Il voto del 4 marzo ha tagliato geograficamente l’Italia in
due e, com’era stato previsto da molti, ha creato un Parlamento di minoranze.
Il M5S ottiene una schiacciante vittoria nel meridione, dove, in moltissimi
collegi uninominali, prende la maggioranza assoluta dei voti, mentre nel
settentrione è il centrodestra ad imporsi. Per dirla con una battuta che
circola nei social: «Neppure ai tempi della Lega separatista di Bossi siamo
stati così vicini alla secessione.» Qualche altro utente ha ironizzato: «Salvini
ha fatto della Lega un partito nazionale e ha resuscitato il Regno delle Due
Sicilie.» Lo ripetiamo, sono solo battute, ma che valgono a chiarire l’aspetto
più importante della situazione attuale: siamo passati dal tripolarismo politico
nato dalle elezioni del 2013 ad un bipolarismo territoriale. Un fatto
grottesco, ma reale. Un’opinione molto diffusa sia tra gli analisti, che tra i
cittadini comuni, è che il sud, depresso e con la disoccupazione giovanile al
50%, abbia votato M5S perché questo prometteva il reddito di cittadinanza,
mentre il nord, con la sua rete capillare di piccole e medie imprese, abbia
premiato il centrodestra perché il programma di questa coalizione includeva la
flat tax, ossia una riforma fiscale che taglia drasticamente la pressione
tributaria. Una lettura che a me, francamente, sembra alquanto superficiale.
Sono, invece, persuaso che quello del 4 marzo sia stato un rabbioso voto di
protesta contro un’intera classe dirigente, l’inevitabile reazione d’un Paese
provato da sette anni di dura austerità ed in cui è venuta a formarsi ciò che
più volte ho definito una miscela esplosiva, formata da disoccupazione,
immigrazione e smantellamento del welfare state. È però accaduto che la
protesta abbia assunto forme diverse, il nord ha votato, principalmente, una
componente del centrodestra, la Lega di Salvini, perché questa è stata
l’oppositore più ostinato ed intransigente, da destra, dei governi che si sono
succeduti dal 2011 ad oggi; mentre il sud ha votato M5S, perché la mutazione
genetica della Lega (che ha tolto la parola “nord” dal suo nome) in partito
nazionale è troppo recente e la diffidenza dei meridionali verso i leghisti,
comprensibilmente, sussiste. Non va, comunque, dimenticato che in una regione
del centrosud come l’Abruzzo il partito di Salvini ha raccolto il 14% dei
consensi, la stessa percentuale ottenuta dal Pd. Quindi, al di sotto della
“linea gotica”, il progetto di “nazionalizzare” l’ex partito nordista ha
ricevuto segnali incoraggianti.
Un altro dato da tenere in considerazione è la débacle del
centrosinistra, anzi della sinistra in generale. In Francia i socialisti sono
quasi scomparsi, in Germania sono ai minimi storici e si sono divisi sul
sostegno da dare alla Grande coalizione con la Cdu, in altri Paesi non se la passano
affatto bene, in Italia il Pd è sceso al 18% (prese il 40% appena quattro anni
fa, alle europee). I partiti di sinistra sono stati i più decisi a promuovere e
difendere la globalizzazione che, purtroppo, ha colpito i ceti più deboli,
quelli che, storicamente, avevano sempre votato a sinistra e dalla quale, ora,
si sentono traditi. In Italia le aziende delocalizzavano, tagliando posti di
lavoro ed il Pd diceva: «La globalizzazione è una risorsa»; Eurozona imponeva
un’ottusa e devastante austerità, che distruggeva la domanda interna,
costringendo centinaia di migliaia di piccole e medie imprese a chiudere ed i
governi di centrosinistra spiegavano che fuori dall’euro in Italia ci sarebbe
stata la desertificazione industriale, proprio mentre questa avveniva sotto gli
occhi di tutti; sulle nostre coste sbarcavano, ogni giorno, masse di disperati
provenienti dall’Africa ed il centrosinistra affermava che era un fatto
provvidenziale, perché gli africani avrebbero fatto i figli per noi e ci
avrebbero pagato le pensioni; il lavoro si faceva sempre più raro e sempre più
precario, fino ad arrivare alla stipulazione di contratti d’assunzione d’un
solo giorno, grazie al Job Act, una legge voluta dal governo Renzi ed il Pd
diceva che le nostre esportazioni crescevano. Il che era vero, il guaio era che
l’export cresceva proprio perché il lavoro era stato svalutato. Per anni,
politici ed intellettuali di sinistra hanno ripetuto: «La globalizzazione è
pace, gli Stati nazionali portano alla guerra», «dove passano le merci non
passano i carri armati», «l’Ue ci ha dato settant’anni di pace». Moltissimi
elettori hanno creduto a questi argomenti finché non hanno perso il posto di
lavoro o non si sono dovuti adattare ad un lavoro instabile e senza garanzie
per il futuro. Poi, hanno cambiato idea. Da noi, come in tutti i Paesi
comunitari. È stato il brusco risveglio da un sogno in cui solo una ristretta
élite continua a credere. Ma a votare non va solo le élite.
Mauro Ammirati