mercoledì 4 marzo 2015

Non è questione di fiducia


         Disse una volta un fisico americano: ««Prendete i numeri e torturateli. Prima o poi confesseranno.» I numeri parlano, ci è stato insegnato, sono dati inconfutabili, incontrovertibili, fotografano la realtà. Non è così. Almeno, non sempre. I numeri, talvolta, sono come il pupazzo del ventriloquo. Muove la bocca, ma non è il pupazzo a parlare. Uno striminzito 0,1% del Pil relativo all’ultimo mese o trimestre, che diventa 0,4% o 0,6% «su base annua» io non lo considererei proprio un dato attendibile. Più o meno, è una pacca sulla spalla, un modo per dire: coraggio, se continui così, magari, tra qualche anno... Ma, dal momento che le aspettative in economia sono molto più importanti di quanto il profano immagini, è assolutamente necessario, in tempi di recessione, che prevalga una certa lettura o interpretazione delle percentuali pubblicate. La Bce, Matteo Renzi ed il ministro Padoan l’hanno detto chiaramente più volte: la ripresa arriverà se si diffonderà la fiducia tra gli investitori. Sbagliano, ma sono coerenti con la loro ferma opinione che la stessa ripresa debba essere trainata da investimenti privati. Il nostro governo ha strappato qualcosa dall’Ue in materia di investimenti pubblici, ma siamo alle briciole, anzi alla presa in giro. Più propaganda, che altro. Il dramma è che da nessuna recessione, figuriamoci da una sconvolgente come quella che stiamo vivendo, si esce a rimorchio degli investimenti privati. Per una ragione estremamente semplice: il settore privato è, come si dice, prociclico, cioè segue il ciclo economico. Solo il settore pubblico, com’è facile comprendere, può essere anticiclico. Prima di investire, l’imprenditore privato aspetta che l’economia si sia ripresa, mica si adopera perché si riprenda. È una verità elementare, che solo i governi dell’eurozona ignorano o fingono di ignorare. Sempre per infondere questa benedetta fiducia, la Bce, come sapete, ha dato inizio, tra squilli di trombe e rulli di tamburi, ad un’operazione per la quale non siamo ancora riusciti a trovare un’appropriata traduzione nella nostra lingua: quantitative easing. Nel nostro caso significa che l’istituto d’emissione spenderà 1.140 miliardi di euro per acquistare, principalmente, titoli di Stato dalle banche che li hanno in portafoglio. La speranza è che questa pioggia di liquidità spinga le banche a concedere prestiti più facilmente agli imprenditori. Speranza che andrà delusa, contrariamente a quanto affermano tanti economisti, politici e giornalisti. Costoro affermano che l’economia americana si sia ripresa proprio grazie al quantitative easing della Fed (la loro banca centrale). Non è vero (infondere fiducia d’accordo, sparare balle no), in realtà detta operazione negli States non ha portato alcun beneficio all’economia reale, cioè imprese e famiglie. Il loro Pil, nel 2014, è cresciuto del 2,4% perché ora raccolgono i frutti d’una politica di spesa a deficit che il governo Obama ha praticato per anni. In termini semplici, hanno fatto tanti investimenti pubblici, al punto che nel 2009 il rapporto deficit federale/Pil era al 10%. Per lo stesso parametro, i governi dell’eurozona, come presumo sappiate, non possono superare il 3%!, è stabilito dai trattati comunitari. Oltre tale soglia, se proviamo a spendere lo 0,1% in più, la Commissione europea ci mozza le mani. Purtroppo no, non è questione di fiducia. Ma di buon senso. I governi nordeuropei, guardiani dell’ortodossia, obiettano che una politica espansiva, cioè di investimenti pubblici, determinerebbe un incremento del rapporto debito/Pil. Il terrore del debito, in realtà, è solo un’altra stupida fissazione tipica dell’eurozona. Per caso, qualcuno di voi la mattina fa colazione con cappuccino e debito/Pil?

         Mauro Ammirati