venerdì 3 novembre 2017

Armi e matite

         Non si farà, per ora, la Catalogna indipendente, se ne riparlerà, forse, tra trenta o quaranta anni, se gli eventi prenderanno una certa direzione. È stata una vicenda appassionante, al punto che in Italia si sono formate due tifoserie, i favorevoli ed i contrari alla secessione, quelli che stavano con Madrid e quelli che stavano con Barcellona. Ed il destino ha voluto che, nelle stesse convulse settimane, in Italia, i cittadini di due regioni, Lombardia e Veneto, andassero a votare ad un referendum che aveva ad oggetto una maggiore autonomia delle regioni stesse dal governo di Roma. Due situazioni molto diverse, intendiamoci, perché rivendicare l’indipendenza significa costituire un nuovo Stato sovrano, mentre l’autonomia consiste nel disporre del potere legislativo su un certo numero di materie e regolamentarsele per conto proprio, ma restando parte integrante dello Stato, senza separarsene. Il dato saliente è che sia i catalani che i promotori del referendum in questione hanno cercato la legittimità politica della loro azione nel principio dell’autodeterminazione dei popoli. Un argomento che sembra vada bene tanto ai secessionisti quanto agli autonomisti. E già qui uno dovrebbe cominciare a capire che questo principio va preso e maneggiato con molta prudenza. Come si sa, fu il Presidente americano Woodrow Wilson uno dei più convinti sostenitori del principio dell’autodeterminazione dei popoli, ma erano altri tempi, si era appena conclusa la Prima Guerra Mondiale e due imperi plurinazionali, quello ottomano e quello austroungarico, si erano sbriciolati, lasciando a tante comunità etniche l’opportunità storica di darsi uno Stato o di unirsi alla madrepatria, come i nostri altoatesini. La questione delle nazionalità era drammaticamente attuale (en passant, la scintilla della guerra era stato l’attentato di Sarajevo, compiuto da un nazionalista serbo). È trascorso un secolo da allora, viviamo sotto un altro cielo, ma la questione dell’autodeterminazione, ai giorni nostri, è tornata al centro del dibattito politico in molti Paesi. La brace dei secessionismi resta accesa sotto la cenere in varie parti d’Europa, pronta a divampare di nuovo. Basti pensare a ciò che ha dichiarato il Presidente della Commissione europea, Junker: «L’Ue non può riconoscere la Catalogna indipendente, è già difficile far funzionare l’Europa e 27, figuriamoci a 98.» Già, perché, legittimando la secessione catalana, l’Ue avrebbe incoraggiato rivendicazioni indipendentistiche un po’ dappertutto, per esempio, nella nostra Sardegna, nel Paese Basco, in Baviera, in Corsica, nelle Fiandre, solo per fare alcuni nomi. «L’Europa a 98», come dice Junker, sarebbe presto diventata una realtà. Ora, dobbiamo porci una domanda: perché siamo arrivati ad una tale situazione da temere un incontrollabile effetto domino? In termini semplici: a cosa dobbiamo tutte queste spinte centrifughe, tutta questa voglia di separarsi, di mettersi in proprio? La risposta è: alla fine della Guerra Fredda, consideratela pure una vendetta postuma del comunismo. Quando avevamo un nemico – e che nemico! -, che ti costruiva un muro a Berlino e sparava a chiunque vi si avvicinasse senza permesso, che ti faceva vivere nell’incubo di un’invasione o d’un conflitto nucleare, dovevamo stare tutti inquadrati e coperti, se qualcuno parlava d’autodeterminazione dei popoli lo prendevano a pernacchie. La situazione non consentiva a nessuno di defilarsi, secedere, creando problemi e tensioni interne, equivaleva ad imboscarsi, ad indebolire la compattezza del fronte, un lusso che non ci si poteva permettere. Il crollo del Patto di Varsavia è stato come sentirsi dire dal sergente: «sciogliete l’inquadramento», «rompete le righe» e ognun per sé. Il resto lo ha fatto una certa faciloneria o, se preferite, superficialità, che ha ridotto il principio dell’autodeterminazione dei popoli ad una banalità, uno slogan, un mezzo di marketing politico, buono per fare qualunque secessione si voglia o per avere più autonomia allo scopo di pagare meno tasse, indifferentemente, uno strumento facile da maneggiare in ogni situazione ed alla portata di tutti. La conseguenza è che diverse comunità si sono convinte che il loro dialetto sia, in realtà, una lingua, che un abito folcloristico o qualche antica tradizione sia sufficiente per considerarsi un popolo, quindi non più una regione, ma una nazione e di avere, pertanto, diritto a separarsi dal resto del Paese. I leader politici e diversi politologi hanno completato l’opera diffondendo una dottrina secondo la quale si può dare vita ad un nuovo Stato semplicemente “armandosi” di matita e d’una scheda referendaria, basta passare al seggio, votare “sì” all’indipendenza e, tra qualche ora, terminato lo spoglio, sarai cittadino d’una nuova repubblica. No, purtroppo, cari amici, non è così semplice. Le secessioni, spesso, costano sangue, molto sangue, capita di rado che si facciano in modo incruento alla maniera dei cechi e degli slovacchi. I croati hanno pagato un prezzo altissimo, in vite umane, alla loro indipendenza, noi italiani ci impelagammo in un conflitto mondiale perché l’Alto Adige potesse secedere dall’Austria, gli eritrei hanno combattuto un trentennio con l’Etiopia per avere un loro Stato e potrei continuare. Il principio dell’autodeterminazione dei popoli è una cosa maledettamente e tragicamente seria. Meno ci scherzate, meglio è.

         Mauro Ammirati