lunedì 3 febbraio 2014

Vent'anni dopo


         Il contesto è completamente diverso, ma la sensazione è la stessa e, in buona parte, anche la diagnosi. L’impressione è chi si sia tornati al biennio 1992-1993, quello del ciclone di Tangentopoli e, nonostante da allora l’Italia sia molto cambiata (in peggio, verrebbe da aggiungere), una riflessione su quanto accade ai giorni nostri induce a pensare che non si tratti solo di un’impressione. Come già accennato, viviamo sotto un altro cielo rispetto a vent’anni fa, in quel periodo l’Italia si liberava della Guerra fredda che, sin dal 1945, aveva avuto un’influenza di primaria importanza sugli equilibri politici interni; i partiti storici, popolari, di massa e strutturati si liquefacevano sotto i colpi letali delle inchieste giudiziarie (Dc e Psi) o subivano una mutazione genetica a causa del crollo del bipolarismo mondiale (Pci). Nascevano nuove forze politiche la cui avanzata, in termini elettorali, era in apparenza inarrestabile (Lega Nord, An e Forza Italia). Con un referendum, gli italiani scelsero di darsi nuove regole che (si presumeva) assicurassero maggiore governabilità, possibilmente governi di legislatura, come accade ordinariamente nelle grandi democrazie e che, invece, da noi era accaduto eccezionalmente. Dunque, avevamo nuove forze politiche e cercavamo anche di costruire un nuovo sistema politico. Sembrava un mutamento incoraggiante (del senno di poi sono piene le fosse, facile dire oggi che fu solo un’illusione). Infine, l’Italia usciva dallo Sme ed entrava in un periodo di crescita economica (grazie ai cambi flessibili). Cosa avviene in queste primi mesi del 2014? Due leaders, Renzi e Berlusconi, concludono un accordo (ancora da perfezionare, pare) su una riforma elettorale, per salvare il bipolarismo, che scricchiola a causa della crescita di consensi d’un outsider, il M5s; le inchieste giudiziarie ed i processi falcidiano giunte regionali (i cui poteri, con la riforma del Titolo V della Costituzione, si sono notevolmente accresciuti) e trascinano ai minimi storici la credibilità della classe politica; lo stato dell’economia è disastroso, le prospettive non sono affatto incoraggianti. Abbiamo semplificato fino alla brutalità, ma disponiamo di quanto basta per rispondere alla domanda: cosa ha in comune  con Tangentopoli la situazione attuale e in cosa differisce? Direi che oggi come allora, i leaders commettono l’errore di pensare che si possa salvare un sistema agonizzante semplicemente imponendo delle regole elettorali. Craxi, Andreotti e Forlani fecero di tutto per preservare il sistema elettorale proporzionale, su cui si reggeva il sistema di alleanze nazionali e locali. L’introduzione dell’elezione diretta delle giunte provinciali e comunali ed un sistema elettorale prevalentemente maggioritario per Camera e Senato spazzarono via la resistenza di socialisti e democristiani. Berlusconi e Renzi, oggi, disegnano l’Italicum, ricalcato sulla legge Calderoli, dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Anche questa convergenza sembra dettata più dalla disperazione e dalla volontà di salvare il salvabile, che da un autentico spirito riformatore. Ripetiamolo ancora una volta: l’ingegneria elettorale è importante e può aiutare a risolvere tanti problemi, ma non può fare miracoli. Se i partiti stipulano alleanze e si separano dopo le elezioni, se i parlamentari passano da un gruppo all’altro, il problema non è costituito dalle regole, ma dagli uomini e, soprattutto, dai leaders. Un altro elemento in comune con la situazione di vent’anni fa è la pressione di fattori internazionali. Nel 1992, un’intera classe dirigente si rivelò incapace di capire cosa rappresentasse il crollo del Muro di Berlino. Lo capì quando era troppo tardi. Oggi, la classe politica italiana ignora (o finge di ignorare) cosa sta accadendo nell’economia mondiale e negli altri Paesi dell’Unione europea. Più precisamente, autorevoli economisti parlano di rischio break-up dell’euro, in Francia i sondaggi danno il primato dei consensi al Front National, di Marine Le Pen, il cui programma, al primo punto, stabilisce il ritorno alla sovranità monetaria ed al franco. La fine della moneta unica europea potrebbe essere per questa classe politica ciò che il crollo del Muro di Berlino fu per democristiani, socialisti e comunisti vent’anni fa.

         Mauro Ammirati    

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