venerdì 19 settembre 2008

Il punto è che sono giovani


L’attacco è arrivato proprio da dove nessuno se l’aspettava. A contestare Gianfranco Fini per le sue dichiarazioni sull’antifascismo sono stati gli appartenenti ad Azione giovani, l’organizzazione giovanile di An. All’intransigenza manifestata dal Presidente della Camera sui valori della Resistenza e della Costituzione, l’antifascismo appunto, la risposta dei ragazzi del suo partito è stata esplicita: «Non saremo mai antifascisti.» Proprio nel mezzo della festa di Azione giovani, dunque faccia a faccia con gli under 35 di An, Fini aveva detto, anzi ribadito, con estrema chiarezza che la svolta di Fiuggi era irreversibile, quindi che sulla condanna del regime del Ventennio non c’era più da discutere, che i ragazzi di Salò, seppure in buona fede, erano dalla parte sbagliata. Nulla che non avesse già detto, negli ultimi anni, in altre occasioni (la visita a Gerusalemme, per ricordare la più importante), ma stavolta, inaspettatamente, a reagire non sono stati i nostalgici, gli ex combattenti della X Mas, gli ex repubblichini… ma iscritti ad An nati quarant’anni dopo la fucilazione di Mussolini. Quella frase, «non saremo mai antifascisti», pubblicata su un sito web da uno dei massimi dirigenti di Azione giovani, non ha bisogno di essere interpretata. Una situazione a dir poco strana. Negli anni ’60, ’70 ed ’80 in Italia era opinione diffusa (e fondata) che la riconciliazione nazionale dopo la guerra civile seguita all’8 settembre 1943, l’avrebbero fatta, un giorno, le nuove generazioni. Non avrebbero mai potuto essere ex partigiani ed ex repubblichini, cioè coloro che la guerra civile l’avevano combattuta in prima persona, a superare, culturalmente e politicamente, il dopoguerra. Opinione che sembrava incontrare sempre più la conferma nei fatti. La svolta del M.s.i.-D.n in senso liberaldemocratica nel congresso di Fiuggi, è avvenuta sotto la leadership di Gianfranco Fini, classe 1952, uno che il fascismo l’aveva studiato sui libri di scuola. Ci si poteva dunque aspettare che, nel 2008, tra i tesserati di An, a respingere l’antifascismo fossero i venticinquenni ed i trentenni? Onestamente, è difficile credere che una simile presa di posizione qualcuno l’avesse prevista. Ma, con il senno di poi, il fatto è meno sorprendente di quanto sembri. Pensiamoci bene: dovrebbe entusiasmare i giovani militanti di An il fatto che oggi il loro è un partito di governo? Un giovane è inquieto per definizione, si lascia facilmente sedurre da ciò che siamo soliti chiamare idealismo, ha passione, slancio e generosità, cerca disperatamente una causa per cui prodigarsi, perciò ama gli eroi, i combattenti e tra questi, molto spesso, più gli sconfitti che i vincitori. Vi dice niente il fatto che tra le figure venerate tra i giovani di An vi sia addirittura Che Guevara? Sì, il medico argentino, figlio d’una famiglia borghese, che rinunciò ad una vita tranquilla ed agiata per andare in giro per il Sudamerica a fare il rivoluzionario. Volete che su questi ragazzi possa far presa l’argomento che senza l’antifascismo An oggi non avrebbe tanti ministri al governo? Se lo pensate davvero, non siete mai stati giovani.
Mauro Ammirati

venerdì 12 settembre 2008

Presidenzialismo e laicità


Per noi italiani le elezioni presidenziali americane sono qualcosa al limite dell’inconcepibile o, nel migliore dei casi, “un’americanata”, cioè un miscuglio di spettacolo, mania di grandezza, competizione nevrotica con una spruzzata di moralismo puritano (che, per inciso, da queste parti non gode proprio di molta stima e che, nell’immaginario collettivo, è una sorta di versione moderna dell’antico fariseismo). Perché, si chiedono un po’ tutti in Italia (ma potremmo estendere il discorso a tutta l’Europa continentale), durante la campagna elettorale più importante degli States si va a scavare senza ritegno nella vita privata dei candidati, fino ad arrivare agli anni dell’adolescenza, del college, delle prime partite di basket o baseball…? Perché è così importante accertare – è il caso di Barack Obama - se il padre del candidato fosse uno studente modello o un perdigiorno? Perché mai dovrebbe interessare agli elettori che – è il caso della Palin – il candidato ha un figlio affetto da sindrome di Down? Perché dovrebbe essere di pubblico dominio il fatto che l’aspirante Presidente o Vicepresidente ha tradito il coniuge? Inconcepibile, appunto. Almeno per noi italiani. Qui a nessuno verrebbe in mente di chiedere a Fassino o a Berlusconi se in gioventù abbia mai fumato uno spinello o se, una volta sposato, abbia mai avuto una relazione extraconiugale. Nelle campagne elettorali cui noi siamo abituati il giornalista suole domandare al candidato cosa intenda fare per il fisco, l’ambiente, la disoccupazione e l’ordine pubblico, quali obiettivi intenda perseguire e quali rapporti coltivare e come in politica estera… Le vicende private e familiari restano fuori dal dibattito politico. Seguendola da questo punto d’osservazione, la corsa per la White House suscita inevitabilmente una domanda: perché gli americani attribuiscono tanta importanza alle qualità personali dei candidati, al punto da dare l’impressione che vengano anteposte ai programmi politici? Potremmo rispondere a tale domanda alla maniera del caro vecchio Humphrey Bogart: è il presidenzialismo, bellezza. Nei sistemi politico-istituzionali fondati sull’elezione diretta dell’esecutivo, le idee, i programmi e le strategie hanno un volto, un nome, un cognome, una voce e, forse, pure un accento. Gli ideali si incarnano in una persona, quindi l’ascendente, l’affidabilità e la credibilità di costui (o costei) soverchiano gli ideali stessi. Fatta eccezione per la Francia (dove dal 1958 vige un sistema semipresidenziale), nelle democrazie consolidate del Vecchio continente il presidenzialismo è solo materia per studiosi di diritto costituzionale, le classi politiche europee ne hanno sempre diffidato e continuano a diffidarne. Da questa parte del mondo suol dirsi che la vera contrapposizione/competizione è tra conservatori e socialdemocratici, non tra due individui, questo è il paradigma, il vero confronto è tra due modelli di società o due culture o due visioni del futuro. Ergo, a nessun elettore italiano o tedesco interessano minimamente i peccati gioventù di questo o quel candidato, men che meno se chi gli chiede il voto abbia alle spalle una famiglia unita o in via di dissoluzione. Dopodiché, aggiungerei che Europa e States hanno due concetti differenti di laicità (come, d’altra parte, non ha mancato recentemente di far notare Benedetto XVI). Per gli americani il Decalogo è una tavola di princìpi e valori etici universali, dunque la testata d’angolo della nostra civiltà, la radice della società giudaico-cristiana, dunque un patrimonio culturale inseparabile dalla politica. Riconoscimento che nel Vecchio continente è stato negato quando Giovanni Paolo II chiese che nella Costituzione dell’Unione europea vi fosse un riferimento ai princìpi medesimi. Da queste due concezioni differenti di laicità discendono due diverse concezioni della politica. Tempo fa un giornalista italiano scriveva che un candidato libertino può essere ritenuto preferibile dagli elettori cattolici ad un altro candidato loro correligionario. Credo che gli elettori americani in proposito non siano affatto d’accordo.
Mauro Ammirati