcosa la Grecia, hanno dovuto farsene una ragione tutti i Paesi che compongono l’unione monetaria, i quali sono intervenuti per salvare dalla bancarotta la stessa Grecia ed insieme a questa l’euro. Nel caso quell’intervento non ci fosse stato, Atene avrebbe trascinato tutti noi altri dell’eurogruppo nella rovina. No, con i mercati non si scherza, purtroppo. Vi ricordate quando ci ammisero nell’unione monetaria? Ebbene, lo sanno tutti, non avevamo la carte in regola, il nostro debito era di circa il 120% del Pil, quando il Trattato di Maastricht stabiliva che un parametro del 60%. Ma prevalsero le ragioni della politica. L’Italia, uno dei sei soci fondatori di quell’organizzazione sovrannazionale che una volta si chiamava Cee ed oggi Unione Europea, il Paese di Alcide De Gasperi, uno dei padri dell’europeismo, insieme a Spaak, Adenauer e Schuman; ebbene l’Italia, con quei titoli, con quella storia, si argomentava, non poteva essere esclusa dal gruppo della moneta unica. Sarebbe stato per l’euro un pessimo esordio. Così, ci si aggrappò ad un aggettivo: “tendenziale”. Dissero, i leaders politici dell’Europa comunitaria, che il debito pubblico italiano era, sì, oltre il limite consentito, ma quello “tendenziale” era accettabile. Deferenti, ringraziammo. È la politica, bellezza, avrebbe detto Humphrey Bogart. Ecco in cosa differisce la situazione attuale da quelle del passato: ai mercati della storia e delle ragioni d’opportunità politica non interessa un bel niente. Guardano solo i bilanci, sulla base di questi decidono se acquistare o no i titoli di Stato. Se non li acquistano e l’asta va male, sei nei guai. In grossi guai.


Dunque, tutti i Paese occidentali, non solo quelli che hanno adottato la moneta unica europea, fanno o si apprestano a fare manovre finanziarie per rimettere i conti a posto. Sono tutti spaventosamente indebitati – siamo in buona compagnia, una volta tanto – perché, a causa della recessione, più o meno tutti hanno praticato negli ultimi tempi politiche di deficit spending, l’unico modo che ci fosse per ammortizzare l’urto della crisi (la più devastante dal 1929 ad oggi). Quanto all’Italia, l’opinione di molti economisti – quelli, ricordiamolo ancora una volta, che le crisi non le prevedono mai, ma non smettono di dare lezioni al mondo intero – è che il ministro Tremonti stia «raschiando il barile», cioè che stia intervenendo solo sulla spesa corrente, invece che sugli automatismi strutturali, cioè pensioni e Pubblica amministrazione. Se hanno ragione – qualche volta ci prendono anche loro – allora c’è di che preoccuparsi. Infatti, ordinariamente, è già assai difficile che politiche economiche di rigore vengano attuate con successo da governi di coalizione, figuriamoci da un governo eterogeneo come il nostro. Ci riescono con fatica esecutivi monopartitici, si ritiene che stavolta non ci si debba aspettare granché nemmeno dalla Gran Bretagna, dove il conservatore Cameron ha formato un esecutivo alleandosi con i liberaldemocratici. Da quelle parti non sono abituati ai governi di coalizione, dunque ora sono molto scettici. Per farla breve: se da Berlusconi si esige che affondi il bisturi nella spesa pubblica, se davvero si vuole una vera svolta in politica economica, allora l’alleanza di centrodestra deve mostrare una compattezza ed una coesione che non si sono mai viste prima. Vale a dire, essere alleati, ma fingendo di essere un solo partito. Tremonti sa che non è possibile. E, confidando in tempi migliori, raschia il barile.

Mauro Ammirati