È difficile dire adesso (siamo ai primi di novembre) quale sbocco avrà la situazione venuta a crearsi a causa dello strappo tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Sembra da escludere (ma in politica tutto è possibile) che vi sia una crisi extraparlamentare, a questo punto è nell’ordine delle cose che Fli, il partito nato da una scissione nel Pdl e guidato da Fini, voti una mozione di sfiducia presentata dal centrosinistra. Dopodiché tutto può accadere, cioè elezioni anticipate, governo tecnico, di transizione, di salute pubblica… Staremo a vedere. Attualmente, possiamo, però, fare qualche considerazione sulle ragioni che hanno determinato la lacerazione nel centrodestra, chissà che non ci siano d’aiuto a fare chiarezza. Un’analisi molto accreditata dei fatti sostiene che la spaccatura verificatasi nella maggioranza che sosteneva l’esecutivo Berlusconi sia da ricercare nella caduta del governo Prodi, nel 2008. Gli eventi precipitarono – a causa di un’inchiesta giudiziaria che coinvolse la famiglia d’un ministro – portando allo scioglimento delle Camere, così da costringere Gianfranco Fini a decidere subito, senza por tempo in mezzo, se aderire al neonato Pdl o tenere in vita il suo partito, Alleanza Nazionale. Scelse la fusione con Forza Italia nel nuovo soggetto politico di centrodestra, ma obtorto collo, solo perché una parte consistente della base e della dirigenza di Alleanza Nazionale aveva già deciso che avrebbe seguito Berlusconi. Fini entrò nel Pdl senza mai credere davvero nel disegno politico che questo nuovo partito incarnava. Dunque, affermano oggi autorevoli opinionisti, la vicenda non poteva avere un epilogo diverso da quello che ora abbiamo sotto gli occhi. Indubbiamente, è vero, l’attuale Presidente della Camera ha sempre fatto capire di preferire i partiti strutturati a quelli leggeri (come il Pdl e come Forza Italia); i primi, di regola, sono caratterizzati dal dibattito interno e processi decisionali lunghi e complessi, mentre i secondi, praticamente, sostengono la persona del leader in un rapporto diretto tra quest’ultimo e l’elettorato. In altre parole, Fini non ha mai amato la politica di tipo americano, che piace tanto, invece, a Berlusconi. Ma queste diverse concezioni della politica non costituiscono l’unica ragione della separazione tra i due leaders. C’è dell’altro.
Neanche quando era segretario dell’M.s.i.-D.n. Gianfranco Fini dava l’impressione di essere un autentico uomo di destra. Non è mai stato un leader di destra populista, come Le Pen (e questo gli va ascritto come merito), ma nemmeno d’una destra borghese e liberalconservatrice. Oggi i suoi avversari l’accusano d’incoerenza, rimproverandogli di avere cambiato opinione su temi come l’immigrazione, le coppie di fatto e le questioni etiche. Insomma, viene da pensare che stiamo parlando d’un uomo politico che è sempre stato privo d’un sistema di valori di riferimento. La verità è più complessa. Fini è cresciuto nel M.s.i.-D.n., un partito di destra ma con venature socialisteggianti (proponeva la partecipazione agli utili nelle aziende), che cercava di accreditarsi come forza democratica ma chiedeva il ritorno allo stato corporativo, un partito dove convivevano cattolici tradizionalisti ed anticlericali (seguaci del filosofo Giovanni Gentile), filoatlantici ed antiamericani, vi si poteva trovare tutto ed il suo contrario. Si pensava che l’unico collante di tutte quelle componenti fosse la nostalgia del Ventennio. In realtà, il motto dei missini era: “Non rinnegare né restaurare”, in riferimento al regime fascista. C’era, dunque, nel M.s.i.-D.n. un’ambiguità di fondo, genetica. Ambiguità che Fini ed i suoi si sono portati dietro fino ai giorni nostri. La destra italiana oggi è in crisi profonda perché è diventata adulta, ma non ha mai deciso cosa fare da grande.
Mauro Ammirati