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Che
sia giusto o sbagliato, le elezioni regionali, in Italia, da sempre sono
considerate una sorta di sondaggio sul governo nazionale. Non dovrebbe essere
così, perché non vi è alcuna relazione tra l’elezione dei Consigli regionali ed
il giudizio che si dà sulle Giunte regionali uscenti, da una parte e l’operato
del governo nazionale, dall’altra. Per di più, da un ventennio, il Presidente
della Regione è eletto direttamente dal popolo, quindi dare una valenza “politica”
a questo voto significa, di fatto, esautorare la nuova legge elettorale. Il
punto è che sono gli stessi leaders politici nazionali a voler approfittare
d’ogni circostanza per rafforzare la propria posizione, come se la vittoria
d’un candidato di centrodestra in Molise o in Val d’Aosta significasse, nella
situazione attuale, un segno di sfiducia verso il governo Renzi. Ma tant’è. Se,
convenzionalmente, la lettura dei dati è quella appena spiegata, allora va
tenuto conto delle conseguenze della lettura stessa sugli equilibri politici.
Dunque, cominciamo con il dire che il messaggio più importante che gli elettori
hanno mandato in occasione delle elezioni dello scorso 2 giugno è quello
relativo all’affluenza ai seggi: il 48% degli aventi diritto non è andato a
votare. È un fenomeno diffuso nelle democrazie occidentali, ma, almeno per
quanto mi riguarda, il «mal comune» non è sempre «mezzo gaudio». In Italia,
ormai, ci sono più partiti che Pro loco, ma la metà degli italiani non ne trova
uno cui dare il proprio consenso. Non mi sembra un dato da ignorare. Il Pd
vince in 5 regioni su 7, ma viene travolto in Veneto, dove il suo candidato non
ottiene più del 23,37%, mentre quello del centrodestra prende il 52,18%,
nonostante la Lega Nord abbia subito una scissione. Perde anche in Liguria, il
centrosinistra, dove si era diviso presentando due candidati diversi alla
Presidenza, una dimostrazione tangibile di quanto siano sempre più tesi e
difficili, nel Pd, i rapporti tra i renziani e l’ala di sinistra. Nessun
candidato del M5S riesce a farsi eleggere Presidente della Regione, ma la
percentuale dei voti raccolti è in crescita, rispetto al deludente risultato
dello scorso anno alle elezioni europee. I numeri dicono che se si votasse oggi
con l’Italicum, la nuova legge elettorale (che andrà in vigore solo dal luglio
2016), al ballottaggio andrebbero M5S e Pd. La situazione, dunque, è
estremamente preoccupante per il centrodestra, che ora ha anche un problema
attinente ai rapporti di forza interni. Infatti, se, in Veneto, la Lega Nord
ottiene il 23,08%, mentre Forza Italia si ferma ad un misero 5,97%, nelle
regioni dell’Italia centrale, le liste formate sotto la leadership di Matteo
Salvini, cioè quelle filoleghiste, raggiungono la doppia cifra: 13,99% in
Umbria, 13,02% nelle Marche, 16,16% in Toscana. Percentuali che, ai tempi della
leadership di Bossi, la Lega non osava neppure sognare. Sotto la guida di
Salvini, il partito sfonda anche a sud della linea gotica, al punto da
sorpassare Forza Italia. Bossi non metteva in discussione la permanenza
dell’Italia nell’Unione europea e, per distinguersi dagli alleati di
centrodestra, minacciava la secessione del nord; Salvini contesta duramente
l’Unione europea, chiede la secessione dell’Italia dall’eurozona e dice di
rappresentare anche gli interessi del Meridione italiano. Il radicale mutamento
di linea politica finora è stato premiato. Nella lotta contro l’euro, la Lega è
in compagnia del M5S e Fratelli d’Italia, che ha visto crescere la percentuali
di voti ottenuti un po’ dappertutto. Anche in Italia, soffia sempre più forte
il vento antieuropeista.
Mauro Ammirati