Per fronteggiare la crisi che si è abbattuta sui mercati finanziari in tutto il mondo, nei Paesi economicamente più avanzati lo Stato ha ritenuto di dover intervenire acquistando quote di capitale dei principali istituti di credito nazionali. Con tanti saluti alla dottrina del laissez faire negli States e nel Regno Unito, dove non era più stata messa in discussione dai tempi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher; e con buona pace della norma che impedisce di ricorrere agli aiuti di Stato e dei parametri stabiliti dal Trattato di Maastricht nei Paesi che hanno adottato l’euro. Nel giro di poche settimane, sono stati spazzati via, uno dietro l’altro, i princìpi supremi che avevano ispirato la politica economica in tutti i Paese occidentali nei trent’anni precedenti. La domanda che ora in molti si pongono è la seguente: dopo l’orgia liberista, stiamo tornando al dirigismo, allo Stato onnipresente ed ipertrofico? Per essere più precisi: una volta passata la bufera, lo Stato che è tornato a fare il banchiere, farà un passo indietro e cederà al mercato le azioni acquistate per evitare il tracollo delle banche oppure cercherà di allargare la sua presenza in economia, magari acquistando aziende operanti in altri settori strategici? L’appetito vien mangiando e l’esperienza storica insegna che la politica tende quanto più possibile ad allungare le sue braccia e rubare spazio alla società. Come scrisse una volta un economista: «L’occasione fa il politico» (chi non ha ancora compreso questo è invidiabile per la sua ingenuità). Altri, invece, si chiedono se siamo davanti alla fine della globalizzazione. Perché se il focolaio d’infezione era Wall Street, va aggiunto che il contagio dei cosiddetti “titoli tossici” si è diffuso in tutte le Borse del pianeta, come la peste raccontata da Manzoni, generando il panico e costringendo i governi alle operazioni di salvataggio costate centinaia di miliardi di euro. Il mondo intero è giunto sull’orlo d’una crisi di nervi. Il momento drammatico della finanza – e qui viene il peggio – purtroppo coinvolge anche l’economia reale. I manager che producevano ricchezza immaginaria attraverso ribassi e rialzi delle quotazioni hanno inguaiato anche quegli imprenditori che producevano ricchezza reale. Le scelte azzardate di fondi comuni e di banche d’affari di Paesi lontani possono portare in rovina la piccola azienda d’un imprenditore che produce, per esempio, calzature, il quale ignorava perfino che quei fondi e quelle banche esistessero. Dunque, si ripropone un vecchio dilemma: dirigismo o liberismo? Insieme ad uno nuovo: globalizzazione o ritorno al protezionismo? In proposito noi non abbiamo dubbi: la soluzione si chiama “economia sociale di mercato”, quel modello di società che fino a qualche settimana fa veniva considerato un rottame del passato e che ora è auspicabile che venga rivalutato. Non dobbiamo inventarci niente, ci avevano già pensato sessant’anni fa i nostri padri costituenti: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura con gli opportuni controlli, il carattere e la finalità» (art. 45); «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende» (art. 46). L’economia sociale di mercato ha permesso alla Repubblica federale tedesca di essere per mezzo secolo la locomotiva d’Europa, è la migliore sintesi possibile tra libertà economica e solidarietà. Chi fino a ieri la riteneva superata dai tempi, oggi, umilmente dovrebbe arrossire.
Mauro Ammirati
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