giovedì 9 ottobre 2014

Tempi diversi, stessi errori


         Abbiamo trascorso gli ultimi mesi a scontrarci sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ed il Jobs Act proposto dal governo Renzi, ora in via d’approvazione del Parlamento (è appena passato al Senato, ma il governo si è visto costretto a ricorrere al voto di fiducia, per evitare brutte sorprese). La riforma della legislazione sul lavoro ha lacerato il centrosinistra, il Pd ed il sindacato, ma il Presidente del Consiglio ne ha fatto la linea del Piave del suo programma di governo, sostenendo che tale misura sia necessaria non solo per combattere la disoccupazione (pericolosamente intorno al 13%), ma anche a far ripartire l’economia e restituire credibilità all’Italia. Ancora prima di assumere la carica di premier, Renzi ha saputo accreditarsi presso l’opinione pubblica nazionale ed internazionale come l’uomo delle riforme, del rinnovamento, della discontinuità, l’unico che abbia le qualità e la determinazione per rimettere in piedi un Paese in ginocchio (un dato di sole 48 ore fa: quasi 100.000 italiani, nel 2013, si sono trasferiti all’estero). L’immagine di leader risoluto e pragmatico con cui ha saputo presentarsi all’elettorato gli è valsa l’etichetta di «Berlusconi di sinistra», in effetti questo giovane fiorentino che ripete di avere l’ambizione di «cambiare l’Italia»  ricorda tantissimo l’imprenditore milanese che, vent’anni fa, voleva fare «la rivoluzione liberale». Gli slogan sono diversi, perché i tempi sono diversi e richiedono linguaggi diversi, ma la sostanza è la stessa. In questi giorni, gira una vignetta sui social network, in cui Berlusconi sorridente e soddisfatto dice: «Non sono riuscito a fare le riforme con il mio partito, così mi sono fatto un governo di sinistra.» Come spesso avviene, anche stavolta, attraverso apparenti paradossi, la satira politica ha spiegato la realtà meglio di mille editoriali. Berlusconi oggi è un leader in declino, difficile che gli riesca l’ennesima stupefacente ripresa, quando parla della sua esperienza di Capo di governo insiste sempre sul medesimo argomento: «Non mi hanno fatto governare, ho avuto sempre alleati inaffidabili, come Bossi, Casini, Follini, Fini...» Onestamente, va riconosciuto che quando il centrodestra aveva una forte maggioranza in Parlamento, il governo la vera opposizione l’aveva dentro casa ed era costretto a mediare e negoziare su tutto. Ricordo che, tempo fa, un giornalista di centrodestra scrisse che il vero errore di Berlusconi era stato quello di affidare il ministero dell’Economia e la realizzazione di riforme liberali a Giulio Tremonti, un fiscalista che non si era mai definito liberale, ma «colbertista», per usare un termine più semplice, un dirigista. Renzi non ha compiuto gli stessi sbagli, si è sbarazzato subito d’una potenziale spina nel fianco come D’Alema, ha tenuto fuori dal governo Bersani, ha scelto come ministro dell’Economia un ex funzionario dell’Ocse, Padoan (si dice che gliel’abbia suggerito Mario Draghi), uno che considera il liberismo una divinità, in più si è circondato di «ministri ragazzini» (definizione dell’imprenditore Diego Della Valle, un suo ex sostenitore) come la Madia e la Boschi. Nel Pd è criticato da una minoranza, ma aveva ben altri guai Berlusconi quando doveva vedersela con le bizze di Casini e Fini. Tra le due situazioni, non c’è paragone. Il punto è che le riforme di Renzi non sono quelle che servono all’Italia, non sarebbero servite neppure se le avesse fatte Berlusconi. Per fare un esempio, quell’articolo 18 che i governi di centrodestra non sono mai riusciti ad abolire, è solo un feticcio ideologico. Quando l’economia italiana tirava, mai nessun imprenditore ha rinunciato a produrre i beni richiesti dal mercato pur di non assumere. Le riforme liberali di Renzi, che piacciono tanto a Berlusconi, avrebbero un senso se gli italiani andassero dal supermercato e non trovassero le merci che cercano. Il vecchio ed il nuovo Berlusconi dall’accento fiorentino sono convinti che il nostro sistema economico non esprima tutto il suo enorme potenziale a causa della burocrazia, la spesa pubblica improduttiva, il sistema giudiziario inefficiente, la legislazione del lavoro troppo rigida e che, quindi, sia necessaria una robusta dose di liberismo. Ora, non ci crederete, ma, appena due giorni fa, il Fondo monetario internazionale, il custode dell’ortodossia liberista, ha pubblicato un documento in cui dice che il modo migliore per uscire dalla recessione è investire in infrastrutture, spendendo a deficit, perché in tempi di deflazione, come questi, le grandi opere pubbliche sono a costo zero. Per favore, andate a spiegarlo ai due Berlusconi. Quello mancato e quello aspirante.

         Mauro Ammirati