Sulla distinzione tra governo tecnico e governo politico si potrebbe discutere a lungo, purtroppo su queste pagine non disponiamo di sufficiente spazio per un’analisi approfondita dell’argomento. Ad ogni modo, è illuminante in materia una raccolta di saggi scritti da Max Weber nel 1917, Parlamento e Governo, Ed. Laterza. In questa sede, ci interessa principalmente cercare di capire la situazione venuta a crearsi in Italia, negli ultimi mesi, con l’insediamento del governo Monti. Occorre dare una risposta a quelle domande che ora molti si pongono, soprattutto (e con una certa rabbia), nel centrodestra: perché si va a votare ed eleggere un Parlamento e (indirettamente) un governo se poi a governare vanno i cosiddetti tecnici? Come ne esce da questa vicenda la sovranità del popolo, che in democrazia è un dogma? A dispetto delle apparenze, la questione è estremamente semplice: nei Paesi in cui la democrazia ha radici profonde, quando la politica fallisce, al potere vanno gli accademici, gli alti funzionari dello Stato, i banchieri ed i dirigenti delle grandi aziende, in una parola, i tecnici; dove la democrazia non ha un’antica tradizione a sostenerla, se la politica non fa dignitosamente la sua parte e cade in discredito, al potere vanno i militari. Grazie a Dio, l’Italia di oggi non è il Cile degli anni ’70, così il nuovo Presidente del Consiglio è un ex rettore della Bocconi e non un uomo con le stellette sulle spalle. Ma nell’uno come nell’altro caso, parliamo sempre di fallimento della classe politica. Capisco che Monti ed i suoi ministri non suscitano un grande entusiasmo a destra e, invero, neanche a sinistra, ma i principali partiti italiani devono chiedersi perché quelle riforme – giuste o sbagliate, condivisibili o meno che siano – che l’attuale governo ha fatto in due mesi la politica non abbia saputo o potuto farle in tre decenni. In altri termini, perché era necessario che andassero al potere i tecnici perché in Italia venissero presi provvedimenti che in altre democrazie sono stati adottati da governi eletti dal popolo e guidati da personalità politiche? Noi due risposte da dare le abbiamo.
La politica italiana ha perso e continua imperdonabilmente a perdere la sfida più importante: la grande riforma istituzionale. La nostra è una Costituzione compromissoria, nell’immediato dopoguerra era, probabilmente, l’unica possibile, ma sin dalla fine degli anni ’70, la necessità che venisse modificata in più parti è andata facendosi sempre più evidente. Un sistema istituzionale come il nostro non consente che si formino governi stabili ed efficienti, capaci di decidere e fare leggi nell’interesse delle future generazioni. Se non si mette mano alla Carta ed alle regole elettorali, noi da questo fosso non usciamo.
Non è solo questione di regole, va detto, ma anche di cultura politica. Fino alla caduta del Muro di Berlino, abbiamo avuto la Guerra Fredda dentro casa. Il cosiddetto “fattore K” impediva il ricambio, la nostra era una democrazia bloccata, non si poteva certo pretendere che il nostro sistema politico funzionasse come quelli anglosassoni o quelli scandinavi. Ma dal 1991 in poi, con la scomparsa della cortina di ferro, abbiamo avuto anche noi la possibilità di costruire una “democrazia compiuta” o dell’alternanza. Purtroppo, sostanzialmente, non ci siamo riusciti, altrimenti oggi non governerebbero i tecnici. Il punto è che dal 1994 ad oggi è prevalsa la politica “negativa”, cioè sono state stipulate coalizioni non per governare, ma per impedire che l’avversario vincesse le elezioni. Così, a destra si coalizzavano nazionalisti, separatisti, autonomisti e federalisti. A sinistra, l’alleanza si estendeva da liberali atlantisti a partiti filocubani rimasti fermi alla lotta di classe, passando per cattolici e laicisti (nel 2008 Veltroni scaricò l’estrema sinistra e fu ritenuto responsabile della sconfitta elettorale). Ognuno dei due schieramenti era convinto di essere una sorta di fronte di liberazione nazionale. È finita come sappiamo e non poteva che finire così. Ma, francamente, dubitiamo assai che abbiano capito la lezione.
Mauro Ammirati
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