Si fa fatica a crederci, ma la questione che nelle ultime settimane ha impegnato di più la classe politica italiana è stata la presidenza della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. A milioni di italiani che recentemente hanno perso il posto di lavoro o rischiano di perderlo nelle prossime settimane è facile immaginare quanto possa stare a cuore che a presiedere l’organo suddetto sia Leoluca Orlando oppure Riccardo Villari oppure ancora Sergio Zavoli. È sconcertante, ma non inspiegabile. Infatti, è la conseguenza della situazione in cui è venuto a trovarsi il Partito Democratico. Solo Veltroni può sbloccare tale situazione e fare chiarezza una volta per tutte, senza escludere che ciò possa comportare per il Pd il rischio d’una scissione. Di quel leader dialogante e dallo stile anglosassone che girava l’Italia durante la campagna elettorale della scorsa primavera dicendo che bisognava finirla con «il linguaggio dell’odio» è rimasto solo uno sbiadito ricordo. Piaccia o no, sosteneva allora Veltroni, Berlusconi ed i suoi alleati rappresentano in questo Paese un votante su due, pertanto non possiamo sottrarci al dovere di confrontarci con loro e rendere la politica italiana un po’ meno conflittuale. Uno sforzo meritorio. Forse il centrodestra non l’ha aiutato abbastanza, ma va aggiunto che neanche Veltroni ha aiutato se stesso. I problemi si sono presentati subito, sin dal dibattito sul voto di fiducia in Parlamento al nuovo governo. In quella circostanza, Di Pietro, annunciando voto contrario e rivolgendosi al premier incaricato, dichiarò: «Conosciamo la sua storia personale.» Il primo errore commesso da Veltroni è stato quello di non capire che l’avversione di Di Pietro nei confronti di Berlusconi è un fatto «personale». Non si tratta di remore di carattere ideologico, il leader dell’Italia dei valori non ha mai perso occasione per dimostrare che del centrodestra non gli piace la “persona” del leader (appena qualche giorno fa ha accostato Berlusconi al famigerato generale Jorge Videla, nel caso il concetto non fosse abbastanza chiaro). Berlusconi e Di Pietro non sono avversari politici, sono nemici irriducibili, non c’è possibilità alcuna di dialogo tra i due, pertanto Veltroni deve scegliere: se persegue ancora il disegno di costruire una democrazia fondata sulla legittimazione vicendevole dei due schieramenti, allora deve rompere con Di Pietro; in caso contrario, darà (come sta dando) sempre l’impressione di essere un leader indeciso ed al traino d’un alleato. Da quattordici anni la politica italiana ha davanti a sé un problema che non riesce a risolvere: una parte della sinistra ritiene che non si possa riconoscere a Berlusconi la dignità d’avversario. Chiunque, in questi quasi tre lustri, a sinistra abbia cercato di dare al fondatore di Forza Italia la patente di “leader rispettabile” si è bruciato e lo stesso Berlusconi, con i suoi attacchi alla magistratura e leggi come il “lodo Alfano”, di certo non ha dato una mano agli avversari che volevano legittimarlo. Fatto sta che oggi la sinistra più ostile al Capo di governo ha trovato il suo rappresentante in Antonio Di Pietro. Dunque, o Veltroni prende il coraggio a due mani, abbandona questa sinistra e va per la sua strada, consapevole che scelte simili non sono mai indolori; oppure, resterà a metà del guado, magari osservando con rimpianto Mc Cain ed Obama che dopo pochi giorni il 4 novembre si sono incontrati stringendosi la mano.
Mauro Ammirati
Mauro Ammirati