giovedì 8 marzo 2018

Uniti nella rabbia

         Il voto del 4 marzo ha tagliato geograficamente l’Italia in due e, com’era stato previsto da molti, ha creato un Parlamento di minoranze. Il M5S ottiene una schiacciante vittoria nel meridione, dove, in moltissimi collegi uninominali, prende la maggioranza assoluta dei voti, mentre nel settentrione è il centrodestra ad imporsi. Per dirla con una battuta che circola nei social: «Neppure ai tempi della Lega separatista di Bossi siamo stati così vicini alla secessione.» Qualche altro utente ha ironizzato: «Salvini ha fatto della Lega un partito nazionale e ha resuscitato il Regno delle Due Sicilie.» Lo ripetiamo, sono solo battute, ma che valgono a chiarire l’aspetto più importante della situazione attuale: siamo passati dal tripolarismo politico nato dalle elezioni del 2013 ad un bipolarismo territoriale. Un fatto grottesco, ma reale. Un’opinione molto diffusa sia tra gli analisti, che tra i cittadini comuni, è che il sud, depresso e con la disoccupazione giovanile al 50%, abbia votato M5S perché questo prometteva il reddito di cittadinanza, mentre il nord, con la sua rete capillare di piccole e medie imprese, abbia premiato il centrodestra perché il programma di questa coalizione includeva la flat tax, ossia una riforma fiscale che taglia drasticamente la pressione tributaria. Una lettura che a me, francamente, sembra alquanto superficiale. Sono, invece, persuaso che quello del 4 marzo sia stato un rabbioso voto di protesta contro un’intera classe dirigente, l’inevitabile reazione d’un Paese provato da sette anni di dura austerità ed in cui è venuta a formarsi ciò che più volte ho definito una miscela esplosiva, formata da disoccupazione, immigrazione e smantellamento del welfare state. È però accaduto che la protesta abbia assunto forme diverse, il nord ha votato, principalmente, una componente del centrodestra, la Lega di Salvini, perché questa è stata l’oppositore più ostinato ed intransigente, da destra, dei governi che si sono succeduti dal 2011 ad oggi; mentre il sud ha votato M5S, perché la mutazione genetica della Lega (che ha tolto la parola “nord” dal suo nome) in partito nazionale è troppo recente e la diffidenza dei meridionali verso i leghisti, comprensibilmente, sussiste. Non va, comunque, dimenticato che in una regione del centrosud come l’Abruzzo il partito di Salvini ha raccolto il 14% dei consensi, la stessa percentuale ottenuta dal Pd. Quindi, al di sotto della “linea gotica”, il progetto di “nazionalizzare” l’ex partito nordista ha ricevuto segnali incoraggianti.
         Un altro dato da tenere in considerazione è la débacle del centrosinistra, anzi della sinistra in generale. In Francia i socialisti sono quasi scomparsi, in Germania sono ai minimi storici e si sono divisi sul sostegno da dare alla Grande coalizione con la Cdu, in altri Paesi non se la passano affatto bene, in Italia il Pd è sceso al 18% (prese il 40% appena quattro anni fa, alle europee). I partiti di sinistra sono stati i più decisi a promuovere e difendere la globalizzazione che, purtroppo, ha colpito i ceti più deboli, quelli che, storicamente, avevano sempre votato a sinistra e dalla quale, ora, si sentono traditi. In Italia le aziende delocalizzavano, tagliando posti di lavoro ed il Pd diceva: «La globalizzazione è una risorsa»; Eurozona imponeva un’ottusa e devastante austerità, che distruggeva la domanda interna, costringendo centinaia di migliaia di piccole e medie imprese a chiudere ed i governi di centrosinistra spiegavano che fuori dall’euro in Italia ci sarebbe stata la desertificazione industriale, proprio mentre questa avveniva sotto gli occhi di tutti; sulle nostre coste sbarcavano, ogni giorno, masse di disperati provenienti dall’Africa ed il centrosinistra affermava che era un fatto provvidenziale, perché gli africani avrebbero fatto i figli per noi e ci avrebbero pagato le pensioni; il lavoro si faceva sempre più raro e sempre più precario, fino ad arrivare alla stipulazione di contratti d’assunzione d’un solo giorno, grazie al Job Act, una legge voluta dal governo Renzi ed il Pd diceva che le nostre esportazioni crescevano. Il che era vero, il guaio era che l’export cresceva proprio perché il lavoro era stato svalutato. Per anni, politici ed intellettuali di sinistra hanno ripetuto: «La globalizzazione è pace, gli Stati nazionali portano alla guerra», «dove passano le merci non passano i carri armati», «l’Ue ci ha dato settant’anni di pace». Moltissimi elettori hanno creduto a questi argomenti finché non hanno perso il posto di lavoro o non si sono dovuti adattare ad un lavoro instabile e senza garanzie per il futuro. Poi, hanno cambiato idea. Da noi, come in tutti i Paesi comunitari. È stato il brusco risveglio da un sogno in cui solo una ristretta élite continua a credere. Ma a votare non va solo le élite.

         Mauro Ammirati