Disse
una volta un fisico americano: ««Prendete i numeri e torturateli. Prima o poi
confesseranno.» I numeri parlano, ci è stato insegnato, sono dati
inconfutabili, incontrovertibili, fotografano la realtà. Non è così. Almeno,
non sempre. I numeri, talvolta, sono come il pupazzo del ventriloquo. Muove la
bocca, ma non è il pupazzo a parlare. Uno striminzito 0,1% del Pil relativo
all’ultimo mese o trimestre, che diventa 0,4% o 0,6% «su base annua» io non lo
considererei proprio un dato attendibile. Più o meno, è una pacca sulla spalla,
un modo per dire: coraggio, se continui così, magari, tra qualche anno... Ma,
dal momento che le aspettative in economia sono molto più importanti di quanto
il profano immagini, è assolutamente necessario, in tempi di recessione, che
prevalga una certa lettura o interpretazione delle percentuali pubblicate. La
Bce, Matteo Renzi ed il ministro Padoan l’hanno detto chiaramente più volte: la
ripresa arriverà se si diffonderà la fiducia tra gli investitori. Sbagliano, ma
sono coerenti con la loro ferma opinione che la stessa ripresa debba essere
trainata da investimenti privati. Il nostro governo ha strappato qualcosa
dall’Ue in materia di investimenti pubblici, ma siamo alle briciole, anzi alla
presa in giro. Più propaganda, che altro. Il dramma è che da nessuna
recessione, figuriamoci da una sconvolgente come quella che stiamo vivendo, si
esce a rimorchio degli investimenti privati. Per una ragione estremamente
semplice: il settore privato è, come si dice, prociclico, cioè segue il ciclo
economico. Solo il settore pubblico, com’è facile comprendere, può essere
anticiclico. Prima di investire, l’imprenditore privato aspetta che l’economia
si sia ripresa, mica si adopera perché si riprenda. È una verità elementare,
che solo i governi dell’eurozona ignorano o fingono di ignorare. Sempre per
infondere questa benedetta fiducia, la Bce, come sapete, ha dato inizio, tra
squilli di trombe e rulli di tamburi, ad un’operazione per la quale non siamo
ancora riusciti a trovare un’appropriata traduzione nella nostra lingua:
quantitative easing. Nel nostro caso significa che l’istituto d’emissione
spenderà 1.140 miliardi di euro per acquistare, principalmente, titoli di Stato
dalle banche che li hanno in portafoglio. La speranza è che questa pioggia di
liquidità spinga le banche a concedere prestiti più facilmente agli
imprenditori. Speranza che andrà delusa, contrariamente a quanto affermano
tanti economisti, politici e giornalisti. Costoro affermano che l’economia
americana si sia ripresa proprio grazie al quantitative easing della Fed (la
loro banca centrale). Non è vero (infondere fiducia d’accordo, sparare balle
no), in realtà detta operazione negli States non ha portato alcun beneficio
all’economia reale, cioè imprese e famiglie. Il loro Pil, nel 2014, è cresciuto
del 2,4% perché ora raccolgono i frutti d’una politica di spesa a deficit che
il governo Obama ha praticato per anni. In termini semplici, hanno fatto tanti
investimenti pubblici, al punto che nel 2009 il rapporto deficit federale/Pil
era al 10%. Per lo stesso parametro, i governi dell’eurozona, come presumo
sappiate, non possono superare il 3%!, è stabilito dai trattati comunitari.
Oltre tale soglia, se proviamo a spendere lo 0,1% in più, la Commissione
europea ci mozza le mani. Purtroppo no, non è questione di fiducia. Ma di buon
senso. I governi nordeuropei, guardiani dell’ortodossia, obiettano che una
politica espansiva, cioè di investimenti pubblici, determinerebbe un incremento
del rapporto debito/Pil. Il terrore del debito, in realtà, è solo un’altra
stupida fissazione tipica dell’eurozona. Per caso, qualcuno di voi la mattina
fa colazione con cappuccino e debito/Pil?
Mauro Ammirati
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