Nonostante debba tenersi nel prossimo ottobre, il referendum
con cui approvare o respingere la riforma costituzionale fatta dal governo
Renzi ha acceso il dibattito politico sin da ora. Neanche i referendum su
divorzio e aborto, in un Paese di tradizione cattolica come l’Italia,
infiammarono il rapporto tra i partiti con cinque mesi d’anticipo rispetto al
voto. È stato proprio il Capo di governo, ossia il fautore della riforma in
questione, a “politicizzare” il referendum, assumendosi davanti a tutta la nazione
l’impegno a dimettersi dalla carica in caso di vittoria del “no”. Una mossa che
può sembrare azzardata ed imprudente, ma, come spiegavo nell’ultimo numero di
questo periodico, assolutamente sensata se messa in relazione con le ambizioni
di Matteo Renzi. Alzare la posta fino a giocarsi il tutto per tutto, infatti,
era l’unica possibilità che egli avesse per fare di questo referendum un
plebiscito e raccogliere quel consenso di cui necessita per accrescere il suo
potere negoziale ai vertici dell’Ue. Il 40% ottenuto alle elezioni europee
(percentuale da Dc dei tempi di De Gasperi), per quanto importante, rappresentava
il consenso ottenuto dal partito, non solo dal leader, quindi una vittoria i
cui meriti andavano ripartiti tra i tutti dirigenti del Pd; mentre a vincere o
perdere il referendum di ottobre sarà solo Matteo Renzi, perché è stato proprio
a lui a “rilanciare”, mettendo sul piatto addirittura la sua carriera politica.
Dunque, se gli italiani ora discutono tanto d’un referendum che avrà luogo tra
cinque mesi non significa affatto che siano diventati tutti appassionati di
diritto costituzionale, il ruolo più ambito da loro – lo confesso, anche da me
- sarà sempre quello di ct della nazionale di calcio, non quello di giudice
della Consulta o di professore di diritto pubblico e comparato. La verità è che
non si decide se tenersi o no questo Senato, ma se tenersi o no questo governo.
E tutti sono consapevoli che le dimissioni di Renzi potrebbero avere nel Pd
effetti imprevedibili. Potete essere certi che non servirà assolutamente e
nulla dire che una riforma della Costituzione va tenuta distinta dalla sorte del
governo, chi proverà a tenere le due questioni separate dimostrerà di non aver
letto Carl Schmitt, il quale, un secolo fa, spiegava che la distinzione
principale nell’estetica è bello e brutto, nella morale buono e cattivo,
nell’economia redditizio e non redditizio, in politica amico e nemico. Ecco
perché spesso viene avversata una buona proposta di legge unicamente perché è presentata
dal nemico e viene sostenuta una pessima proposta di legge solo perché è
presentata dall’amico. La politica è un’attività praticata sul crinale tra
ragione e passione, accademia e tifoseria da stadio, lucido calcolo e spirito
d’appartenenza. Nel caso non sia ancora abbastanza chiaro, lo spiego in termini
più semplici: in politica è assolutamente normale evirarsi per fare dispetto
alla moglie. Così, molti italiani voteranno “no” alla riforma costituzionale,
perché, pur essendo favorevoli al Senato delle autonomie, vogliono farla finita
con i governi di centrosinistra e dell’austerità; altri, a dispetto delle loro
perplessità sul superamento del bicameralismo perfetto, voteranno “sì” perché
temono che le dimissioni di Renzi spalanchino la porta ad una lunga stagione
d’instabilità. Non so se Matteo Renzi abbia letto Schmitt. Ma, da buon
fiorentino, Machiavelli l’ha letto di sicuro. Un altro che, quanto a realismo e
spregiudicatezza, non doveva prendere lezioni da nessuno.
Mauro Ammirati