Una premessa, innanzitutto: non vado, affatto, pazzo per i
sondaggi, il più delle volte mi infastidiscono, per ragioni molto semplici. In
primo luogo, perché in democrazia contano i voti, non le semplici ricerche
d’opinione. In secondo luogo, perché, in passato, in diverse circostanze, i
sondaggisti hanno preso cantonate madornali, costringendo anche qualche
quotidiano a tornare in stampa per rifare la prima pagina. Infine, perché, ai
giorni nostri, gli uomini politici, da noi come altrove, non prendono più
alcuna decisione se prima non hanno il conforto d’un sondaggio. Berlusconi, per
menzionarne uno, cambia opinione continuamente sulla base degli spostamenti
delle percentuali risultanti da tali ricerche (l’ultimo dietrofront è quello
sulle coppie di fatto e ius soli), prendendo esempio da un uomo politico di
tanti anni fa, che diceva: «Sono il loro capo, quindi li seguo.» Il guaio è che
proprio perché i leaders hanno nella massima considerazione i sondaggi, almeno
uno sguardo a quei numeri dobbiamo darlo anche noi per poter analizzare i fatti
politici. Chiarito questo punto, sarà facile al lettore comprendere perché oggi
riporto alcune cifre pubblicate, giorni fa, dall’istituto Demos & Pi, per
il quotidiano Repubblica, secondo le
quali Matteo Renzi resta l’uomo politico che raccoglie maggiore fiducia in
Italia, ma perde 10 punti, mentre al secondo posto, con il 30%, si piazza
Matteo Salvini, segretario federale della Lega Nord, alla quale viene assegnato
l’11% di consensi. Il divario tra i due, comunque, rimane ampio, circa 20
punti, che non è proprio poca cosa, ma Salvini vede crescere considerevolmente
i suoi estimatori anche al Sud, fino al 30%. Il Pd scende dal 41% al 36%. Un
altro sondaggio della Lorien Consulting,
pubblicato da Italia Oggi, conferma
il calo del Pd, il 50% di popolarità per Matteo Renzi ed assegna alla Lega
l’8,5%, comunque più del doppio di quanto prendesse poco tempo fa. Che siano
attendibili o no tali risultati poco importa, perché sono bastati a mettere in
allarme Berlusconi ed a dare coraggio al segretario federale della Lega Nord,
che ora dice esplicitamente di volere la leadership di tutto il centrodestra.
Un fatto inimmaginabile solo due mesi fa e tale da scompaginare il progetto
dello stesso Berlusconi e riaprire i giochi nello schieramento che per
vent’anni ha conteso il governo nazionale al centrosinistra. Qui, ora interessa
poco quali possano essere gli sviluppi della situazione che ho appena
tratteggiato, è molto più importante analizzare i dati oggettivi. Cosa ha determinato
il successo personale e politico di Salvini? Perché, come riferiscono le
cronache, la Lega, di questi tempi, fa proseliti anche nel meridione? Il
giovane leader leghista sta provando a “nazionalizzare” il suo partito, a
farne, cioè, una forza politica italiana, sta cercando di portarlo al di sotto
della “linea gotica”, operazione che più volte Bossi aveva tentato, ma senza
successo (e, probabilmente, senza neppure crederci). Conquistare i meridionali alla
causa del federalismo si è rivelato molto difficile; si consideri, inoltre, che
la prospettiva dell’autonomia non poteva fare molto presa in una grande regione
come la Sicilia, che ha già uno statuto speciale. Salvini poteva “sbarcare” al
sud solo mostrando di avere una visione nazionale, non più nordista, della
crisi italiana. Ha posto al centro del suo programma due proposte: ritorno alla
valuta nazionale e lotta all’immigrazione clandestina (ma sul concetto di
“clandestino” occorrerebbe intendersi, i siriani, per esempio, in questo
periodo sono da considerare, in realtà, rifugiati). Anche Bossi sosteneva una
politica di contrasto all’immigrazione, ma ciò non gli è mai bastato a prendere
voti da Bologna in giù. La carta vincente di Salvini, dunque, è stata la lotta
all’euro, con la quale ha potuto anche avvicinare alla Lega economisti come
Borghi, Rinaldi e (forse) Bagnai. La Lega non chiede più la secessione del nord
dall’Italia, ma dell’Italia dall’eurozona. Un argomento che può essere compreso
e sostenuto anche da calabresi, campani, siciliani..., dato che al sud
l’austerità imposta dall’Unione europea è stata ancor più devastante che nel
settentrione. Se non è una mutazione genetica della Lega, ci si avvicina. Ma,
come ogni operazione politica che si rispetti, è soggetta a rischi. In alcune
regioni del nord, soprattutto il Veneto, sussistono pulsioni secessionistiche,
una parte consistente dell’elettorato leghista è avversa all’Italia, più che
all’Unione europea. Così, a Salvini toccano due parti in commedia: deve fare il
nazionalista al sud e sostenere i separatisti al nord. Una situazione ambigua
che non può trascinarsi a lungo. Un giorno o l’altro dovrà scegliere. La
politica ha i suoi tempi, questo è vero, ma nessun leader può traccheggiare
all’infinito.
giovedì 20 novembre 2014
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