Abbiamo trascorso gli ultimi mesi a scontrarci sull’articolo
18 dello Statuto dei lavoratori ed il Jobs Act proposto dal governo Renzi, ora
in via d’approvazione del Parlamento (è appena passato al Senato, ma il governo
si è visto costretto a ricorrere al voto di fiducia, per evitare brutte
sorprese). La riforma della legislazione sul lavoro ha lacerato il
centrosinistra, il Pd ed il sindacato, ma il Presidente del Consiglio ne ha
fatto la linea del Piave del suo programma di governo, sostenendo che tale
misura sia necessaria non solo per combattere la disoccupazione
(pericolosamente intorno al 13%), ma anche a far ripartire l’economia e
restituire credibilità all’Italia. Ancora prima di assumere la carica di premier,
Renzi ha saputo accreditarsi presso l’opinione pubblica nazionale ed
internazionale come l’uomo delle riforme, del rinnovamento, della
discontinuità, l’unico che abbia le qualità e la determinazione per rimettere
in piedi un Paese in ginocchio (un dato di sole 48 ore fa: quasi 100.000 italiani,
nel 2013, si sono trasferiti all’estero). L’immagine di leader risoluto e
pragmatico con cui ha saputo presentarsi all’elettorato gli è valsa l’etichetta
di «Berlusconi di sinistra», in effetti questo giovane fiorentino che ripete di
avere l’ambizione di «cambiare l’Italia»
ricorda tantissimo l’imprenditore milanese che, vent’anni fa, voleva
fare «la rivoluzione liberale». Gli slogan sono diversi, perché i tempi sono
diversi e richiedono linguaggi diversi, ma la sostanza è la stessa. In questi
giorni, gira una vignetta sui social network, in cui Berlusconi sorridente e
soddisfatto dice: «Non sono riuscito a fare le riforme con il mio partito, così
mi sono fatto un governo di sinistra.» Come spesso avviene, anche stavolta,
attraverso apparenti paradossi, la satira politica ha spiegato la realtà meglio
di mille editoriali. Berlusconi oggi è un leader in declino, difficile che gli
riesca l’ennesima stupefacente ripresa, quando parla della sua esperienza di
Capo di governo insiste sempre sul medesimo argomento: «Non mi hanno fatto
governare, ho avuto sempre alleati inaffidabili, come Bossi, Casini, Follini,
Fini...» Onestamente, va riconosciuto che quando il centrodestra aveva una
forte maggioranza in Parlamento, il governo la vera opposizione l’aveva dentro casa
ed era costretto a mediare e negoziare su tutto. Ricordo che, tempo fa, un
giornalista di centrodestra scrisse che il vero errore di Berlusconi era stato
quello di affidare il ministero dell’Economia e la realizzazione di riforme
liberali a Giulio Tremonti, un fiscalista che non si era mai definito liberale,
ma «colbertista», per usare un termine più semplice, un dirigista. Renzi non ha
compiuto gli stessi sbagli, si è sbarazzato subito d’una potenziale spina nel
fianco come D’Alema, ha tenuto fuori dal governo Bersani, ha scelto come
ministro dell’Economia un ex funzionario dell’Ocse, Padoan (si dice che
gliel’abbia suggerito Mario Draghi), uno che considera il liberismo una
divinità, in più si è circondato di «ministri ragazzini» (definizione dell’imprenditore
Diego Della Valle, un suo ex sostenitore) come la Madia e la Boschi. Nel Pd è
criticato da una minoranza, ma aveva ben altri guai Berlusconi quando doveva
vedersela con le bizze di Casini e Fini. Tra le due situazioni, non c’è
paragone. Il punto è che le riforme di Renzi non sono quelle che servono
all’Italia, non sarebbero servite neppure se le avesse fatte Berlusconi. Per
fare un esempio, quell’articolo 18 che i governi di centrodestra non sono mai
riusciti ad abolire, è solo un feticcio ideologico. Quando l’economia italiana
tirava, mai nessun imprenditore ha rinunciato a produrre i beni richiesti dal
mercato pur di non assumere. Le riforme liberali di Renzi, che piacciono tanto
a Berlusconi, avrebbero un senso se gli italiani andassero dal supermercato e
non trovassero le merci che cercano. Il vecchio ed il nuovo Berlusconi
dall’accento fiorentino sono convinti che il nostro sistema economico non
esprima tutto il suo enorme potenziale a causa della burocrazia, la spesa
pubblica improduttiva, il sistema giudiziario inefficiente, la legislazione del
lavoro troppo rigida e che, quindi, sia necessaria una robusta dose di
liberismo. Ora, non ci crederete, ma, appena due giorni fa, il Fondo monetario
internazionale, il custode dell’ortodossia liberista, ha pubblicato un
documento in cui dice che il modo migliore per uscire dalla recessione è
investire in infrastrutture, spendendo a deficit, perché in tempi di deflazione,
come questi, le grandi opere pubbliche sono a costo zero. Per favore, andate a
spiegarlo ai due Berlusconi. Quello mancato e quello aspirante.
Mauro Ammirati