Non c’è affatto da rallegrarsi che il principale partito d’opposizione in Italia sia ora una forza politica acefala. C’è anzi da preoccuparsi, per la semplice ragione che una democrazia, per essere efficiente e per prevenire i tanti mali che sono sempre in agguato, in primis la corruzione, ha bisogno tanto d’un buon governo, quanto d’una buona opposizione. Sebbene sembri paradossale, un’opposizione lacerata da divisioni interne e senza una leadership autorevole è uno dei guai peggiori che possa capitare ad un governo. Le dimissioni rassegnate da Veltroni all’indomani della sconfitta riportata dal centrosinistra nelle elezioni regionali sarde non aggravano né risolvono la crisi nel Partito Democratico, ne sono semplicemente la logica conseguenza ed una clamorosa manifestazione. Ora, è nell’interesse anche del centrodestra che il medesimo Partito democratico al più presto trovi la cura, quale che sia (congresso, nuove primarie…), che gli consenta di tornare a svolgere, in Parlamento, nelle migliori condizioni possibili, il ruolo che l’elettorato italiano gli ha affidato: l’opposizione. Detto questo, ci permettiamo di fare una considerazione riguardo all’origine della crisi in parola, che a sua volta ha cagionato le recenti sconfitte elettorali. A Veltroni viene rimproverato di non avere saputo dare un progetto politico ed un’identità al Pd. Invero, sembra che nessuno – neppure tra gli avversari più critici del leader dimissionario – abbia davvero un progetto, a meno che con questo termine non s’intenda la proposta di tornare a coalizzarsi con l’estrema sinistra. Se la colpa di Veltroni, come sostengono in tanti nel suo stesso partito, è quella di aver voluto separarsi dalla cosiddetta sinistra antagonista, allora è bene ricordare che per ben due volte, negli ultimi tredici anni, riformisti e sinistra estrema hanno provato a governare insieme questo Paese e si sa com’è andata. No, non è stato questo l’errore di Veltroni. Semmai, il contrario, ossia non ha avuto il coraggio di perseguire ad ogni costo il proposito di presentarsi alle ultime elezioni politiche senza alcun alleato. Fece due eccezioni, una per i radicali ed un’altra per Di Pietro. E mal gliene incolse. I radicali furono candidati nelle liste (quindi con il simbolo) del Pd e, tutto sommato, tanti grattacapi a Veltroni non ne hanno dati. Ma il rapporto con l’Italia dei valori fu tumultuoso sin dall’inizio della legislatura. Quando scriviamo che il segretario del Pd non ha avuto il coraggio di perseguire “ad ogni costo” il suo disegno politico, intendiamo dire: “anche a costo” di rinunciare ai voti Di Pietro. Perché la figura dell’ex Pubblico ministero e leader dell’Italia dei valori che accostava Berlusconi a Videla (l’alto ufficiale argentino che mandava a morire i desaparacidos) strideva troppo con quella del segretario del Pd, dialogante e dichiaratamente disposto a fare le riforme con l’esecutivo di centrodestra. Veltroni, dunque, ha commesso due errori: il primo è stato allearsi con Di Pietro, il secondo è stato quello di perseverare nel primo. Non si può dialogare con il governo e restare alleato con chi considera il capo di governo la personificazione del male. In tal modo, il riformismo del Pd è sembrato ambiguo, incerto, insincero, zoppicante, indeciso… per intenderci, un passo avanti ed uno indietro, vorrei ma non posso. Se alcuni mesi dopo aver stipulato l’alleanza con l’Italia dei valori, Veltroni avesse avuto il coraggio di romperla, ora forse saremmo qui a raccontare un’altra storia.
Mauro Ammirati
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