Forse ciò che più fa riflettere di Beppe Grillo è quella domanda che negli ultimi tempi egli stesso rivolge sempre più di frequente a tutti coloro – e sono tanti – che gli porgono ascolto: possibile che di questioni così importanti e gravi debba occuparmi proprio io, che sono un comico? È a dir poco insolito che chi è pagato per far ridere la gente raccolga largo credito presso l’opinione pubblica sostenendo le ragioni di consumatori, piccoli risparmiatori e cittadini comuni oppure affrontando argomenti come l’impatto ambientale della Tav e l’indulto (infatti, non è esattamente il mestiere del comico), mentre la fiducia verso la classe politica è scesa a livello talmente basso che i partiti fanno fatica a trovare qualcuno che li prenda sul serio (come invece ci si aspetterebbe accadesse proprio ad un comico). Dice che non andrà a votare Grillo (e non è affatto da escludere che, come lui, il 13 ed il 14 aprile in molti disertino i seggi elettorali), grida ai napoletani che farebbero meglio a seguire l’esempio del Kosovo e separarsi dal resto del Paese, infine che c’è da augurarsi che francesi o tedeschi vengano ad invadere l’Italia. Ed in quest’ultima provocazione è racchiusa la triste verità sul momento drammatico che stiamo attraversando. Se in passato si combattevano guerre di liberazione per scacciare i colonizzatori, oggi, nel caso italiano bisogna confidare che vi siano ancora Paesi civili con smanie colonizzatrici perché il nemico da cui liberarsi è la classe politica nazionale. Si tratta di un’assurdità, ovviamente, ma che la dice lunga sul discredito in cui da noi sono caduti partiti e leadership. A chi si chiede come sia stato possibile arrivare a tal punto, noi una risposta crediamo di poter darla.
Da oltreoceano fanno sapere che una così estesa partecipazione ad elezioni primarie non si vedeva da molto tempo. L’inaspettatamente alta affluenza ai seggi per scegliere i candidati alle presidenziali di fine anno è in parte – probabilmente in massima parte – dovuta all’interesse che ha saputo destare sulla sua figura un giovane afroamericano, senatore dell’Illinois, Barak Obama, che personifica l’ansia diffusa d’una vera svolta, cioè l’opportunità a portata di mano d’assestare un duro colpo all’establishment, di portare una ventata d’aria fresca ai vertici del potere federale. Un candidato sul quale nessuno fino a pochi mesi fa avrebbe scommesso un dollaro, in questi giorni contende ad Hilary Clinton, moglie d’un ex Presidente degli States, la nomination democratica. Comunque vada a finire, Obama un segno l’ha già lasciato. Nel Partito Repubblicano la corsa di Rudolph Giuliani, ex Sindaco della Grande Mela, uno dei candidati favoriti, è finita prima di cominciare. Sarà quindi il senatore dell’Arizona, John Mc Cain, assai meno famoso di Giuliani, a rappresentare il partito dell’elefante alle presidenziali. Dunque, le previsioni vengono sovvertite, le sorprese non mancano, le carte vengono continuamente rimescolate e tutto rimane incerto fino alla fine, segno di salute per la democrazia. Ora guardiamo cosa avviene in Italia: il settantaduenne Silvio Berlusconi si presenta per la quinta volta candidato alla Presidenza del Consiglio dei ministri; il Partito Democratico oppone Veltroni, già in passato vicepremier e che ha appena lasciato la carica di Sindaco di Roma, per la quale è già candidato Francesco Rutelli, il quale primo cittadino della capitale lo è già stato per diversi anni. Nel nostro Paese la politica è ormai un’attività per iniziati, qualcosa che fa pensare ad un setta esoterica, piuttosto che al principio di partecipazione ed a quello di sovranità popolare. Non chiederò ad alcuna nazione straniera di venire ad invaderci, ma, confesso, una certa invidia per gli altri popoli occidentali la provo.
Mauro Ammirati
sabato 8 marzo 2008
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