La notizia più importante delle ultime settimane (o,
comunque, una delle più importanti), almeno per l’Italia, è arrivata da
Francoforte: la Bce ha tagliato i tassi di interesse di 10 punti base, ha
annunciato che acquisterà titoli sul mercato ed aumentato i tassi di interessi
negativi sulle riserve bancarie. Nessuno si spaventi, mi spiego subito:
l’istituto d’emissione sta semplicemente cercando di mettere più denaro in
circolazione, aumentando la quantità di moneta a disposizione delle banche. La notizia è stata accolta con favore nel
nostro Paese ed in Francia, mentre ha accresciuto la diffidenza dei tedeschi
verso l’italiano Mario Draghi. La Germania, come si sa, esige, principalmente
da noi e dai nostri cugini transalpini, rigore nel contenimento dei debiti e
dei deficit pubblici, mentre la Bce taglia il costo del denaro, provocando un
deprezzamento dell’euro sul dollaro. Proprio ciò che fa, tradizionalmente,
imbestialire i tedeschi, che hanno la fissazione della moneta forte e la fobia
delle svalutazioni. Il punto più importante, però, è un altro ed
autorevolissimi economisti, compreso qualche premio Nobel, non hanno mancato di
farlo notare: la manovra in questione è inefficace, non aiuterà l’economia
dell’eurozona a riprendersi, non faciliterà la ripresa né la creazione di posti
di lavoro. L’errore della Bce e di tanti statisti è quello di pensare che più
soldi vengono dati alle banche, più queste saranno propense a concedere
prestiti alle aziende. Ahinoi, non è
così. E non lo dico io, ma la Bank of England. Recentemente nel suo bollettino
la banca centrale inglese ha spiegato che le banche negano o concedono prestiti
non sulla base della quantità di denaro di cui dispongono, ma valutando quanto
renderebbe il prestito nel caso venisse concesso (e, ovviamente, la solvibilità
di chi lo chiede). Ora, si dà il caso che, statistiche alla mano, le imprese francesi
ed italiane non investano perché non riescono a vendere i loro prodotti
all’estero (l’euro è una moneta troppo forte e le mette fuori mercato) né in
casa loro (dove la domanda di beni e servizi è troppo debole, cioè le famiglie
sono rimaste senza soldi). Dunque, perché mai un’azienda di Bologna o Nizza
dovrebbero investire? Se anche queste imprese volessero approfittare del basso
tasso di interesse e si mettessero ad investire e produrre, i loro prodotti
resterebbero sugli scaffali o in magazzino. Lo sanno gli imprenditori e lo
sanno anche le banche. La crisi dell’eurozona è dovuta a questo, è crisi di
domanda. Per la medesima ragione non serve neppure modificare le norme vigenti
per facilitare i licenziamenti o favorire le assunzioni. Ve lo dico con le
parole d’un imprenditore con cui parlavo tempo fa, uno che ha un centinaio di lavoratori
alle sue dipendenze: «Che me ne faccio degli incentivi ad assumere se non ho
gli ordinativi? Prendo un ragazzo e poi lo faccio stare con le mani in mano?» Renzi
e Berlusconi sembra che non abbiano ancora compreso la vera natura del
problema. L’uno e l’altro sono convinti che per far ripartire l’Italia
occorrano una burocrazia più snella, una riforma della giustizia per abbreviare
i tempi di processi e cause civili, insieme con una riforma del Parlamento e
della legge elettorale. Intendiamoci, a queste materie si deve mettere mano, lo
abbiamo scritto più volte e lo ribadiamo. Ma non saranno tali riforme a ridare
vigore alla nostra economia. Abbiamo sentito tante volte dire che una
recessione così devastante non si vedeva dal 1929. Il Presidente americano F. D.
Roosvelt affrontò quella crisi drammatica con il New Deal, un vasto programma
di opere pubbliche. Poi ci fu l’attacco giapponese a Pearl Harbor e, per quanto
sia rivoltante dirlo, la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra diede
un’ulteriore spinta alla loro economia. Al punto che, terminato il conflitto,
aiutarono anche noi a rimetterci in piedi, staccando un assegno per il nostro
Alcide De Gasperi (ve lo ricordate il Piano Marshall?). Non si esce dalle
recessioni, purtroppo, se lo Stato non fa da traino all’economia (cominciando con
il rilancio dell’edilizia pubblica). Ma di investimenti pubblici, in Italia ed
in Francia, di questi tempi, non si può neanche parlare. I parametri comunitari
ci impongono tagli al bilancio, i quali comprimono ulteriormente la domanda. È
un circolo vizioso, se non l’avete capito. Nell’ultimo numero vi parlai del
successo alle elezioni europee di Marine Le Pen in Francia e
dell’antieuropeismo crescente. Da allora, dicono i sondaggi, i consensi ai
partiti antieuropeisti sono andati aumentando. Non so voi, ma io non ne sono
sorpreso.
Mauro Ammirati
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