sabato 29 marzo 2008

Il peso dell'esperienza

La prossima legislatura, tanto per cambiare, dovrà essere costituente. Come dovevano esserlo le ultime quattro-cinque. Chiunque vinca, quale che sia l’esito del voto il 14 aprile, il prossimo Parlamento dovrà fare le riforme istituzionali, dicono Pd e Pdl. Lo dicevano Craxi e De Mita negli anni ’80, negli anni ’90 D’Alema propose l’istituzione d’una commissione bicamerale - della quale gli fu poi affidata la presidenza - e che avesse il compito di riscrivere la seconda parte della Costituzione. Dopo aver tratteggiato una nuova repubblica semipresidenziale sul modello francese, la commissione naufragò ingloriosamente e senza farsi rimpiangere. Quelle poche revisioni della Carta che in tempi recenti sono state attuate, hanno ridisegnato la distribuzione dei poteri tra Stato e Regioni e la forma di governo all’interno di queste ultime. Provocando più confusione che altro, a dimostrazione che meglio non fare alcuna riforma che una pessima riforma. Nel 2006, in pieno campionato mondiale di calcio, gli italiani, in un referendum confermativo, respingono con una maggioranza schiacciante il progetto della devolution, approvato da ambedue le Camere e che definire un aborto è un eufemismo. Il fatto non suscitò molto clamore – non quanto solitamente ne suscita una pesante sconfitta in una consultazione di tale importanza - perché Marcello Lippi ed i suoi ragazzi erano già sulla strada che li avrebbe portati al trionfo di Berlino. Per farla breve, la questione delle riforme istituzionali in Italia è all’ordine del giorno “solo” da una trentina d’anni ed il confronto sulla materia ha portato risultati che vanno dal deprimente al disastroso.
Orbene, solo qualche giorno fa Veltroni ha dichiarato – e sembrava strano che nessuno avesse ancora rilasciato una simile dichiarazione – che la prossima legislatura, come già ricordato, dovrà essere costituente. Ma è ovvio, ma si capisce, ci mancherebbe altro, hanno risposto gli avversari. In Italia il consenso su questo argomento non si nega a nessuno. Stavolta, è vero, l’obiettivo non sembra irraggiungibile, perché 1) potremmo, per la prima volta nella storia della Repubblica, avere un Senato bipartitico ed alla Camera Pd e Pdl potrebbero avere abbastanza voti per fare le tanto auspicate riforme, senza che sia necessario il sostegno delle forze politiche ad una sola cifra percentuale; 2) inoltre, sulla riduzione del numero dei parlamentari, che sarebbe già un bel cominciare, la convergenza tra i due principali partiti italiani sembra certa; una volta messo in moto il meccanismo, potrebbe poi esserci una reazione a catena. Qualche volta succede.
Cos’è, invece, a renderci scettici (pur nella viva speranza di essere smentiti dai fatti)? Semplicemente l’esperienza. Troppe volte, in passato, abbiamo visto i nostri leaders preferire coltivare il proprio orticello che perseguire grandi disegni politici; troppe volte, nella storia del nostro Paese, abbiamo visto in politica prevalere il piccolo cabotaggio e le paure miserabili sulle grandi scelte che cambiano la storia d’una nazione. Vorremmo tanto fidarci. Potremmo solo perdendo la memoria. Di ciò che pensiamo abbiamo avuto una riprova solo qualche mese fa: «la legge elettorale va bene così com’è», disse Silvio Berlusconi, costringendo in tal modo il Presidente della Repubblica a sciogliere le Camere ed indire le elezioni, che forse anche stavolta saranno inutili. Sul serio: vorremmo tanto fidarci.
Mauro Ammirati

mercoledì 19 marzo 2008

Eppure è possibile

A dispetto delle smentite ufficiali, l’ipotesi che nella prossima legislatura della Repubblica italiana si formi un governo di larghe intese è meno inverosimile di quanto si creda. Almeno le potenziali condizioni ci sono. Per cominciare, non è affatto da escludere che il voto popolare determini una maggioranza al Senato diversa da quella della Camera, essendo diversi anche i sistemi elettorali per i due rami del Parlamento. Per l’elezione del Senato, infatti, il premio di maggioranza è assegnato su base regionale, pertanto non è solo importante quanti voti complessivamente uno schieramento riuscirà ad ottenere, ma anche la loro distribuzione geografica. Può accadere che un partito prenda meno suffragi dell’avversario, ma abbia più seggi senatoriali. Può altresì accadere, come nel 2006, che la differenza tra vincitore e sconfitto sia di pochi senatori, cioè che, in sostanza, la competizione finisca in pareggio. Ma, ammesso – e non concesso – che il futuro Parlamento abbia la medesima maggioranza in ambedue le Camere, restano da fare valutazioni di opportunità. Solo qualche sera fa, parlando dagli studi di un’emittente nazionale, l’autorevole politologo italiano Giovanni Sartori spiegava che un governo di larghe intese o di grande coalizione o comunque lo si voglia chiamare, non era da considerare affatto un’insulsaggine. Né il Pdl né il Pd, argomentava il professor Sartori, hanno abbastanza coraggio per fare le riforme economico-sociali di cui l’Italia ha disperamene bisogno, nessuno dei due principali partiti italiani è disposto a pagare il prezzo – in termini elettorali – d’una politica impopolare. Quindi, concludeva lo studioso fiorentino, un governo che veda insieme Berlusconi e Veltroni è l’unica garanzia che, attuando le riforme, ambedue perdano consensi e, in tal modo, nessuno dei due ci guadagna. Il ragionamento non fa una piega. A rafforzare la tesi in questione è la situazione internazionale. Qualche giorno fa, il Premio Nobel per l’Economia Paul Samuelson ha detto senza mezzi termini che l’economia americana è ormai a rischio di stagflazione, proponendo una politica non troppo dissimile dal New Deal roosveltiano: «Occorre un maggiore intervento dello Stato», chiariva a scanso di equivoci il Premio Nobel. Negli stessi giorni, Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia in pectore del futuro governo italiano, spiegava che, a suo parere, la crisi economica internazionale attuale è talmente grave da esigere – nientemeno – che una nuova Bretton Woods, come nell’ultimo dopoguerra. Gli accostamenti alla crisi del 1929 ed al secondo conflitto mondiale la dicono lunga sulle difficoltà del momento. Si aggiunga che l’attuale direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, ha dichiarato che per l’anno in corso le stime sulla crescita sono state riviste al ribasso fino all’1% e che per il debito di alcune società in crisi forse si dovrà pensare alla «nazionalizzazione» - un termine che credevamo, ormai, sparito dal vocabolario della politica. Come Tremonti, anche Strauss-Kahn sentenzia: «La crisi è globale e soluzioni devono essere globali». Lo spettro della recessione aleggia sulle due sponde dell’Atlantico, terrorizza tutti i governi del mondo occidentale e, che lo si dica esplicitamente o no, si pensa a rimedi di stampo dirigistico. Verrebbe da commentare: il liberismo, questo sconosciuto. Orbene, se questo è il quadro, la teoria di Sartori ha solide fondamenta. È difficile immaginare un governo del Pdl o del Pd che faccia una politica d’aggressione del debito pubblico, che affronti da solo una crisi economica che gli esperti ritengono globale e tra le più gravi degli ultimi decenni. Non è un caso che sia Berlusconi che Veltroni hanno voluto che questa campagna elettorale avvenisse nel segno della sobrietà, guardandosi bene dal suscitare o alimentare aspettative destinate ad andare deluse. Non è più tempo di promettere miracoli. Non ci crederebbe più nessuno.
Mauro Ammirati

venerdì 14 marzo 2008

Occhio a certi modelli

Torniamo indietro solo di qualche mese, non è richiesto un grande sforzo di memoria. Erano le ultime settimane del governo Prodi, Clemente Mastella si apprestava a togliere la fiducia all’esecutivo, la Consulta aveva appena dichiarato costituzionalmente legittimo il referendum Segni-Guzzetta, il Palazzo era in fibrillazione, gli eventi non erano ancora precipitati e non pochi ritenevano che si potesse salvare la legislatura prolungandola di un anno o un anno e mezzo. In quello stesso periodo, infatti, il neosegretario del Pd, Walter Veltroni, era impegnato a trovare un accordo con Silvio Berlusconi sulla riforma elettorale e ad un certo punto sembrava che la soluzione fosse a portata di mano. La “formula magica” consisteva in un ibrido, un sistema che, sostanzialmente, fondesse la legge elettorale tedesca e quella spagnola: collegi elettorali di modeste dimensioni - come in Spagna - e sbarramento elettorale – come in Germania, per il Bundestag. La proposta però non prevedeva il congegno della sfiducia costruttiva, che assicura stabilità al governo, una volta che si sia insediato, sia a Madrid che a Berlino. Ad ogni modo, sui modelli da scegliere non c’erano dubbi, né per il Pd né per Forza Italia. Veniamo ad oggi. Zapatero ha vinto le elezioni legislative in Spagna, ha ottenuto un secondo mandato, ma non ha la maggioranza assoluta di seggi in Parlamento. Dovrà cercare alleati tra autonomisti e nazionalisti baschi e catalani, non è da escludere che debba addirittura rivolgersi ai Popolari, cioè il principale rivale, l’altro polo, per poter governare. Dalle urne non è uscito un governo e qualsiasi esecutivo ora Zapatero riesca a formare sarà sostenuto da una maggioranza parlamentare postelettorale. Probabilmente sarà un governo stabile grazie alla sfiducia costruttiva, ma non sarà stato scelto dagli elettori. Domanda: siamo sicuri che quello spagnolo sia un buon modello? Nell’altro Paese che da noi fa scuola, la Germania, da anni il governo del Cancelliere, Angela Merkel, si appoggia sulla “grande coalizione”, un’alleanza parlamentare, anche questa postelettorale, di socialdemocratici e democristiani, una soluzione eccezionale cui si ricorre in casi d’accertata ingovernabilità. In altri termini, le due principali forze politiche, una volta constatato che nessuna delle due ha abbastanza seggi per esprimere e sostenere un esecutivo, si accordano per formarne uno insieme. Lo sbarramento elettorale, infatti, di per sé preserva il Parlamento dall’eccessivo frazionamento, ma non garantisce che il governo venga scelto dagli elettori. Anche in Germania, beninteso, la sfiducia costruttiva assicura stabilità governativa, ma per assicurarla occorre prima che un governo nasca. Il punto è che per fare un governo di “grande coalizione” qualsiasi legge elettorale va bene, perfino la nostra che pure è la peggiore in circolazione. Domanda: siamo sicuri che il sistema tedesco sia così virtuoso come vorrebbero farci credere? Se si vuole che siano gli elettori a scegliere chi debba governarli, allora forse è il caso di dare uno sguardo alla Gran Bretagna ed agli States. Quando si elegge il Parlamento inglese, un minuto dopo la conclusione dello spoglio delle schede si sa già con certezza chi governerà e di grandi coalizioni neanche si parla semplicemente perché non ce n’è bisogno. Quanto agli U.s.a., il governo di Washington, cioè il Presidente della Repubblica, è eletto separatamente dal Congresso, il loro Parlamento. Ma di prendere questi Paesi a modello da noi non se ne parla neanche. Chissà perché.
Mauro Ammirati

sabato 8 marzo 2008

Di qua e di là dell'Atlantico

Forse ciò che più fa riflettere di Beppe Grillo è quella domanda che negli ultimi tempi egli stesso rivolge sempre più di frequente a tutti coloro – e sono tanti – che gli porgono ascolto: possibile che di questioni così importanti e gravi debba occuparmi proprio io, che sono un comico? È a dir poco insolito che chi è pagato per far ridere la gente raccolga largo credito presso l’opinione pubblica sostenendo le ragioni di consumatori, piccoli risparmiatori e cittadini comuni oppure affrontando argomenti come l’impatto ambientale della Tav e l’indulto (infatti, non è esattamente il mestiere del comico), mentre la fiducia verso la classe politica è scesa a livello talmente basso che i partiti fanno fatica a trovare qualcuno che li prenda sul serio (come invece ci si aspetterebbe accadesse proprio ad un comico). Dice che non andrà a votare Grillo (e non è affatto da escludere che, come lui, il 13 ed il 14 aprile in molti disertino i seggi elettorali), grida ai napoletani che farebbero meglio a seguire l’esempio del Kosovo e separarsi dal resto del Paese, infine che c’è da augurarsi che francesi o tedeschi vengano ad invadere l’Italia. Ed in quest’ultima provocazione è racchiusa la triste verità sul momento drammatico che stiamo attraversando. Se in passato si combattevano guerre di liberazione per scacciare i colonizzatori, oggi, nel caso italiano bisogna confidare che vi siano ancora Paesi civili con smanie colonizzatrici perché il nemico da cui liberarsi è la classe politica nazionale. Si tratta di un’assurdità, ovviamente, ma che la dice lunga sul discredito in cui da noi sono caduti partiti e leadership. A chi si chiede come sia stato possibile arrivare a tal punto, noi una risposta crediamo di poter darla.
Da oltreoceano fanno sapere che una così estesa partecipazione ad elezioni primarie non si vedeva da molto tempo. L’inaspettatamente alta affluenza ai seggi per scegliere i candidati alle presidenziali di fine anno è in parte – probabilmente in massima parte – dovuta all’interesse che ha saputo destare sulla sua figura un giovane afroamericano, senatore dell’Illinois, Barak Obama, che personifica l’ansia diffusa d’una vera svolta, cioè l’opportunità a portata di mano d’assestare un duro colpo all’establishment, di portare una ventata d’aria fresca ai vertici del potere federale. Un candidato sul quale nessuno fino a pochi mesi fa avrebbe scommesso un dollaro, in questi giorni contende ad Hilary Clinton, moglie d’un ex Presidente degli States, la nomination democratica. Comunque vada a finire, Obama un segno l’ha già lasciato. Nel Partito Repubblicano la corsa di Rudolph Giuliani, ex Sindaco della Grande Mela, uno dei candidati favoriti, è finita prima di cominciare. Sarà quindi il senatore dell’Arizona, John Mc Cain, assai meno famoso di Giuliani, a rappresentare il partito dell’elefante alle presidenziali. Dunque, le previsioni vengono sovvertite, le sorprese non mancano, le carte vengono continuamente rimescolate e tutto rimane incerto fino alla fine, segno di salute per la democrazia. Ora guardiamo cosa avviene in Italia: il settantaduenne Silvio Berlusconi si presenta per la quinta volta candidato alla Presidenza del Consiglio dei ministri; il Partito Democratico oppone Veltroni, già in passato vicepremier e che ha appena lasciato la carica di Sindaco di Roma, per la quale è già candidato Francesco Rutelli, il quale primo cittadino della capitale lo è già stato per diversi anni. Nel nostro Paese la politica è ormai un’attività per iniziati, qualcosa che fa pensare ad un setta esoterica, piuttosto che al principio di partecipazione ed a quello di sovranità popolare. Non chiederò ad alcuna nazione straniera di venire ad invaderci, ma, confesso, una certa invidia per gli altri popoli occidentali la provo.
Mauro Ammirati

venerdì 7 marzo 2008

policy

A carte scoperte

In principio era la semplificazione, cioè il proposito di ridurre il numero dei simboli sulle schede elettorali, al fine di contrastare il frazionamento del cosiddetto quadro politico. Ed i primi passi, diciamolo pure, andavano in questa direzione. «Il Partito Democratico correrà da solo, quale che sia il sistema elettorale», aveva solennemente sentenziato Walter Veltroni, facendo irritare tutte le forze della sinistra antagonista e non solo, ancor prima che venisse stilato il certificato di decesso del governo Prodi. Di lì a pochi giorni, Berlusconi e Fini annunciavano che Forza Italia ed An avrebbero presentato una lista comune, insieme ad altri partiti del centrodestra, aggiungendo che chi avesse voluto aderire al nuovo soggetto politico avrebbe dovuto rinunciare al proprio simbolo. Offerta - o proposta -, com’è noto, respinta con sdegno dall’Udc. Sembrava che davvero l’Italia fosse stata folgorata sulla via di Damasco dalla luce del bipartitismo e del modello di democrazia anglosassone. Tutto ciò avveniva solo qualche settimana fa. Ma, si sa, prima o poi bisogna tornare a fare i conti con la realtà, anche i sogni hanno un costo e non sempre si ha il coraggio di pagarlo. Così, Berlusconi ha cominciato subito a correggere il tiro, dichiarando che in Lombardia e Veneto sarebbe stato concesso alla Lega Nord di presentarsi con il proprio simbolo e nel contempo di restare nell’alleanza di centrodestra, mentre veniva rifiutato a “La Destra” di Storace e, come già accennato, all’Udc, di fare altrettanto. Veltroni stipulava un accordo elettorale con l’Italia dei Valori, senza chiederle di confluire nel rassemblement del Pd, se non ad elezioni avvenute. Qualche giorno dopo, sempre Veltroni imbarcava anche i radicali, ottenendo in cambio da costoro la rinuncia al simbolo, ma facendo infuriare i tanti cattolici che hanno partecipato alla fondazione del suo partito. È abbastanza per affermare che il proposito strategico della semplificazione è stato finora perseguito in modo tutt’altro che lineare. Gli argomenti addotti per tali manovre, nell’uno e nell’altro campo, sono i seguenti: la Lega Nord è come la Csu e Lombardia e Veneto sono come la Baviera; la radicale Emma Bonino si è fatta molto apprezzare come ministro del governo Prodi, quindi ha una discreta dote elettorale; quanto a Di Pietro è un ottima copertura per il Pd sul versante dell’antipolitica, è ritenuto l’unico uomo del “palazzo” che possa dialogare con il popolo del “V-day”, i seguaci di Beppe Grillo. Non bastasse l’incoerenza dei grandi leaders, ad assestare altri colpi alla prospettiva del bipartitismo si sono aggiunti i piccoli partiti a rischio d’esclusione dal futuro Parlamento, i quali o si sono coalizzati tra loro, come quelli d’estrema sinistra o proveranno a superare da soli le soglie di sbarramento elettorale per Camera e Senato. Tra le nuove liste è da annoverare anche una “di scopo” o monotematica o one objective party, cioè il movimento antiaborista capeggiato dal noto giornalista Giuliano Ferrara. Di qui la nuova linea adottata da Partito Democratico e Popolo della Libertà, consistente nel mandare un messaggio preciso, semplice e chiaro agli elettori: evitate il voto inutile, ossia non date i vostri consensi a forze politiche che non siano, in ordine di grandezza, le prime due del Paese. La barra, dunque, rimane orientata verso il bipartitismo. Talché, sembra che ora la vera competizione sia tra Pd e Pdl da una parte e tutte le altre formazioni politiche dall’altra. Le elezioni politiche divengono una sorta di referendum sul sistema politico-istituzionale da costruire in Italia. In altri termini, nella consultazione imminente agli italiani viene domandato se siano o no favorevoli all’instaurazione d’un sistema sostanzialmente bipartitico. A questo punto una considerazione è inevitabile.
La prossima legislatura, convengono tutti, sarà costituente. Dunque, tanto vale scoprire sin da ora le carte. Se Berlusconi e Veltroni inseguono il bipartitismo lo dicano chiaramente, senza troppi giri di parole. Dicano, cioè, che, chiunque vinca le elezioni e vada al governo, Pd e Pdl nella prossima legislatura introdurranno il sistema elettorale uninominale ad un solo turno, perché se davvero vogliono ricalcare il sistema italiano su quello anglosassone non hanno altra scelta. Se questa è la vera posta in gioco, allora non si capisce perché gli elettori non debbano saperlo. Dalla chiarezza, dalla verità e dalla trasparenza la politica ha solo da guadagnare, dall’ambiguità solo da temere.
Mauro Ammirati 07.03.2008