Di questi tempi, c’è molto da lavorare per i politologi.
Devono rimettere mano ai saggi ed ai libri che hanno pubblicato negli ultimi
30-40 anni e stavolta non si tratta dei soliti aggiornamenti. Quei lavori di
ricerca e d’analisi, ormai, parlano d’un mondo che non esiste più. Un mondo che
era sopravvissuto anche alla caduta del Muro di Berlino, ma ora sta cadendo
sotto i colpi di piccone d’un fenomeno imprevedibile fino a poco tempo fa. Ci è
stato insegnato, per decenni, che le grandi democrazie occidentali erano
fondate sul bipolarismo o bipartitismo, sull’alternanza al governo tra
conservatori e riformisti, liberali e socialdemocratici, centrodestra e
centrosinistra. I primi che cercavano di
arginare la presenza dello Stato in economia e non si preoccupavano
particolarmente delle diseguaglianza sociali, i secondi che cercavano di
mantenere lo Stato dirigista e di redistribuire la ricchezza. E siccome ogni
regola ha le sue eccezioni, ci veniva spiegato che in Paesi come l’Italia e
quelli scandinavi (quasi irrilevanti, in quanto poco popolosi) la democrazia
dell’alternanza non aveva mai davvero attecchito. Neanche una grande democrazia
come quella tedesca era mai stata rigidamente bipolare, ricorrendo, in diverse
circostanze, alla grande coalizione di governo tra democristiani e
socialdemocratici. L’archetipo della democrazia dell’alternanza era quella che
aveva messo radici in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (un Paese costruito dai
discendenti degli inglesi, non a caso), dove la competizione era, ordinariamente,
un discorso a due ed i governi monopartitici la norma. Il Parlamento di
Westminster, a Londra, pensate un po’, non è un emiciclo, ma ha la forma
rettangolare. C’era stata qualche “incursione” dell’alleanza tra liberali e
socialdemocratici, per scardinare il sistema, ma, fino ad oggi, i governi di
Sua Maestà erano sempre stati saldamente in pugno ai laburisti o ai
conservatori. Solo negli States tiene il tradizionale bipartitismo, tra
repubblicani e democratici, ma è da tenere presente che in un Paese di così
grandi dimensioni la campagna elettorale è costosissima e senza i cospicui
finanziamenti delle grandi lobby chi è fuori dall’establishment non ha speranza
di battere i partiti storici. Bene, ora, come direbbe Bartali: «L’è tutto da
rifare». Già, perché nella vecchia Europa avanzano le “terze forze” o, se
preferite, i “terzi incomodi”, gli ousiders, i guastafeste. In Italia, è in
crescita il M5S (presto potrebbe prendersi il Comune di Roma e non sarebbe un
segnale da poco), in Francia il Front National, in Spagna Podemos ed in Gran
Bretagna l’Ukip, solo per menzionare i casi più importanti. A volte, si tratta
di movimenti che non si lasciano collocare secondo le categorie di destra e
sinistra (M5S e Ukip) e quasi sempre sono danneggiati dalla difficoltà di
trovare alleati e dal sistema elettorale (i collegi uninominali inglesi e
francesi). Il punto centrale è che sono accusati di cavalcare il malcontento,
di fare demagogia, di essere populisti... ma i loro consensi sono accresciuti
dalla manifesta impotenza dei governi a risolvere i problemi più gravi, a
cominciare dalla disoccupazione. Che sia di centrodestra o di centrosinistra,
ogni Primo ministro non sa fare altro che chiedere di avere fiducia, confida
che la ripresa si irrobustisca quanto basta per creare qualche posto di lavoro,
chiede agli imprenditori di investire di più, come se questi facessero
beneficenza, spesso si mette da parte e lascia la scena al tecnico che spiega
che il rapporto debito/Pil è migliorato... Di più, non riescono a dare. Si sono
arresi al primato dell’economia, alla sovranità dei mercati, alla politica
ancillare, i frutti avvelenati della globalizzazione e, quel che è peggio, da
questa gabbia ora non sanno come uscire. Davanti alle macerie d’una recessione
devastante, ti danno una pacca sulla spalla per farti coraggio. Ci vorrebbe un
New Deal. Ma, soprattutto, ci vorrebbe un Roosvelt.
Mauro Ammirati