Un’operazione improvvisa e spregiudicata come quella che ha
rovesciato il governo Letta ed insediato quello di Matteo Renzi può avvenire
solo nel segno della paura. Un sentimento che è meno del panico, ma più del
semplice timore. Paura che pervade le due grandi coalizioni nazionali ed è
dovuta a fattori politici ed economici, interni ed internazionali. Paura che la
situazione sfugga di mano a quelle forze politiche che hanno retto il Paese dal
1994 ad oggi e che, per buona parte degli italiani, sono i principali
responsabili del momento drammatico che la nazione sta vivendo. Matteo Renzi è
la carta della disperazione, è stato lui stesso ad affermarlo, implicitamente,
in occasione della presentazione del suo governo alle Camere, facendo capire
che il suo fallimento sarebbe la bancarotta di tutto il sistema politico. Ha
ottenuto la fiducia del centrosinistra e dei centristi, non quella di Forza
Italia, che però, in cambio d’un accordo concluso sul sistema elettorale, gli
ha concesso un’apertura di credito, se preferite, la promessa di un’opposizione
morbida. La domanda da porsi è: cos’è stato a forzare la mano ai partiti, cosa
ha fatto precipitare la situazione così da indurre la Presidenza della
Repubblica e la coalizione che sosteneva il governo Letta ad una manovra tanto
azzardata, quanto insolita? Paura, come accennavamo, ma di cosa? A maggio si
terranno le elezioni europee (per inciso, verrà eletto anche il Consiglio regionale
nel nostro Abruzzo) ed il voto in questione potrebbe diventare una pietra
sepolcrale sul sistema politico costruito sulle macerie di Tangentopoli. I
sondaggi, lo scorso anno, poche settimane prima delle elezioni politiche,
attribuivano al M5s il 17%. Prese il 25% (neanche le prime proiezioni post voto
facevano pensare ad un simile successo). Oggi, i sondaggi danno allo stesso M5s
il 24%. Dunque, non si può escludere che il movimento di Beppe Grillo superi il
30%. Parliamo d’una forza politica radicalmente avversa al centrosinistra ed al
centrodestra, dichiaratamente euroscettica e sostenitrice della democrazia
diretta integrale (in passato, Grillo ha proposto l’abrogazione del cosiddetto
“divieto di mandato imperativo). Non basterà a Pd, Ncd e Fi confidare nella ripresa economica, perché (ammesso che
l’economia sia davvero in ripresa) non si concretizzerà in posti di lavoro nei
prossimi mesi. Inoltre, quale che sia la congiuntura, i vincoli comunitari
impongono all’Italia di continuare a praticare la politica dell’austerità
ancora per molti anni. Infine, i fattori internazionali. Quando, nei primi anni
’90, la Lega nord cominciò a raccogliere una discreta messe di voti, il
compianto Indro Montanelli scriveva: «Finché il separatismo lo fanno i
siciliani è un conto. Ma se lo fanno i lombardi la situazione cambia.» Ora
potremmo dire che finché, nella piccola Grecia, Alba dorata prende il 7%
possiamo anche reagire con la semplice indignazione e poi fare spallucce. Ma se
l’elettorato antieuropeista cresce in Francia, Olanda ed Austria, se in Italia avanza
il M5s che chiede di abolire il Fiscal compact ed un referendum per la
permanenza nella moneta unica, se la Gran Bretagna annuncia un referendum sulla
sua permanenza nell’Unione europea, allora si capisce che la posta in palio è
di portata storica ed il discorso cambia. In questo quadro, il rischio che
corre la classe politica italiana è duplice: può venire travolta dal
malcontento popolare in Italia o dal crollo dell’Europa comunitaria. Si
consideri, infatti, che tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi
vent’anni, tecnici, di centrosinistra e di centrodestra, hanno tagliato spesa
pubblica e servizi sociali, liberalizzato e privatizzato in applicazione delle
direttive di Bruxelles e Francoforte, provocando l’ondata di protesta che ora
può riversarsi nelle urne elettorali. Il governo Letta era manifestamente
inadeguato al compito di salvare una classe politica che sembra un’oligarchia assediata
nella cittadella del potere, mentre fuori il mondo è già cambiato e comincia
una nuova storia. Occorreva mandare un messaggio forte al Paese, dare almeno
l’impressione che ci fosse ai vertici delle istituzioni un ricambio
generazionale, che finalmente si stesse facendo sul serio. Soprattutto,
occorreva fare in fretta. Perciò è stato chiamato il trentottenne Matteo Renzi.
L’ultima carta da giocare. Quella della disperazione.
Mauro Ammirati