lunedì 20 ottobre 2008

Nati per sorprendere


Sembrerà una provocazione, ma posso garantirvi che non lo è affatto. La verità è che io credo che nel cataclisma propagatosi da Wall Street e che sta sconvolgendo il mondo, ci sia anche qualcosa di salutare. Queste, infatti, sono le sfide che piacciono all’Italia. Chi conosce la storia del nostro Paese sa bene che il nostro è un popolo che dà il meglio di sé nei momenti drammatici. Diverse volte siamo stati dati per spacciati, altrettante volte ci siamo rialzati, a dispetto dei profeti di sventura e di chi scommetteva contro le nostre capacità, quella di riscattarci, in primo luogo. Non è necessario andare troppo indietro nel tempo: vi ricordate il biennio 1992-93? La lira veniva massacrata nei mercati valutari, arrivando a perdere il 25% del suo valore, nel Paese si diffondeva la “sindrome sudamericana”, la terribile prospettiva di un’inflazione fuori controllo, l’economia arrancava, proprio come oggi e, come se tutto ciò non bastasse, l’offensiva della criminalità organizzata contro lo Stato culminava nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. All’estero davamo l’impressione di essere una nazione allo sbando e, con il senno di poi, viene da aggiungere che forse era qualcosa di più di un’impressione. Ebbene, la legge finanziaria del governo Amato e l’accordo del luglio 1993, stipulato tra governo e parti sociali, rimisero l’Italia in carreggiata. Non fu facile per le confederazioni sindacali convincere la base ad accettare quell’accordo – i leaders vennero presi a bullonate nelle piazze – ma grazie ad esso ed all’operato dell’esecutivo guidato da Giuliano Amato, l’inflazione fu domata, il Sudamerica allontanato e la barra del timone venne orientata verso l’obiettivo della moneta unica europea. A proposito della moneta unica europea: ricordate la svolta secessionistica della Lega Nord, all’indomani delle elezioni politiche del 1996? Umberto Bossi era convinto che l’Italia non avrebbe mai potuto farcela ad accedere al gruppo dell’Euro. Era altresì convinto che le regioni settentrionali l’avrebbero seguito sulla strada che doveva condurre all’indipendenza del Nord della penisola. D’altra parte, solo qualche settimana prima, alle urne, presentandosi da solo, il suo partito aveva raggiunto un’alta percentuale di consensi. L’Italia rischiava di scivolare verso il Medio Oriente (perché con la debole lira quello sarebbe stato il nostro destino) e, facendo leva sul medesimo rischio, c’era chi attentava all’unità nazionale. Si sa come andò a finire. L’Italia agganciò l’Euro, i voti raccolti dalla Lega scesero al minimo storico, Bossi dovette rivedere tutta la sua strategia e rimediare con un’inversione a “U”. L’Italia, sorprendendo tutti ancora una volta, si rimise in cammino. Gli stranieri strabuzzavano gli occhi, chiedendosi dove questo Paese trovasse la forza di combattere anche quando poteva considerarsi già bello che spacciato. Ma quando ci siamo di mezzo di noi, ci si può aspettare di tutto. Deve prima scendere la notte più oscura per scoprire l’Italia migliore. Siatene pur certi: sarà così anche stavolta. Oggi i dati statistici impietosamente affermano che l’economa è ferma, la recessione dietro l’angolo, il nostro rapporto tra debito pubblico e Pil è il più alto tra i Paesi industrializzati ed il governo ha preparato le misure da adottare nell’eventualità qualche nostra banca corresse il rischio di fallire. Un’altra notte oscura, un’altra difficile prova da affrontare. Ma io conosco la mia gente e vi dico: preparatevi ad un’altra stupefacente sorpresa.
Mauro Ammirati

giovedì 16 ottobre 2008

Un modello da rivalutare

Per fronteggiare la crisi che si è abbattuta sui mercati finanziari in tutto il mondo, nei Paesi economicamente più avanzati lo Stato ha ritenuto di dover intervenire acquistando quote di capitale dei principali istituti di credito nazionali. Con tanti saluti alla dottrina del laissez faire negli States e nel Regno Unito, dove non era più stata messa in discussione dai tempi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher; e con buona pace della norma che impedisce di ricorrere agli aiuti di Stato e dei parametri stabiliti dal Trattato di Maastricht nei Paesi che hanno adottato l’euro. Nel giro di poche settimane, sono stati spazzati via, uno dietro l’altro, i princìpi supremi che avevano ispirato la politica economica in tutti i Paese occidentali nei trent’anni precedenti. La domanda che ora in molti si pongono è la seguente: dopo l’orgia liberista, stiamo tornando al dirigismo, allo Stato onnipresente ed ipertrofico? Per essere più precisi: una volta passata la bufera, lo Stato che è tornato a fare il banchiere, farà un passo indietro e cederà al mercato le azioni acquistate per evitare il tracollo delle banche oppure cercherà di allargare la sua presenza in economia, magari acquistando aziende operanti in altri settori strategici? L’appetito vien mangiando e l’esperienza storica insegna che la politica tende quanto più possibile ad allungare le sue braccia e rubare spazio alla società. Come scrisse una volta un economista: «L’occasione fa il politico» (chi non ha ancora compreso questo è invidiabile per la sua ingenuità). Altri, invece, si chiedono se siamo davanti alla fine della globalizzazione. Perché se il focolaio d’infezione era Wall Street, va aggiunto che il contagio dei cosiddetti “titoli tossici” si è diffuso in tutte le Borse del pianeta, come la peste raccontata da Manzoni, generando il panico e costringendo i governi alle operazioni di salvataggio costate centinaia di miliardi di euro. Il mondo intero è giunto sull’orlo d’una crisi di nervi. Il momento drammatico della finanza – e qui viene il peggio – purtroppo coinvolge anche l’economia reale. I manager che producevano ricchezza immaginaria attraverso ribassi e rialzi delle quotazioni hanno inguaiato anche quegli imprenditori che producevano ricchezza reale. Le scelte azzardate di fondi comuni e di banche d’affari di Paesi lontani possono portare in rovina la piccola azienda d’un imprenditore che produce, per esempio, calzature, il quale ignorava perfino che quei fondi e quelle banche esistessero. Dunque, si ripropone un vecchio dilemma: dirigismo o liberismo? Insieme ad uno nuovo: globalizzazione o ritorno al protezionismo? In proposito noi non abbiamo dubbi: la soluzione si chiama “economia sociale di mercato”, quel modello di società che fino a qualche settimana fa veniva considerato un rottame del passato e che ora è auspicabile che venga rivalutato. Non dobbiamo inventarci niente, ci avevano già pensato sessant’anni fa i nostri padri costituenti: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura con gli opportuni controlli, il carattere e la finalità» (art. 45); «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende» (art. 46). L’economia sociale di mercato ha permesso alla Repubblica federale tedesca di essere per mezzo secolo la locomotiva d’Europa, è la migliore sintesi possibile tra libertà economica e solidarietà. Chi fino a ieri la riteneva superata dai tempi, oggi, umilmente dovrebbe arrossire.
Mauro Ammirati

martedì 7 ottobre 2008

Ottima osservazione, però...


Il commento del mio amico Scafarolo (una persona che posso garantire non difetta di buon senso) invita ad una profonda riflessione. Cominciamo con il dire che, in un certo senso, egli stesso pone la questione e dà la risposta. Perché parla di “mito americano”. Il punto è che essere filoamericano – ed io orgogliosamente lo sono – non significa affatto voler fare degli States un mito. Gli americani hanno i loro difetti, il loro sistema politico-istituzionale non è perfetto, quello socio-economico ha degli aspetti assolutamente inaccettabili agli occhi di noi europei (l’assistenza sanitaria accessibile solo ai benestanti è il più evidente). Ma tutto ciò molti di noi filoamericani lo sanno benissimo. Di più, sanno anche che ogni Paese ha la sua storia, la sua cultura ed i suoi costumi. Pertanto a nessuna persona avveduta, sia essa filoamericana o antiamericana, può venire in mente di chiedere che un determinato modello politico o economico adottato in un Paese straniero venga impiantato nel proprio Paese così com’è, senza tener conto delle peculiarità che dividono i Paesi in questione. Personalmente sono per il presidenzialismo (credo che andrebbe benissimo anche per l’Italia), ma diffido del liberismo, semplicemente perché l’Europa non è individualista come gli States. La politica va fatta con equilibrio e laicamente, con una sana diffidenza verso i dogmi (neanche il libero mercato va considerato un dogma, come i fatti dei giorni nostri attestano). Quindi, mettiamola così: Scafarolo ha ragione, ma io non ho torto.
Mauro Ammirati

sabato 4 ottobre 2008

La fine d'un sogno


I governi dei Paesi occidentali nazionalizzano le banche, la crisi finanziaria mondiale attuale viene accostata a quella del ’29, che, come tutti sanno, fu superata con il New Deal, cioè un vasto intervento pubblico in economia. Le Borse, tra il panico e l’isteria, confidano nella politica per evitare il naufragio. C’è da strabuzzare gli occhi. Una situazione simile chi poteva immaginarla solo due anni fa? Per chi l’avesse dimenticato, la compagnia aerea Alitalia ha rischiato il fallimento, scongiurato all’ultimo momento, perché il governo italiano sosteneva di non poter ripianare il debito dell’azienda con denaro pubblico, essendo tale operazione vietata dal trattato istitutivo dell’Unione europea. Si trattava di due miliardi di euro, una cifra risibile rispetto a quelle che i governi di Belgio, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno dovuto sborsare per rilevare banche e finanziarie agonizzanti o evitarne il crac. Veniamo da un quindicennio in cui il concetto di “nazionalizzazione” era eresia, il liberismo il dogma, la privatizzazione di aziende pubbliche l’unica cura prescritta, qualunque ipotesi di intervento dello Stato in economia una tentazione demoniaca. Ora operatori di Borsa, banchieri ed imprenditori supplicano a mani giunte lo Stato di fare ciò che due anni fa era considerato un peccato mortale. Più nessuno danza attorno al totem del mercato, il liberismo non è più un feticcio, la finanza creativa non è più un idolo. Si torna a parlare, pensate un po’, d’economia reale, quella che produce davvero beni e servizi, quella che crea ricchezza materiale (non virtuale, non di carta) e posti di lavoro, quindi benessere generale e progresso per una nazione. Il mondo oggi è irriconoscibile, uno sconvolgimento di tale portata è abbastanza per poter dire che più nulla sarà come prima. La politica si riprende il suo primato, l’economia fa un passo indietro, torniamo tutti con i piedi per terra. La vera rivoluzione non consiste nella ritirata dei liberisti, ma è ciò che avviene nella mente di milioni di persone in tutto l’Occidente, è nella fine di un’illusione, nella sparizione d’un mondo fiabesco in cui, in fin dei conti, in tanti si erano effettivamente convinti che bastasse poco per arricchirsi. È crollato il castello di carta ed insieme a questo speranze, certezze e la religione del nuovo vitello d’oro, i cui sacerdoti insegnavano che un nuovo trauma come quello del ’29 o del 1987 – che segnò la fine degli yuppies - non si sarebbe più verificato. È crollata altresì una certa concezione dell’Europa, fondata sulla supremazia dell’economia e la politica messa all’angolo. Abbattuto, come già ricordato, il tabù degli aiuti di Stato, ora tocca alla Banca centrale europea. Sin dalla sua fondazione, tale istituto ha dovuto preoccuparsi solo di prevenire l’inflazione, disinteressandosi della crescita economica e dei rischi di recessione. Il risultato è che l’Europa nel suo insieme ha perso sempre più terreno nel mercato mondiale. È una bestemmia dire che è giunto il momento di ripensare anche il ruolo della Bce?
Mauro Ammirati