Non possiamo sapere se davvero Berlusconi toglierà la
fiducia al governo Letta, come minaccia da un mese, nel caso la Giunta per le
elezioni del Senato lo dichiari decaduto dalla carica di senatore. L’organo in
questione comincerà a discuterne dal 9 settembre, ma comunque vadano le cose,
alcune considerazioni possiamo farle sin da ora. Cominciamo con il dire che il
quadro politico è quanto mai complesso, le variabili indipendenti o, come suol
dirsi, le incognite sono diverse. Sappiamo con certezza che il voto anticipato
è richiesto dal leader del M5s, Beppe Grillo, dalla Lega nord e, pare, da una
buona frazione del Pdl. Ma non è affatto sicuro che una crisi di governo porti
ad elezioni anticipate. Il Presidente della Repubblica, in più di un’occasione,
ha fatto capire chiaramente che, se Enrico Letta verrà sfiduciato, le tenterà
tutte prima di sciogliere il Parlamento. Il Capo di Stato non può certo
inventarsi una maggioranza parlamentare che non c’è, non può crearla dal nulla,
davanti ad un Parlamento di minoranze incomunicabili può solo indire nuove
elezioni. Ma, da questo punto di vista, ciò che sta accadendo nei gruppi
parlamentari del M5s merita di essere seguito con attenzione. In sette mesi di
legislatura vi sono già state clamorose defezioni tra gli eletti di tale forza
politica, nelle ultime settimane Beppe Grillo ha ribadito con fermezza di non
essere affatto disposto a stipulare un’alleanza di governo con il Pd, ma diversi
senatori e deputati del M5s in proposito hanno già detto di pensarla
diversamente dal leader. Ulteriori defezioni o – qualcuno azzarda – una
scissione potrebbe spianare la strada alla formazione d’una nuova maggioranza e
d’un nuovo esecutivo. E, comunque, la sola possibilità che questo accada è
sufficiente per indurre chi vuole mandare a casa Enrico Letta a tenere un
comportamento più prudente. In secondo luogo, la storia della Repubblica
insegna che le elezioni anticipate non premiano chi le ha volute. Il diritto di
voto è una gran bella cosa, ma neanche al popolo sovrano piace rinnovare le
assemblee elettive troppo di frequente. In Italia le elezioni politiche si sono
tenute nello scorso febbraio, tornare alle urne nove o dieci mesi dopo non
sarebbe un segno di buona salute per la nostra democrazia. In terzo luogo, la
vicenda che è al centro del dibattito politico italiano da un mese a questa
parte, cioè la sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna in
appello per Silvio Berlusconi, fa tornare alla mente il cartello appeso nella
famosa fattoria di George Orwell. Come si sa, c’era scritto: «Tutti gli animali
sono eguali davanti alla legge, ma alcuni animali sono più eguali degli altri.»
Berlusconi ha chiesto insistentemente al Pd ed ai colleghi senatori della
Giunta per le elezioni di essere dichiarato «più eguale degli altri», definendo
la sua permanenza nella carica un «atto di pacificazione». Ora, se il governo
cadesse per un mancato «atto di pacificazione» e si andasse davvero alle urne,
la campagna elettorale inesorabilmente diverrebbe una referendum sulla
magistratura italiana e sulla riforma del sistema giudiziario. Il punto è: quanto interesserebbe all’elettorato
partecipare ad uno scontro simile, in un Paese in cui la disoccupazione
giovanile è arrivata al 40% ed a causa della recessione i suicidi sono quasi
all’ordine del giorno? Forse è il caso di ricordare che alle ultime elezioni
regionali ad aver vinto, anzi stravinto, è stato il partito della diserzione.
Mauro Ammirati
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