Non si farà, per ora, la Catalogna indipendente, se ne
riparlerà, forse, tra trenta o quaranta anni, se gli eventi prenderanno una
certa direzione. È stata una vicenda appassionante, al punto che in Italia si
sono formate due tifoserie, i favorevoli ed i contrari alla secessione, quelli
che stavano con Madrid e quelli che stavano con Barcellona. Ed il destino ha
voluto che, nelle stesse convulse settimane, in Italia, i cittadini di due
regioni, Lombardia e Veneto, andassero a votare ad un referendum che aveva ad
oggetto una maggiore autonomia delle regioni stesse dal governo di Roma. Due
situazioni molto diverse, intendiamoci, perché rivendicare l’indipendenza
significa costituire un nuovo Stato sovrano, mentre l’autonomia consiste nel
disporre del potere legislativo su un certo numero di materie e
regolamentarsele per conto proprio, ma restando parte integrante dello Stato,
senza separarsene. Il dato saliente è che sia i catalani che i promotori del
referendum in questione hanno cercato la legittimità politica della loro azione
nel principio dell’autodeterminazione dei popoli. Un argomento che sembra vada
bene tanto ai secessionisti quanto agli autonomisti. E già qui uno dovrebbe
cominciare a capire che questo principio va preso e maneggiato con molta
prudenza. Come si sa, fu il Presidente americano Woodrow Wilson uno dei più
convinti sostenitori del principio dell’autodeterminazione dei popoli, ma erano
altri tempi, si era appena conclusa la Prima Guerra Mondiale e due imperi
plurinazionali, quello ottomano e quello austroungarico, si erano sbriciolati,
lasciando a tante comunità etniche l’opportunità storica di darsi uno Stato o
di unirsi alla madrepatria, come i nostri altoatesini. La questione delle
nazionalità era drammaticamente attuale (en passant, la scintilla della guerra
era stato l’attentato di Sarajevo, compiuto da un nazionalista serbo). È
trascorso un secolo da allora, viviamo sotto un altro cielo, ma la questione
dell’autodeterminazione, ai giorni nostri, è tornata al centro del dibattito
politico in molti Paesi. La brace dei secessionismi resta accesa sotto la
cenere in varie parti d’Europa, pronta a divampare di nuovo. Basti pensare a
ciò che ha dichiarato il Presidente della Commissione europea, Junker: «L’Ue
non può riconoscere la Catalogna indipendente, è già difficile far funzionare l’Europa
e 27, figuriamoci a 98.» Già, perché, legittimando la secessione catalana, l’Ue
avrebbe incoraggiato rivendicazioni indipendentistiche un po’ dappertutto, per
esempio, nella nostra Sardegna, nel Paese Basco, in Baviera, in Corsica, nelle
Fiandre, solo per fare alcuni nomi. «L’Europa a 98», come dice Junker, sarebbe
presto diventata una realtà. Ora, dobbiamo porci una domanda: perché siamo
arrivati ad una tale situazione da temere un incontrollabile effetto domino? In
termini semplici: a cosa dobbiamo tutte queste spinte centrifughe, tutta questa
voglia di separarsi, di mettersi in proprio? La risposta è: alla fine della
Guerra Fredda, consideratela pure una vendetta postuma del comunismo. Quando
avevamo un nemico – e che nemico! -, che ti costruiva un muro a Berlino e
sparava a chiunque vi si avvicinasse senza permesso, che ti faceva vivere nell’incubo
di un’invasione o d’un conflitto nucleare, dovevamo stare tutti inquadrati e
coperti, se qualcuno parlava d’autodeterminazione dei popoli lo prendevano a
pernacchie. La situazione non consentiva a nessuno di defilarsi, secedere,
creando problemi e tensioni interne, equivaleva ad imboscarsi, ad indebolire la
compattezza del fronte, un lusso che non ci si poteva permettere. Il crollo del
Patto di Varsavia è stato come sentirsi dire dal sergente: «sciogliete l’inquadramento»,
«rompete le righe» e ognun per sé. Il resto lo ha fatto una certa faciloneria o,
se preferite, superficialità, che ha ridotto il principio dell’autodeterminazione
dei popoli ad una banalità, uno slogan, un mezzo di marketing politico, buono
per fare qualunque secessione si voglia o per avere più autonomia allo scopo di
pagare meno tasse, indifferentemente, uno strumento facile da maneggiare in
ogni situazione ed alla portata di tutti. La conseguenza è che diverse comunità
si sono convinte che il loro dialetto sia, in realtà, una lingua, che un abito
folcloristico o qualche antica tradizione sia sufficiente per considerarsi un
popolo, quindi non più una regione, ma una nazione e di avere, pertanto,
diritto a separarsi dal resto del Paese. I leader politici e diversi politologi
hanno completato l’opera diffondendo una dottrina secondo la quale si può dare
vita ad un nuovo Stato semplicemente “armandosi” di matita e d’una scheda
referendaria, basta passare al seggio, votare “sì” all’indipendenza e, tra
qualche ora, terminato lo spoglio, sarai cittadino d’una nuova repubblica. No,
purtroppo, cari amici, non è così semplice. Le secessioni, spesso, costano
sangue, molto sangue, capita di rado che si facciano in modo incruento alla
maniera dei cechi e degli slovacchi. I croati hanno pagato un prezzo altissimo,
in vite umane, alla loro indipendenza, noi italiani ci impelagammo in un
conflitto mondiale perché l’Alto Adige potesse secedere dall’Austria, gli
eritrei hanno combattuto un trentennio con l’Etiopia per avere un loro Stato e
potrei continuare. Il principio dell’autodeterminazione dei popoli è una cosa
maledettamente e tragicamente seria. Meno ci scherzate, meglio è.
Mauro Ammirati