lunedì 15 novembre 2010

Quale destra per l'Italia?

         È difficile dire adesso (siamo ai primi di novembre) quale sbocco avrà la situazione venuta a crearsi a causa dello strappo tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Sembra da escludere (ma in politica tutto è possibile) che vi sia una crisi extraparlamentare, a questo punto è nell’ordine delle cose che Fli, il partito nato da una scissione nel Pdl e guidato da Fini, voti una mozione di sfiducia presentata dal centrosinistra. Dopodiché tutto può accadere, cioè elezioni anticipate, governo tecnico, di transizione, di salute pubblica… Staremo a vedere. Attualmente, possiamo, però, fare qualche considerazione sulle ragioni che hanno determinato la lacerazione nel centrodestra, chissà che non ci siano d’aiuto a fare chiarezza. Un’analisi molto accreditata dei fatti sostiene che la spaccatura verificatasi nella maggioranza che sosteneva l’esecutivo Berlusconi sia da ricercare nella caduta del governo Prodi, nel 2008. Gli eventi precipitarono – a causa di un’inchiesta giudiziaria che coinvolse la famiglia d’un ministro – portando allo scioglimento delle Camere, così da costringere Gianfranco Fini a decidere subito, senza por tempo in mezzo, se aderire al neonato Pdl o tenere in vita il suo partito, Alleanza Nazionale. Scelse la fusione con Forza Italia nel nuovo soggetto politico di centrodestra, ma obtorto collo, solo perché una parte consistente della base e della dirigenza di Alleanza Nazionale aveva già deciso che avrebbe seguito Berlusconi. Fini entrò nel Pdl senza mai credere davvero nel disegno politico che questo nuovo partito incarnava. Dunque, affermano oggi autorevoli opinionisti, la vicenda non poteva avere un epilogo diverso da quello che ora abbiamo sotto gli occhi. Indubbiamente, è vero, l’attuale Presidente della Camera ha sempre fatto capire di preferire i partiti strutturati a quelli leggeri (come il Pdl e come Forza Italia); i primi, di regola, sono caratterizzati dal dibattito interno e  processi decisionali lunghi e complessi, mentre i secondi, praticamente, sostengono la persona del leader in un rapporto diretto tra quest’ultimo e l’elettorato. In altre parole, Fini non ha mai amato la politica di tipo americano, che piace tanto, invece, a Berlusconi. Ma queste diverse concezioni della politica non costituiscono l’unica ragione della separazione tra i due leaders. C’è dell’altro.
         Neanche quando era segretario dell’M.s.i.-D.n. Gianfranco Fini dava l’impressione di essere un autentico uomo di destra. Non è mai stato un leader di destra populista, come Le Pen (e questo gli va ascritto come merito), ma nemmeno d’una destra borghese e liberalconservatrice. Oggi i suoi avversari l’accusano d’incoerenza, rimproverandogli di avere cambiato opinione su temi come l’immigrazione, le coppie di fatto e le questioni etiche. Insomma, viene da pensare che stiamo parlando d’un uomo politico che è sempre stato privo d’un sistema di valori di riferimento. La verità è più complessa. Fini è cresciuto nel M.s.i.-D.n., un partito di destra ma con venature socialisteggianti (proponeva la partecipazione agli utili nelle aziende), che cercava di accreditarsi come forza democratica ma chiedeva il ritorno allo stato corporativo, un partito dove convivevano cattolici tradizionalisti ed anticlericali (seguaci del filosofo Giovanni Gentile), filoatlantici ed antiamericani, vi si poteva trovare tutto ed il suo contrario. Si pensava che l’unico collante di tutte quelle componenti fosse la nostalgia del Ventennio. In realtà, il motto dei missini era: “Non rinnegare né restaurare”, in riferimento al regime fascista. C’era, dunque, nel M.s.i.-D.n. un’ambiguità di fondo, genetica. Ambiguità che Fini ed i suoi si sono portati dietro fino ai giorni nostri. La destra italiana oggi è in crisi profonda perché è diventata adulta, ma non ha mai deciso cosa fare da grande.
         Mauro Ammirati       

mercoledì 26 maggio 2010

Le ragioni dell'economia


Stavolta è diverso, è un’altra storia. Con L’Europa, in fondo, si può anche scherzare. Se serve, a Bruxelles chiudono un occhio, talvolta tutti e due. I mercati no, gli occhi li hanno sempre spalancati, ti fanno i conti in tasca e se capiscono – e lo capiscono sempre – che non sei affidabile, se non li convinci, allora sono dolori. Ne sa qualcosa la Grecia, hanno dovuto farsene una ragione tutti i Paesi che compongono l’unione monetaria, i quali sono intervenuti per salvare dalla bancarotta la stessa Grecia ed insieme a questa l’euro. Nel caso quell’intervento non ci fosse stato, Atene avrebbe trascinato tutti noi altri dell’eurogruppo nella rovina. No, con i mercati non si scherza, purtroppo. Vi ricordate quando ci ammisero nell’unione monetaria? Ebbene, lo sanno tutti, non avevamo la carte in regola, il nostro debito era di circa il 120% del Pil, quando il Trattato di Maastricht stabiliva che un parametro del 60%. Ma prevalsero le ragioni della politica. L’Italia, uno dei sei soci fondatori di quell’organizzazione sovrannazionale che una volta si chiamava Cee ed oggi Unione Europea, il Paese di Alcide De Gasperi, uno dei padri dell’europeismo, insieme a Spaak, Adenauer e Schuman; ebbene l’Italia, con quei titoli, con quella storia, si argomentava, non poteva essere esclusa dal gruppo della moneta unica. Sarebbe stato per l’euro un pessimo esordio. Così, ci si aggrappò ad un aggettivo: “tendenziale”. Dissero, i leaders politici dell’Europa comunitaria, che il debito pubblico italiano era, sì, oltre il limite consentito, ma quello “tendenziale” era accettabile. Deferenti, ringraziammo. È la politica, bellezza, avrebbe detto Humphrey Bogart. Ecco in cosa differisce la situazione attuale da quelle del passato: ai mercati della storia e delle ragioni d’opportunità politica non interessa un bel niente. Guardano solo i bilanci, sulla base di questi decidono se acquistare o no i titoli di Stato. Se non li acquistano e l’asta va male, sei nei guai. In grossi guai.


Dunque, tutti i Paese occidentali, non solo quelli che hanno adottato la moneta unica europea, fanno o si apprestano a fare manovre finanziarie per rimettere i conti a posto. Sono tutti spaventosamente indebitati – siamo in buona compagnia, una volta tanto – perché, a causa della recessione, più o meno tutti hanno praticato negli ultimi tempi politiche di deficit spending, l’unico modo che ci fosse per ammortizzare l’urto della crisi (la più devastante dal 1929 ad oggi). Quanto all’Italia, l’opinione di molti economisti – quelli, ricordiamolo ancora una volta, che le crisi non le prevedono mai, ma non smettono di dare lezioni al mondo intero – è che il ministro Tremonti stia «raschiando il barile», cioè che stia intervenendo solo sulla spesa corrente, invece che sugli automatismi strutturali, cioè pensioni e Pubblica amministrazione. Se hanno ragione – qualche volta ci prendono anche loro – allora c’è di che preoccuparsi. Infatti, ordinariamente, è già assai difficile che politiche economiche di rigore vengano attuate con successo da governi di coalizione, figuriamoci da un governo eterogeneo come il nostro. Ci riescono con fatica esecutivi monopartitici, si ritiene che stavolta non ci si debba aspettare granché nemmeno dalla Gran Bretagna, dove il conservatore Cameron ha formato un esecutivo alleandosi con i liberaldemocratici. Da quelle parti non sono abituati ai governi di coalizione, dunque ora sono molto scettici. Per farla breve: se da Berlusconi si esige che affondi il bisturi nella spesa pubblica, se davvero si vuole una vera svolta in politica economica, allora l’alleanza di centrodestra deve mostrare una compattezza ed una coesione che non si sono mai viste prima. Vale a dire, essere alleati, ma fingendo di essere un solo partito. Tremonti sa che non è possibile. E, confidando in tempi migliori, raschia il barile.

Mauro Ammirati

sabato 3 aprile 2010

Le ragioni d'un voto

Il risultato delle ultime elezioni regionali è stato considerato quasi unanimemente (fatto insolito in Italia, a dire il vero) una vittoria del centrodestra. Sebbene il centrosinistra abbia vinto in sette regioni su tredici. Ma, come si dice, tutto è relativo ed il dato in questione va valutato tenendo presente il contesto in cui si è svolta la consultazione. Alla vigilia del voto sembrava, infatti, che tutto annunciasse un crollo del Pdl. Tra inchieste giudiziarie e pettegolezzi sulla sua vita privata, Berlusconi veniva da un anno nero. La figura del leader di centrodestra era stata quantomeno appannata da tali vicende. Negli ultimi mesi, le indagini della magistratura non avevano risparmiato nemmeno il capo delle Protezione civile, Guido Bertolaso, che, agli occhi dell’opinione pubblica italiana (anche di tantissimi elettori di centrosinistra), era l’icona dell’efficienza e dell’integrità. In molti cominciarono a sostenere che, in realtà, l’operato del governo – cui la stessa Protezione civile fa capo, essendone un Dipartimento – a L’Aquila, nel dopo terremoto, era da ritenere fallimentare. Aggiungete le recenti e ripetute prese di distanza del Presidente della Camera, Gianfranco Fini, dalle dichiarazioni e dalle posizioni assunte dal premier in materia d’immigrazione e riforme istituzionali e si capisce chiaramente in quali condizioni il Pdl fosse giunto all’appuntamento con le urne: assediato all’esterno e diviso all’interno. La fine del ciclo politico di Berlusconi sembrava ormai imminente. Sorprendentemente, oggi siamo qui a parlare della straordinaria capacità del centrodestra di reagire alle avversità e del considerevole incremento dei voti della Lega nord in tutto il Settentrione. Dunque, i conti non tornano. Cosa è accaduto in realtà? Cominciamo con il dire che, in qualsiasi competizione, comprese quelle elettorali, si vince spesso anche per demerito dell’avversario. Il più grande errore commesso dalla sinistra è stato quello di inseguire e cavalcare le varie (e squallide) dicerie sulla sensibilità di Berlusconi al fascino delle signorine. Le fabbriche chiudevano i cancelli per sempre, il numero dei lavoratori licenziati ed in cassa integrazione aumentava spaventosamente, ma il Pd ed i suoi alleati non trovavano altri argomenti per attaccare il Presidente del Consiglio che quello di essere un Casanova e, quindi, un cattivo padre di famiglia. In secondo luogo, il leader del Pd, Pierluigi Bersani, contrariamente al suo predecessore Veltroni, sulle alleanze, ha fatto marcia indietro, riesumando l’Unione, cioè quella formula che due volte mandò Prodi al governo, ma, in entrambe le circostanze, senza riuscire a tenercelo per più di due anni. Probabilmente, l’elettorato di sinistra riformista da Bersani si aspettava e si aspetta di più. Ovviamente, il centrodestra non ha vinto solo grazie al masochismo degli avversari. Una mano gliel’ha data indubbiamente anche la congiuntura internazionale. Proprio nelle settimane che hanno preceduto il voto delle regionali, la Grecia è giunta sull’orlo della bancarotta, dichiarandosi praticamente insolvibile e chiedendo aiuto all’Ue per far fronte ai debiti. Un idolo della sinistra italiana, Luis Zapatero, è caduto dal piedistallo, frantumandosi in mille pezzi. La Spagna, infatti, ha un bilancio a rischio ed il record di disoccupazione. L’Italia, nonostante la sua situazione finanziaria sia tutt’altro che rosea e rassicurante, non è stata costretta ad elemosinare aiuti all’Ue, i conti pubblici almeno finora hanno tenuto, la recessione è stata dura anche qui, ma non devastante come in altri Paesi. Per molti italiani è merito del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Che abbiano torto o ragione è altro discorso, la loro opinione è questa. E nella cabina elettorale ne hanno tenuto conto.


Mauro Ammirati

giovedì 11 febbraio 2010

Verso le elezioni regionali


L’avvicinarsi delle elezioni regionali ha creato all’interno delle due coalizioni più problemi di quanto, fino a poco tempo fa, si immaginasse. Stavolta non si tratta solo delle candidature, dei propri uomini da piazzare nelle varie liste, le solite rogne che caratterizzano la fase preelettorale. La posta è in gioco si sta rivelando troppo importante. Vale la pena analizzare in profondità alcuni aspetti della situazione venuta a delinearsi negli ultimi mesi a causa della competizione in parola. In primo luogo, ancora una volta, c’è la cosiddetta “questione settentrionale” a turbare i sogni del Pdl. Per il partito di Berlusconi il Nord si conferma croce e delizia, un grande serbatoio di voti per il centrodestra ma, nel contempo, un territorio da condividere con un alleato spesso scomodo come la Lega. Non sono in pochi ad affermare che tra il Piemonte ed il Veneto si aggira uno spettro che non lascia affatto tranquilli il Presidente del Consiglio ed i suoi collaboratori. I dirigenti del Pdl nel Nord Est da tempo avvertono gli uomini che occupano le massime cariche nazionali del partito: qui si rischia il sorpasso, alle prossime regionali la Lega può scavalcarci. Quanto siano fondati tali timori, onestamente, lo ignoro (io vivo al di sotto della linea gotica), ma se a confermare questa analisi sono pure opinionisti e commentatori del Settentrione, per di più di area Pdl, viene da pensare che il rischio esista davvero. Ed ammettendo pure che il sorpasso non ci sia, può comunque accadere che si riduca notevolmente la forbice tra le percentuali dei consensi delle due forze del centrodestra. In quel caso, non sarà affatto piacevole per il Pdl sentirsi sul collo l’alito dei leghisti. Umberto Bossi, notoriamente, il suo peso politico sa farlo valere eccome. Ci dispiace annoiare il lettore tornando sui soliti argomenti, ma ci tocca nuovamente ripetere quanto andiamo scrivendo da qualche anno: non è tanto l’ideale federalista a dare alla Lega la capacità di raccogliere molti suffragi, quanto la sua battaglia contro l’immigrazione selvaggia e per la tutela dell’ordine pubblico, due questioni che – a torto o a ragione – nell’immaginario collettivo, specie al Nord, sono strettamente legate tra loro. Il partito di Bossi, agli occhi di tanti italiani, anche meridionali, è l’unico davvero law and order. E si sa che in tempi come questi simili forze politiche hanno una grande capacità d’attrazione.
La sinistra, invece, è alle prese con problemi d’altra natura. Quanto è avvenuto in Puglia di recente, con la vittoria del Presidente della Regione uscente, Nichi Vendola, alle elezioni primarie contro il candidato ufficiale del Pd, è l’ennesima dimostrazione che all’interno del suddetto partito si fa fatica a comporre la frattura tra i vertici e la base. E trattandosi del più importante partito del centrosinistra il quadro generale per la coalizione è tutt’altro che incoraggiante. In più, si mette male anche in Emilia Romagna, la roccaforte storica una volta del P.c.i., oggi del Pd ed i suoi alleati. «Essere comunisti in Emilia Romagna è come essere repubblicani in Texas», scrisse una trentina d’anni fa un giornalista, tanto per rendere l’idea. Ebbene, il Sindaco di Bologna, qualche settimana fa, è stato costretto a dimettersi dopo essere stato accusato di avere speso denaro pubblico per pagarsi viaggi ed alberghi andandosene in giro per il mondo con la sua segretaria. Accusa tutta da dimostrare, ma in Abruzzo è bastato solo che alcune inchieste giudiziarie avessero inizio perché il centrodestra conquistasse Regione, Comune e Provincia di Pescara.
A rendere la situazione generale quanto mai incerta è anche la figura di Renata Polverini, candidata del centrodestra alla carica di Presidente della Regione Lazio. È un’ex sindacalista, per questo abbastanza invisa a buona parte dell’elettorato di centrodestra, liberale e liberista. Viene ritenuta una fedelissima di Gianfranco Fini, altra personalità che divide la base del Pdl. Per concludere: tra Vendola, Bologna e la Polverini, io penso che i bookmakers siano in crisi.
Mauro Ammirati