venerdì 3 novembre 2017

Armi e matite

         Non si farà, per ora, la Catalogna indipendente, se ne riparlerà, forse, tra trenta o quaranta anni, se gli eventi prenderanno una certa direzione. È stata una vicenda appassionante, al punto che in Italia si sono formate due tifoserie, i favorevoli ed i contrari alla secessione, quelli che stavano con Madrid e quelli che stavano con Barcellona. Ed il destino ha voluto che, nelle stesse convulse settimane, in Italia, i cittadini di due regioni, Lombardia e Veneto, andassero a votare ad un referendum che aveva ad oggetto una maggiore autonomia delle regioni stesse dal governo di Roma. Due situazioni molto diverse, intendiamoci, perché rivendicare l’indipendenza significa costituire un nuovo Stato sovrano, mentre l’autonomia consiste nel disporre del potere legislativo su un certo numero di materie e regolamentarsele per conto proprio, ma restando parte integrante dello Stato, senza separarsene. Il dato saliente è che sia i catalani che i promotori del referendum in questione hanno cercato la legittimità politica della loro azione nel principio dell’autodeterminazione dei popoli. Un argomento che sembra vada bene tanto ai secessionisti quanto agli autonomisti. E già qui uno dovrebbe cominciare a capire che questo principio va preso e maneggiato con molta prudenza. Come si sa, fu il Presidente americano Woodrow Wilson uno dei più convinti sostenitori del principio dell’autodeterminazione dei popoli, ma erano altri tempi, si era appena conclusa la Prima Guerra Mondiale e due imperi plurinazionali, quello ottomano e quello austroungarico, si erano sbriciolati, lasciando a tante comunità etniche l’opportunità storica di darsi uno Stato o di unirsi alla madrepatria, come i nostri altoatesini. La questione delle nazionalità era drammaticamente attuale (en passant, la scintilla della guerra era stato l’attentato di Sarajevo, compiuto da un nazionalista serbo). È trascorso un secolo da allora, viviamo sotto un altro cielo, ma la questione dell’autodeterminazione, ai giorni nostri, è tornata al centro del dibattito politico in molti Paesi. La brace dei secessionismi resta accesa sotto la cenere in varie parti d’Europa, pronta a divampare di nuovo. Basti pensare a ciò che ha dichiarato il Presidente della Commissione europea, Junker: «L’Ue non può riconoscere la Catalogna indipendente, è già difficile far funzionare l’Europa e 27, figuriamoci a 98.» Già, perché, legittimando la secessione catalana, l’Ue avrebbe incoraggiato rivendicazioni indipendentistiche un po’ dappertutto, per esempio, nella nostra Sardegna, nel Paese Basco, in Baviera, in Corsica, nelle Fiandre, solo per fare alcuni nomi. «L’Europa a 98», come dice Junker, sarebbe presto diventata una realtà. Ora, dobbiamo porci una domanda: perché siamo arrivati ad una tale situazione da temere un incontrollabile effetto domino? In termini semplici: a cosa dobbiamo tutte queste spinte centrifughe, tutta questa voglia di separarsi, di mettersi in proprio? La risposta è: alla fine della Guerra Fredda, consideratela pure una vendetta postuma del comunismo. Quando avevamo un nemico – e che nemico! -, che ti costruiva un muro a Berlino e sparava a chiunque vi si avvicinasse senza permesso, che ti faceva vivere nell’incubo di un’invasione o d’un conflitto nucleare, dovevamo stare tutti inquadrati e coperti, se qualcuno parlava d’autodeterminazione dei popoli lo prendevano a pernacchie. La situazione non consentiva a nessuno di defilarsi, secedere, creando problemi e tensioni interne, equivaleva ad imboscarsi, ad indebolire la compattezza del fronte, un lusso che non ci si poteva permettere. Il crollo del Patto di Varsavia è stato come sentirsi dire dal sergente: «sciogliete l’inquadramento», «rompete le righe» e ognun per sé. Il resto lo ha fatto una certa faciloneria o, se preferite, superficialità, che ha ridotto il principio dell’autodeterminazione dei popoli ad una banalità, uno slogan, un mezzo di marketing politico, buono per fare qualunque secessione si voglia o per avere più autonomia allo scopo di pagare meno tasse, indifferentemente, uno strumento facile da maneggiare in ogni situazione ed alla portata di tutti. La conseguenza è che diverse comunità si sono convinte che il loro dialetto sia, in realtà, una lingua, che un abito folcloristico o qualche antica tradizione sia sufficiente per considerarsi un popolo, quindi non più una regione, ma una nazione e di avere, pertanto, diritto a separarsi dal resto del Paese. I leader politici e diversi politologi hanno completato l’opera diffondendo una dottrina secondo la quale si può dare vita ad un nuovo Stato semplicemente “armandosi” di matita e d’una scheda referendaria, basta passare al seggio, votare “sì” all’indipendenza e, tra qualche ora, terminato lo spoglio, sarai cittadino d’una nuova repubblica. No, purtroppo, cari amici, non è così semplice. Le secessioni, spesso, costano sangue, molto sangue, capita di rado che si facciano in modo incruento alla maniera dei cechi e degli slovacchi. I croati hanno pagato un prezzo altissimo, in vite umane, alla loro indipendenza, noi italiani ci impelagammo in un conflitto mondiale perché l’Alto Adige potesse secedere dall’Austria, gli eritrei hanno combattuto un trentennio con l’Etiopia per avere un loro Stato e potrei continuare. Il principio dell’autodeterminazione dei popoli è una cosa maledettamente e tragicamente seria. Meno ci scherzate, meglio è.

         Mauro Ammirati           

giovedì 31 agosto 2017

Un'altra economia è possibile

È stata data alle stampe, nei primi mesi del corrente anno, per le edizioni ‘Tabula fati’ di Chieti, l’ultima fatica letteraria di Mauro Ammirati, studioso di economia e apprezzato giornalista pescarese. Il titolo dell’opera è assai evocativo: “Il racconto di un'altra economia. W gli economisti eretici”.
L’Autore ha strutturato l’opera in cinque capitoli, ognuno dei quali dedicato ad un economista ‘eretico’, cioè non in linea con il pensiero dominante. Egli ha raccontato, usando il genere letterario del romanzo, un appassionante dialogo tra un economista e una giovane laureanda in psicologia. L’insistenza della giovane Fabiana è motivata dalla speranza di un futuro migliore che spinge il vecchio amico di famiglia, Flavio, ad accettare di fare delle chiacchierate con la ragazza. E così, dopo la calura dell’estate, in una sera settembrina, iniziano a parlare di economia, argomento ostico e considerato per addetti ai lavori.
Nelle chiacchierate tra i due protagonisti del romanzo, l’Autore presenta, con chiarezza espositiva e assoluta completezza, le figure di Silvio Gesell e la sua idea della ‘moneta libera’ contro le speculazioni e gli interessi di parte; Clifford Hugh Douglas che denuncia i difetti strutturali del sistema economico moderno basato sul debito, causa prima dell’inflazione e della povertà, e propone, come soluzione efficace, il credito sociale e la valorizzazione dell’eredità culturale.
Ancora, Hjalmar Schacht, considerato ‘il banchiere di Hitler’, che realizzò un progressivo risanamento dell’economia tedesca in fortissima crisi dopo la Prima Guerra Mondiale.
Quindi, la chiacchierata sulla figura di Ezra Pound e la sua convinzione che la moneta è semplice unità di ‘misura’ e deve essere ‘certificato di lavoro compiuto’ cioè deve servire al bene e alla crescita della società.
Infine, l’abruzzese Giacinto Auriti, il quale ha smascherato il grande inganno della moneta, “questa straordinaria scoperta – le parole dell’economista guardiese – di cui l’umanità dovrebbe servirsi e, invece, ne è diventata schiava” che deve essere di proprietà del popolo e non di privati.
Davvero un interessante excursus, quello proposto con grande passione e professionalità da Ammirati. Nelle pieghe del romanzo, leggero, che si legge tutto d’un fiato, l’Autore svolge un approfondito trattato di economia, diverso da quelli che si studiano nelle principali università, perché offre una prospettiva alternativa, tale da indurre il lettore ad acquisire la consapevolezza che un mondo nuovo, più giusto ed equo, è possibile, senza incorrere nelle conseguenze catastrofiche del sistema economico in atto. Una nuova economia è possibile e necessaria per risanare definitivamente l’attuale sistema evidentemente inefficace e dannoso.
L’opera risulta essere interessante soprattutto perché permette al lettore di comprendere, in maniera adeguata, la storia e l’attualità. Altra particolarità di questo libro è che apre alla speranza. Se il personaggio di Fabiana si lascia incuriosire da questa tematica, ostica per i più, perché è alla ricerca della speranza, il pubblico che si accosta a quest’opera non può che vivere la medesima esperienza. Una lettura che ci sentiamo di consigliare assolutamente perché differente, utile e arricchente.

         Rocco D’Orazio

mercoledì 30 agosto 2017

Se la politica non crede in se stessa

         In tempi di globalizzazione e di (conseguente) primato dell’economia, inevitabilmente, la partecipazione alla politica diminuisce. Le elezioni legislative francesi di poco tempo fa sono state solo l’ultima dimostrazione (o campanello d’allarme) che va sempre allargandosi il solco tra governati e governanti o, come suol dirsi in Italia, tra Paese reale» e «Paese legale». I partiti, vecchi e nuovi, cercano di mobilitare gli elettori inventandosi pericoli inesistenti come il fascismo risorgente ed il comunismo alle porte, provando a creare uno stato di guerra o una sindrome d’assedio, bastante a scuotere i cittadini dall’indolenza o dal sopore. Ma certi slogan non fanno più presa, ricordano i bunker che Henver Hoxha faceva costruire, ancora negli anni ’80, sulle spiagge albanesi, dicendo che gli italiani avrebbero potuto attaccare da un momento all’altro. La verità è dura da mandare giù, ma estremamente semplice: gli elettori hanno capito che la politica è – per sua scelta – impotente a risolvere i principali problemi, lo Stato, dappertutto, lascia fare ai mercati, all’economia finanziaria. Le più importanti decisioni, nei Paesi comunitari, non vengono prese dai governi nazionali, ma dalla Commissione europea e dal Consiglio europeo. Inoltre, i Paesi membri di Eurozona devono attenersi ai cosiddetti parametri su debito e deficit, quindi hanno una libertà di manovra molto stretta, non possono fare la politica monetaria e fiscale che la situazione socioeconomica richiede. Anche fuori dall’Ue, i governi perseguono innanzitutto la competitività internazionale, il che significa dare garanzie d’affidabilità, di solvibilità, di stabilità, in pratica, basso debito, basso deficit e basse (o inesistenti) imposte per attrarre investimenti stranieri. In alcuni casi di più, in altri di meno, ma la politica si è legata le mani, procede con il pilota automatico, la finanza internazionale indica la rotta ed i governi la seguono. Volete meravigliarvi che i cittadini snobbino le elezioni, che in altri tempi erano – giustamente – considerate il momento più importante della vita democratica d’una nazione? Tra qualche mese si andrà ad eleggere il Parlamento italiano ed i partiti farebbero meglio a temere la diserzione degli aventi diritto al voto, più che un esito sfavorevole, ma sembra non vogliano darsene per inteso. La situazione è desolante. Le ultime elezioni amministrative, cui partecipò solo il 58% dei cittadini chiamati alle urne, hanno rimesso in gioco il centrodestra, che un anno fa sembrava già spacciato. Berlusconi continua a ripetere pari pari ciò che diceva nel 1994: tagli alla spesa pubblica e diminuzione della pressione fiscale. Un programma che, in tre volte che è stato al governo, non ha mai saputo e potuto attuare, perché tagliare la spesa pubblica non è proprio cosa da niente ed in Eurozona non si può diminuire le imposte se prima – appunto - non tagli la spesa pubblica. Occorrerebbe rilanciare consumi ed investimenti, ma, anche qui, in Eurozona non è possibile, a causa dei parametri comunitari, in più abbiamo inserito il pareggio di bilancio in Costituzione. Berlusconi ha proposto di introdurre una doppia moneta, come le Am-lire dell’ultimo dopoguerra, ma i trattati comunitari vietano che si faccia una cosa del genere. Forza Italia è un pilastro del centrodestra, sarebbe meglio che la coalizione facesse chiarezza su questi punti, altrimenti, nella migliore delle ipotesi, è destinata alla quarta esperienza fallimentare di governo. Il centrosinistra, negli ultimi anni, ha investito tutto sull’Ue, sull’euro e, più in generale, sulla globalizzazione, perciò non può tornare indietro senza perdere la faccia. Rappresenta la continuità, la difesa del presente, certamente non la volontà di rimettere tutto in discussione. Il M5S, sulle questioni più importanti, ha cambiato troppe volte posizione: eurobond, euro a due velocità, referendum sull’euro, ora la moneta fiscale, domani chi lo sa… È un quadro scoraggiante. La politica si è disabituata a governare, a pensare in grande, a progettare, a costruire il futuro. Ed ora ha una maledetta paura a riprendere in mano la situazione. E se i politici non credono più in se stessi, perché gli elettori dovrebbero credere nei politici?

lunedì 5 giugno 2017

Le ragioni d'un accordo

         Le principali forze politiche italiane, Pd, M5S, Lega Nord e Forza Italia, si sono accordate sull’adozione del sistema elettorale tedesco. Tutto può ancora succedere, in politica l’ultima parola è sempre la penultima, ma, allo stato attuale, inizio giugno, sembra che la strada ormai sia tracciata. Viene posta una pietra sepolcrale sulla (tutto sommato) breve ed infelice stagione della democrazia maggioritaria o dell’alternanza. Si torna al sistema elettorale proporzionale, seppur corretto, stavolta, da uno sbarramento del 5%, come in Germania, appunto. Per capire il senso e la portata di tale novità è necessario chiarire alcuni punti. Come più volte ho spiegato anche su “Abruzzo nel Mondo”, nessun legge elettorale è neutra, perciò avviene di rado che una riforma in questa materia si faccia con un largo consenso. Quando si cambiano le regole del gioco, qualcuno deve per forza rimetterci e, ovviamente, nessun partito vuole sacrificarsi o fare regali all’avversario e neanche all’alleato. L’accordo può trovarsi solo su un sistema proporzionale, perché, come dicono i politologi, è il «meno manipolativo» di tutti, riducendo la sua funzione a quella d’una semplice registrazione, alla percentuale di consensi corrisponde, di regola, la medesima percentuale di seggi. Anche in questo caso, qualcuno ci rimette, una forza politica che è in grado di raccogliere la maggioranza relativa dei voti ha interesse ad introdurre un sistema elettorale quanto più maggioritario possibile, perché le darebbe la maggiorana assoluta dei seggi. Ma è un calcolo pericoloso, devi essere assolutamente certo di quanti voti prenderai. Se c’è un certo equilibrio, cioè se i sondaggi ti danno solo due o tre punti percentuali in più rispetto ad un concorrente, allora devi accettare il rischio che la maggiorana assoluta dei seggi se la prenda l’avversario. In Italia, attualmente, la forbice, nei sondaggi, tra M5S e Pd è compresa  nel 2%-3%, troppo poco perché i primi due partiti italiani accettino il rischio del maggioritario. Potrebbero fare questa scelta azzardata solo se tra essi vi fosse fiducia reciproca, come nelle democrazie anglosassoni, dove la vittoria dell’avversario e l’alternanza al governo sono considerati fatti normali e nessuno ne fa un dramma. Ma in un Paese dove la politica è pervasa di manicheismo, quindi l’avversario è visto come il Male ed ognuno crede di essere l’unico portatore del Bene, è inconcepibile l’ipotesi che l’avversario governi con la maggioranza relativa dei consensi. Questione di cultura politica, di storia, non possiamo farci niente. Perché, nel dopoguerra comunisti e democristiani si accordarono proprio sul proporzionale? Perché non si fidavano gli uni degli altri, non era possibile tra filosovietici e filoatlantici, erano due “chiese” diverse e l’altra era quella eretica, ma, nello stesso tempo, nessuno dei due partiti poteva essere certo che avrebbe vinto le elezioni. Nella situazione italiana attuale, inoltre, ci sono altre condizioni da considerare. A proporre il sistema tedesco è stato Berlusconi e non è un caso. Con un sistema maggioritario, cioè nella necessità di fare alleanze prima del voto, avrebbe dovuto scegliere tra la solitudine, quindi l’irrilevanza e una coalizione con la Lega, che non è più il partito guidato da Bossi, ma una forza antieuropeista, mentre Forza Italia è nel Partito Popolare Europeo. Inoltre, nei prossimi mesi la Bce smetterà di praticare una politica d’accomodamento monetario, il che probabilmente comporterà una ripresa dello spread ed il ritorno di tensioni sul nostro debito pubblico. Si dovrà fare un po’ di lavoro sporco, di prendere misure pesanti ed impopolari. Nel nuovo Parlamento eletto con il sistema tedesco nessun partito avrà la maggioranza assoluta dei seggi, quindi a nessuno potrà essere chiesto di assumersi la responsabilità di governare da solo il Paese. Le scelte possibili saranno solo due: o un governo tecnico, come quello di Mario Monti, così le mani se le sporcheranno i docenti universitari, che non hanno la preoccupazione di perdere consensi  e presto torneranno dietro le cattedre; oppure, una grande coalizione, la più ampia possibile, così che le mani se le sporchino tutti i partiti, in modo che alla fine le perdite in termini di consensi saranno equamente ripartite. Se ci perdono tutti, ci guadagnano tutti.

         Mauro Ammirati        

martedì 25 aprile 2017

Quel bipolarismo che non c'è più

         Se prendete un qualsiasi saggio o libro di politologia pubblicato negli anni ’80 del secolo scorso e lo confrontate con la realtà attuale vi sembrerà di avere tra le mani un trattato d’archeologia, un testo che parla di un’epoca lontana, come il Medioevo, l’Impero Romano o l’antico Egitto. Se la scienza della politica si esprimesse con il linguaggio delle favole per bambini, oggi un politologo direbbe: «C’erano una volta i conservatori ed i socialisti...» Quel mondo è scomparso, non c’è più, è stato cancellato dalla globalizzazione, il tratto costitutivo dell’epoca che stiamo vivendo. L’ultima dimostrazione ce l’ha data il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, che ha portato al ballottaggio la candidata Marine le Pen, del Front National ed Emmanuel Macron, di “En March”. Per la prima volta in sessant’anni di storia della V Repubblica, la Francia avrà un Capo di Stato che non è socialista e manco gollista. È dunque venuto giù, come un castello di carta, l’equilibrio politico su cui si reggeva tutto il sistema semipresidenziale ideato da de Gaulle, ossia l’alternanza al potere di conservatori e socialisti, questi ultimi crollati al 6%. Ed un altro dato su cui riflettere è che Macron e la Le Pen ripetono di non essere di destra, di sinistra e neppure di centro. Consideriamo pure che il Fn ha qualche decennio di storia, ma “En Marche” è nato un anno fa, più che un partito, è un comitato elettorale. Veniamo a casa nostra. Il sistema politico italiano è diventato tripolare ed i sondaggi danno vincente alle prossime elezioni il M5S, i cui rappresentanti dicono: non siamo di destra, di sinistra e neppure di centro. Il Presidente degli Stati Uniti (che non sono proprio una piccola nazione), Donald Trump, è stato eletto contro la volontà del Partito Repubblicano, che ufficialmente è il suo, anche questo Capo di Stato, in realtà, non ha una forza politica di centrosinistra o centrodestra che lo sostenga ed ora comincia a capire che significa governare senza avere una maggioranza parlamentare dalla sua parte. Spostiamoci in un altro Paese, che pure in materia di democrazia può insegnarci qualcosa, l’Inghilterra. I conservatori al potere sbandano da una parte all’altra, la Brexit non la volevano (tranne Boris Johnson e qualcun altro), l’hanno subìta, è stata loro imposta dal popolo, l’hanno accettata obtorto collo, ma ora tocca proprio a loro assicurare il rispetto dell’esito del referendum ed è evidente che non sanno dove sbattere la testa, perché la volontà popolare li ha spiazzati, non immaginavano neanche di dover un giorno affrontare una situazione simile. Vinceranno (così dicono i sondaggi) le prossime elezioni, ma solo perché il vero fautore della Brexit, l’Ukip, si sta sciogliendo come neve al sole, una volta vinto il referendum non aveva più niente da dire. In Gran Bretagna, l’alternanza conservatori-laburisti resiste solo perché i primi sono stati bravi ad appropriarsi una vittoria di altri. Dunque, i libri di politologia che ho letto in gioventù li tengo sullo scaffale, ma sono come un soprammobile o l’album di famiglia, ricordano i miei vent’anni, suscitano un po’ di nostalgia, ma non hanno più un’utilità pratica. Perché oggi il vero bipolarismo è quello tra globalisti (o mondialisti) ed antiglobalisti (o antimondialisti). A dividere è il libero commercio mondiale, su questo terreno si combatte la sfida. Gli antiglobalsiti, va detto anche questo, possono rivendicare il merito di aver visto per primi questo cambiamento, ma, dobbiamo aggiungere, la loro capacità d’analisi non si spinge fin dove dovrebbe. Puntano tutto sulla paura dell’immigrazione, chiedono che vengano eretti i muri per contrastare i flussi di poveri disperati provenienti dal sud del mondo, ma non hanno ancora compreso bene la relazione tra flussi migratori e globalizzazione. Dovrebbero leggere con molta attenzione le encicliche sociali che scrisse Giovanni Paolo II, nelle quali, quaranta e trent’anni fa, il Pontefice spiegava che il Terzo Mondo stava diventando una bomba ad orologeria e proponeva di cambiare radicalmente il sistema finanziario mondiale, insieme con le regole del commercio internazionale. Nessuno ascoltò quell’uomo saggio e lungimirante. La bomba ad orologeria è esplosa, la deflagrazione è stata potente, i cosiddetti populisti ora raccolgono tanti consensi, ma la vera questione è dare un futuro a miliardi di persone che vivono nel sud del pianeta. E, francamente, io non vedo leader consapevoli della drammaticità di questo problema.

         Mauro Ammirati  

giovedì 2 marzo 2017

Un anno inutile?

         Ormai, possiamo esserne certi, gli italiani andranno ad eleggere il nuovo Parlamento nel 2018, la legislatura arriverà al suo termine naturale. Non ci sarà il voto anticipato, principalmente, perché il Presidente della Repubblica ha chiesto che le leggi elettorali di Camera e Senato siano «omogenee», mentre quelle vigenti non lo sono affatto ed a causa di tale diversità le elezioni a breve rischierebbero di farci sprofondare nell’ingovernabilità. Non si andrà al voto anticipato anche perché vi si oppone un fronte, trasversale a tutti i partiti, di senatori e deputati, consapevoli che conclusa l’attuale legislatura, probabilmente, in Parlamento non metteranno più piede, se non come visitatori. Dunque, le forze politiche italiane hanno, circa, un anno di tempo per fare le riforme elettorali, oggettivamente, necessarie e stipulare le alleanze con cui presentarsi all’elettorato. Purtroppo, non si può affatto escludere che questo periodo di tempo passi inutilmente, per ora, all’orizzonte si vedono solo nubi. Come abbiamo spiegato più volte, le leggi elettorali neutre non esistono, nessuna riforma in questa materia può essere indolore per tutti, qualche giocatore deve rimetterci. Anche piccoli “ritocchi”, come, per esempio, restringere i collegi o aumentare di poco le soglie di sbarramento , comportano, per qualcuno un prezzo da pagare. E questo ogni uomo politico lo sa. Perciò, dobbiamo mettere nel conto, sperando di sbagliarci, che tra un anno si vada a votare con le leggi elettorali che abbiamo oggi. Quanto alle alleanze, la situazione non è meno complicata. Attualmente, il centrodestra ed il centrosinistra sono due cantieri dove i lavori sembrano procedere confusamente. Le divisioni nei due campi opposti non sono dovute alla scelta del candidato alla guida del governo (o alle modalità con cui sceglierlo), stavolta il vero problema è costituito dal programma. In ultima analisi, la questione centrale è l’austerità, imposta al nostro Paese dai vincoli esterni, quelli comunitari, sul bilancio. I potenziali alleati dei due schieramenti hanno idee diverse ed abbastanza lontane sul tema. Nel centrodestra, la Lega Nord e Fratelli d’Italia sostengono che occorra riprendersi la sovranità monetaria, cioè uscire da Eurozona e tornare alla lira. Idea alla quale Berlusconi è contrario e, per evitare la rottura definitiva con le forze sovraniste, si è spinto fino al punto di proporre l’emissione d’una moneta nazionale parallela, che i leghisti hanno immediatamente respinto. Trovare un’intesa su questo punto non sarà affatto facile, dato che la linea antieuropeista ha portato finora molti consensi a Salvini, anche nell’Italia centrale. Nel Pd c’è stata una scissione che ha portato alla nascita d’un nuovo soggetto politico, i Democratici e Progressisti, Dp, da oggi occorrerà fare attenzione agli acronimi per evitare confusione. Anche qui a dividere è l’austerità, i Dp mettono al primo punto del loro programma la lotta alla disoccupazione ed al lavoro precario, chiedono una politica più attenta alle garanzie sociali, tranne alcuni, come Stefano Fassina, non chiedono che l’Italia esca dalla moneta unica, perciò non si capisce ancora (io, almeno, non l’ho ancora capito) come intendano conciliare gli obiettivi che affermano di perseguire con il rigore finanziario imposto dalla Commissione europea. E se la scissione c’è stata, è segno che nel Pd sull’osservanza ai dettami dell’Ue la pensano diversamente. Neppure a sinistra, dunque, la formazione di un’alleanza si presenta come un compito facile. Infine, c’è il terzo polo, il M5S, che non si allea con nessuno e, per quanto attiene all’austerità, propone che siano gli italiani a decidere se restare o no nella moneta unica, per mezzo d’un referendum (che la nostra Costituzione, in materia di trattati internazionali, vieta). In conclusione, c’è tanta confusione sotto il cielo. Così tanta che un anno potrebbe trascorrere senza portate alcunché di buono.

         Mauro Ammirati