I recenti e tragici fatti avvenuti in Francia hanno
riportato al centro del dibattito politico, in tutti i Paesi occidentali,
l’emergenza terrorismo. Forse non è proprio corretto scrivere che l’Europa,
come abbiamo letto e sentito, ha avuto il suo 11 settembre, se si pensa a ciò
che avvenne a Madrid, alla stazione ferroviaria di Ochoa, nel 2004 o nella
metropolitana di Londra, nel 2005. Ma un fatto è certo: il vecchio continente
si scopre più vulnerabile di quanto immaginasse e, come accadde all’indomani
dell’11 settembre americano, si torna a parlare di scontro di civiltà, del
rapporto tra Occidente ed Islam e, soprattutto, d’immigrazione. Alla paura
degli attentati si aggiunge quella della xenofobia, dell’ostilità crescente
verso l’africano, l’asiatico e chiunque venga considerato estraneo alla nostra
civiltà. Di qui, la preoccupazione dei principali governi europei che un sentimento
diffuso d’avversione all’immigrato possa determinare un’avanzata elettorale di
forze politiche reputate, dagli stessi governi, estremiste o populiste , comunque
dichiaratamente e fermamente contrarie al processo d’integrazione europea, come
la Lega Nord ed il Front National, che intanto hanno già chiesto a gran voce di
tornare a controllare le frontiere. Le stragi di Parigi, i cui autori avevano
il passaporto francese, hanno spinto, in un primo momento, i ministri
dell’Interno di Spagna e Francia a porre la questione della modifica o della
sospensione del Trattato di Schengen, che stabilisce il principio di libera
circolazione dei cittadini comunitari entro i confini dell’Ue. Ipotesi che è
stata respinta immediatamente dal governo italiano, per il quale l’adozione di
simili misure sarebbe «un passo indietro» ed «un regalo ai populisti». Tanto
può bastare per capire che la minaccia terroristica è una grave insidia alla
tenuta della stessa Ue. Ma un’altra prova difficile attende le istituzioni
comunitarie. Il prossimo 25 gennaio, in Grecia, si terranno le elezioni
politiche. I sondaggi danno favorito Syriza, un partito di sinistra a favore
della permanenza del Paese nel gruppo della moneta unica, ma contrario al
proseguimento della politica d’austerità, imposta dalla cosiddetta Troika (Fmi,
Bce e Commissione europea). Il punto centrale del programma di Syriza è la
ristrutturazione del debito, vale a dire la sua rinegoziazione, una proposta che,
comprensibilmente, desta una certa inquietudine nei creditori, tra i quali ci
sono il Fondo di stabilità europeo, il Fmi, la Bce, l’Esm, banche tedesche,
francesi ed italiane. Il leader del partito, Alexis Tsipras, ha più volte
dichiarato che la sua volontà è quella di tenere la Grecia nell’eurozona (per
inciso, come il 75% dei suoi connazionali), ma, in economia, la sola volontà
non è sufficiente a conseguire un obiettivo. Ristrutturare un debito significa
sedersi a tavolino con i creditori, trattare per chiedere la remissione d’una
parte o una dilazione o chissà cos’altro e trovare un accordo. Tsipras chiede
di rinegoziare il 70%, che, come è facile capire, non è proprio poca cosa. Nel
caso che l’accordo non venisse trovato, alla Grecia resterebbe solo di tornare
a stampare il dracma. Una situazione alla quale, sostengono molti economisti,
l’euro non potrebbe sopravvivere.
Mauro Ammirati
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