sabato 2 giugno 2018

Se il vento è cambiato...


         Per capire cosa stia succedendo in Italia, può essere utile spiegare un fatto che mi accadde un paio di anni fa. Ero ad un convegno, cui partecipavo come relatore, argomentavo che, per l’Italia, era stato un pessimo affare rinunciare alla lira, per adottare l’euro. L’altro relatore, un economista di fede europeista, ovviamente, sosteneva la tesi opposta, adducendo che con «la liretta» non saremmo andati da nessuna parte, che «l’Italietta» sarebbe stata sbranata dal mercato mondiale ecc. E fin qui, niente di sorprendente, perché, si sa, di questo tema, nel nostro Paese, non si è mai smesso di discutere, almeno tra addetti ai lavori e ripetendosi sempre le stesse cose. Parlammo a lungo, finché non gli chiesi: «Professore, ma lei davvero è convinto che dobbiamo ancora proseguire sulla strada dell’austerità?» Mi rispose: «No, assolutamente. L’austerità uccide.» Già, l’austerità uccide. Uno studioso onesto, che non sia accecato dall’ideologia o anche solo da un ideale, che analizzi i fatti in profondità, che li tratti con rigore scientifico, senza pregiudizi, che non confonda la politica con la religione, difficilmente può negare che comprimere la domanda interna per abbattere il debito pubblico è il modo più sicuro per accrescere lo stesso debito pubblico. L’austerità punta ad arrestare i consumi, quindi distrugge la produzione ed i posti di lavoro, svaluta i salari, diminuisce il gettito erariale, ossia le entrate del bilancio dello Stato ed il risultato, inevitabilmente, è che il debito aumenta.  È successo, negli ultimi tempi, in Italia ed è successo anche in Grecia. L’austerità aveva un senso negli anni ’70, quando la crisi era dovuta all’aumento del prezzo del petrolio, cioè ad un fattore esterno, indipendente dalla nostra volontà. Praticare, invece, l’austerità per abbattere il debito pubblico è un suicidio politico. Negli ultimi anni, lo avevano capito non solo economisti europeisti, ma anche i partiti ed i governi di centrosinistra, come quello di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, che chiedevano all’Ue di consentire all’Italia di spendere di più (almeno per le situazioni straordinarie, come la ricostruzione delle zone terremotate), ma inutilmente. Il centrosinistra aveva capito che la politica dei tagli alla spesa e del rigore finanziario l’avrebbe portato ad una sicura sconfitta elettorale, ma non poteva andare alla guerra con l’Ue senza ammettere, implicitamente, che avevano ragione i suoi avversari a criticare aspramente la Commissione europea. Il che sarebbe stato alquanto imbarazzante, oltre che un regalo alla propaganda della Lega e del M5S. Così, come volevasi dimostrare, le elezioni del 4 marzo le hanno vinte Lega e M5S. Non poteva essere altrimenti. Il Pd, finché è stato al governo, sapeva che stava andando a sbattere contro un muro, ma ha dovuto accelerare. Significa che gli italiani sono diventati antieuropeisti o euroscettici? Che hanno cambiato radicalmente opinione sulla politica estera dell’Italia? Che, addirittura, sono diventati, come afferma qualcuno, filorussi e putiniani? Nient’affatto. Gli italiani hanno semplicemente constatato che sette anni di sacrifici, di riforme gravose come quella sulle pensioni, sul lavoro e, addirittura, l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione hanno drammaticamente peggiorato le loro condizioni di vita, senza dare alcun miglioramento in cambio. E durante quei sette anni, si sono sentiti ripetere, quotidianamente, che le riforme menzionate erano il prezzo da pagare per restare nell’Eurozona. Così, si sono detti: o si cambia l’Europa o se ne esce. È una valutazione semplice e concreta. Il governo di Giuseppe Conte è nato da un’intesa tra Lega e M5S, due forze politiche molto diverse tra loro, le accomuna solo l’avversione alla politica dell’austerità, nel corso della vecchia legislatura, si sono distinte per le loro aspre critiche alle direttive che provenivano dall’Europa comunitaria. Qualcuno dirà che avevano semplicemente fiutato che il vento era cambiato. Ed è vero anche questo. Ma ci sarà pure una ragione se, ad un certo punto, il vento è cambiato.
         Mauro Ammirati   

venerdì 4 maggio 2018

Una crisi istruttiva


         Comunque si concluda, questa crisi di governo ha insegnato qualcosa d’importante anche ai cittadini che non hanno molta familiarità con l’economia e la politologia. Probabilmente, tanti italiani dopo due mesi di negoziati inconcludenti per la formazione d’un nuovo governo, si saranno chiesti come mai i mercati se ne stessero buoni e tranquilli. Per decenni si erano sentiti dire, ogni giorno, che la governabilità era fondamentale per il buon andamento dell’economia e l’efficienza delle istituzioni, soprattutto in un Paese, come il nostro, che avesse un grande debito pubblico. Poi, hanno scoperto che l’Italia può restare due mesi senza che il Parlamento appena eletto voti la fiducia ad un nuovo governo e senza che accada alcunché di catastrofico. Non solo, c’è anche un’altra riflessione da fare. Nell’autunno 2011, avevamo un governo sostenuto da una forte maggioranza parlamentare ed il debito pubblico era al 116% del Pil. Non c’era un problema di governabilità, eppure lo spread (il differenziale tra le quotazioni dei nostri titoli di Stato e quella dei bund tedeschi) salì quasi fino a 600, si scatenò il panico, si parlò di «rischio bancarotta», il governo Berlusconi fu costretto a dimettersi e venne sostituito da un altro, quello di Mario Monti, semplicemente perché quest’ultimo si pensava fosse considerato più affidabile dai mercati. Un’operazione che avvenne nel segno dell’urgenza e dell’emergenza. Oggi, sette anni dopo, scopriamo che il debito pubblico italiano è salito fino al 132% del Pil e, nonostante il Parlamento eletto il 4 marzo non abbia ancora dato un nuovo governo al Paese, lo spread è basso e nelle borse c’è calma piatta. Dunque, i bei discorsi sull’importanza della stabilità governativa e sul debito pubblico ecco che vanno a farsi benedire, soprattutto se si considera anche che Belgio (un altro Paese che ha un alto debito pubblico) e Spagna (uno dei Piigs, cioè gli Stati reputati finanziariamente deboli e vulnerabili) sono rimasti circa due anni nell’ingovernabilità e neanche in quei casi è arrivata l’Apocalisse. Cosa c’è di diverso rispetto alla situazione del 2011? Sostanzialmente, da tre anni la Bce interviene sui mercati ed acquista titoli di Stato di vari Paesi, compreso il nostro. Le borse possono essere isteriche quanto vogliono, ma interviene l’istituto d’emissione, che crea denaro a costo zero ed acquista i nostri Bot ed i nostri Cct, impedendo allo spread si schizzare in alto. Se la Bce avesse fatto altrettanto nell’autunno di sette anni fa, Berlusconi non si sarebbe mai dimesso e non sarebbe mai nato il governo Monti. Dunque, non solo l’ingovernabilità ed il debito pubblico non sono quei mostri di cui si parla incessantemente 365 giorni l’anno, ma constatiamo anche che il cosiddetto «primato dell’economia» è un’invenzione, precisamente è una scelta politica. L’economia prevale sulla politica quando questa sceglie di essere debole e di avere un ruolo secondario. La Bce è indipendente, nessuno avrebbe potuto costringerla nel 2011 ad acquistare i nostri titoli di Stato. Il punto è che è indipendente per volontà della politica. In Giappone, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti la banca centrale è «prestatore d’ultima istanza», significa che è sempre pronta ad intervenire affinché i titoli di debito pubblico non restino invenduti, così garantisce che allo Stato non manchino mai i soldi. Eurozona, invece, è stata istituita sul primato dell’economia, cioè sulla debolezza della politica e la sua subalternità alla finanza ed alle multinazionali.
         Un’altra lezione importante che si trae da questa crisi di governo è che molti nostri politici hanno le idee un po’ confuse sul parlamentarismo. Il M5S affermava: «La Presidenza del Consiglio spetta a noi perché siamo il partito che è arrivato primo.» Il centrodestra ribatteva: «Sì, ma noi siamo la coalizione che ha preso più voti.» Tanto gli uni, quanto gli altri, dovevano aver scambiato un sistema parlamentare con l’atletica leggera. Nei 100 metri vince chi arriva primo, quindi sale sul podio, con la medaglia d’oro al collo. In un sistema parlamentare, in realtà, è indifferente l’ordine d’arrivo, conta il potere di formare coalizioni di governo, cioè una maggioranza in una Camera o, come nel nostro caso, in tutte e due. Il Pci, per mezzo secolo, ha raccolto il 30% dei voti ed arrivava sempre secondo, ma non ha mai governato. Governavano i liberali con il 2% ed i socialdemocratici con il 4%. Ecco che abbiamo scoperto un’altra cosa importante: anche ad un leader politico nazionale non fa male leggersi un manualetto di diritto costituzionale.      
         Mauro Ammirati

giovedì 8 marzo 2018

Uniti nella rabbia

         Il voto del 4 marzo ha tagliato geograficamente l’Italia in due e, com’era stato previsto da molti, ha creato un Parlamento di minoranze. Il M5S ottiene una schiacciante vittoria nel meridione, dove, in moltissimi collegi uninominali, prende la maggioranza assoluta dei voti, mentre nel settentrione è il centrodestra ad imporsi. Per dirla con una battuta che circola nei social: «Neppure ai tempi della Lega separatista di Bossi siamo stati così vicini alla secessione.» Qualche altro utente ha ironizzato: «Salvini ha fatto della Lega un partito nazionale e ha resuscitato il Regno delle Due Sicilie.» Lo ripetiamo, sono solo battute, ma che valgono a chiarire l’aspetto più importante della situazione attuale: siamo passati dal tripolarismo politico nato dalle elezioni del 2013 ad un bipolarismo territoriale. Un fatto grottesco, ma reale. Un’opinione molto diffusa sia tra gli analisti, che tra i cittadini comuni, è che il sud, depresso e con la disoccupazione giovanile al 50%, abbia votato M5S perché questo prometteva il reddito di cittadinanza, mentre il nord, con la sua rete capillare di piccole e medie imprese, abbia premiato il centrodestra perché il programma di questa coalizione includeva la flat tax, ossia una riforma fiscale che taglia drasticamente la pressione tributaria. Una lettura che a me, francamente, sembra alquanto superficiale. Sono, invece, persuaso che quello del 4 marzo sia stato un rabbioso voto di protesta contro un’intera classe dirigente, l’inevitabile reazione d’un Paese provato da sette anni di dura austerità ed in cui è venuta a formarsi ciò che più volte ho definito una miscela esplosiva, formata da disoccupazione, immigrazione e smantellamento del welfare state. È però accaduto che la protesta abbia assunto forme diverse, il nord ha votato, principalmente, una componente del centrodestra, la Lega di Salvini, perché questa è stata l’oppositore più ostinato ed intransigente, da destra, dei governi che si sono succeduti dal 2011 ad oggi; mentre il sud ha votato M5S, perché la mutazione genetica della Lega (che ha tolto la parola “nord” dal suo nome) in partito nazionale è troppo recente e la diffidenza dei meridionali verso i leghisti, comprensibilmente, sussiste. Non va, comunque, dimenticato che in una regione del centrosud come l’Abruzzo il partito di Salvini ha raccolto il 14% dei consensi, la stessa percentuale ottenuta dal Pd. Quindi, al di sotto della “linea gotica”, il progetto di “nazionalizzare” l’ex partito nordista ha ricevuto segnali incoraggianti.
         Un altro dato da tenere in considerazione è la débacle del centrosinistra, anzi della sinistra in generale. In Francia i socialisti sono quasi scomparsi, in Germania sono ai minimi storici e si sono divisi sul sostegno da dare alla Grande coalizione con la Cdu, in altri Paesi non se la passano affatto bene, in Italia il Pd è sceso al 18% (prese il 40% appena quattro anni fa, alle europee). I partiti di sinistra sono stati i più decisi a promuovere e difendere la globalizzazione che, purtroppo, ha colpito i ceti più deboli, quelli che, storicamente, avevano sempre votato a sinistra e dalla quale, ora, si sentono traditi. In Italia le aziende delocalizzavano, tagliando posti di lavoro ed il Pd diceva: «La globalizzazione è una risorsa»; Eurozona imponeva un’ottusa e devastante austerità, che distruggeva la domanda interna, costringendo centinaia di migliaia di piccole e medie imprese a chiudere ed i governi di centrosinistra spiegavano che fuori dall’euro in Italia ci sarebbe stata la desertificazione industriale, proprio mentre questa avveniva sotto gli occhi di tutti; sulle nostre coste sbarcavano, ogni giorno, masse di disperati provenienti dall’Africa ed il centrosinistra affermava che era un fatto provvidenziale, perché gli africani avrebbero fatto i figli per noi e ci avrebbero pagato le pensioni; il lavoro si faceva sempre più raro e sempre più precario, fino ad arrivare alla stipulazione di contratti d’assunzione d’un solo giorno, grazie al Job Act, una legge voluta dal governo Renzi ed il Pd diceva che le nostre esportazioni crescevano. Il che era vero, il guaio era che l’export cresceva proprio perché il lavoro era stato svalutato. Per anni, politici ed intellettuali di sinistra hanno ripetuto: «La globalizzazione è pace, gli Stati nazionali portano alla guerra», «dove passano le merci non passano i carri armati», «l’Ue ci ha dato settant’anni di pace». Moltissimi elettori hanno creduto a questi argomenti finché non hanno perso il posto di lavoro o non si sono dovuti adattare ad un lavoro instabile e senza garanzie per il futuro. Poi, hanno cambiato idea. Da noi, come in tutti i Paesi comunitari. È stato il brusco risveglio da un sogno in cui solo una ristretta élite continua a credere. Ma a votare non va solo le élite.

         Mauro Ammirati            

lunedì 15 gennaio 2018

Una novità italiana

         Un vecchio proverbio insegna: «Il diavolo si nasconde nei dettagli». Occorre partire dalla saggezza popolare per capire cosa saranno le prossime elezioni politiche italiane, che si terranno il 4 marzo. In tutta l’Europa comunitaria, negli ultimi anni, le elezioni sono state, in ultima analisi, una sfida, uno scontro aperto tra europeisti e sovranisti (o nazionalisti, oppure ancora populisti, fate voi). I secondi hanno sempre perso, anche in Francia, la nazione in cui raccolgono maggiori consensi. Per carità, il 40% ottenuto da Marine Le Pen non è affatto poca cosa, ma è un patrimonio di voti ancora ben distante dal traguardo che devi raggiungere per governare. Invero, neppure in Gran Bretagna, che pure è uscita, con un referendum, dall’Ue, i sovranisti hanno vinto le elezioni, il partito che più si è battuto per la Brexit, l’Ukip, è una forza politica marginale. Non si può escludere che i partiti antieuropeisti continuino a crescere (personalmente, sono convinto che sarà così), ma ce ne vorrà prima che uno di loro vada al potere. Verosimilmente, una quindicina di anni, considerando il trend. E nessun leader politico può presentarsi agli elettori dicendo: portate pazienza, nei prossimi due o tre giri perderemo, ma nel 2030 vinceremo noi. In Italia, molti hanno riflettuto su ciò che è accaduto in altri Paesi dell’Ue, Berlusconi ha convinto Salvini a stipulare un’alleanza con un semplice dato di fatto: «I sovranisti, da soli, non vincono da nessuna parte.» Ed è vero, lo dicono i numeri, in Italia, anche i sondaggi. E qui, entra in gioco il diavolo, con la sua abilità a nascondersi nei dettagli, a confondere le idee, a spiazzare ed a sorprendere. La Lega (dal cui nome è sparita la parola “Nord” ed è diventata nazionalista), dichiaratamente sovranista ed antieuropeista, fa fronte comune con Forza Italia, che è un componente del Partito popolare europeo, quindi alleato della Merkel. L’economista della Lega, Claudio Borghi, però, fa inserire nel programma della coalizione un punto che stabilisce che, una volta al governo, il centrodestra emetterà dei miniBot. Tra poco vi spiegherò cosa sono questi miniBot. Il M5S, in passato, ha criticato ferocemente l’Ue, la Bce, l’euro, ha anche raccolto firme per un referendum sulla permanenza del nostro Paese nella moneta unica. Ma ora si dichiara a favore d’Eurozona e contrario ad un ritorno alla sovranità monetaria, cioè alla lira. Però, anche qui – attenzione! – il candidato del movimento alla carica di Presidente del Consiglio, Luigi Di Maio, afferma che proverà a strappare all’Ue «condizioni migliori», per esempio, la possibilità di accrescere il deficit e se non le otterrà, allora si farà un referendum sull’euro. In più, il M5S propone di emettere i Certificati di credito fiscale. Cosa sono? Dei titoli di Stato, come i miniBot, di cui parlavo dianzi. Di fatto, questi titoli sono monete parallele, ma formalmente, come già detto, dei titoli di Stato. E la precisazione è importante, perché i trattati comunitari stabiliscono che l’euro è l’unica valuta in Eurozona avente valore legale, ma non vietano che si emettano titoli di Stato. Ecco il diavolo che si nasconde nei dettagli e ti rovescia il tavolo. Emettendo Ccf o miniBot l’euro diventerebbe una semplice unità di conto, come il metro per la lunghezza, il litro per i liquidi, il chilo per il peso e l’Ue non potrebbe farci nulla. Al massimo, potrebbe aprire un contenzioso, che comunque riporterebbe al centro del dibattito politico europeo la questione della sovranità. La quale, dopo essere stata cacciata dalla porta, rientrerebbe dalla finestra. Dunque, per farla breve, in Italia abbiamo tre schieramenti: europeisti, sovranisti dichiarati e – qui sta la novità tutta italiana – un fronte ambiguo, difficile da definire, ma che è formato da forze politiche in grado di scardinare l’assetto di Eurozona o farla saltare per aria, ma senza andare allo scontro frontale, semplicemente servendosi di mezzi tecnici, della stessa normativa comunitaria, se mi passate l’espressione, sparando con il silenziatore. Detto tra noi, cari lettori, scrivere questo articolo, per me e leggerlo, per voi, forse è stata una perdita di tempo. Perché è molto probabile che queste elezioni non le vinca nessuno, che il prossimo sia un Parlamento di minoranze e che la formazione del nuovo governo sia, un po’, come scalare l’Everest. Stiamo a vedere. Ne riparleremo alla prima occasione.

         Mauro Ammirati        

venerdì 3 novembre 2017

Armi e matite

         Non si farà, per ora, la Catalogna indipendente, se ne riparlerà, forse, tra trenta o quaranta anni, se gli eventi prenderanno una certa direzione. È stata una vicenda appassionante, al punto che in Italia si sono formate due tifoserie, i favorevoli ed i contrari alla secessione, quelli che stavano con Madrid e quelli che stavano con Barcellona. Ed il destino ha voluto che, nelle stesse convulse settimane, in Italia, i cittadini di due regioni, Lombardia e Veneto, andassero a votare ad un referendum che aveva ad oggetto una maggiore autonomia delle regioni stesse dal governo di Roma. Due situazioni molto diverse, intendiamoci, perché rivendicare l’indipendenza significa costituire un nuovo Stato sovrano, mentre l’autonomia consiste nel disporre del potere legislativo su un certo numero di materie e regolamentarsele per conto proprio, ma restando parte integrante dello Stato, senza separarsene. Il dato saliente è che sia i catalani che i promotori del referendum in questione hanno cercato la legittimità politica della loro azione nel principio dell’autodeterminazione dei popoli. Un argomento che sembra vada bene tanto ai secessionisti quanto agli autonomisti. E già qui uno dovrebbe cominciare a capire che questo principio va preso e maneggiato con molta prudenza. Come si sa, fu il Presidente americano Woodrow Wilson uno dei più convinti sostenitori del principio dell’autodeterminazione dei popoli, ma erano altri tempi, si era appena conclusa la Prima Guerra Mondiale e due imperi plurinazionali, quello ottomano e quello austroungarico, si erano sbriciolati, lasciando a tante comunità etniche l’opportunità storica di darsi uno Stato o di unirsi alla madrepatria, come i nostri altoatesini. La questione delle nazionalità era drammaticamente attuale (en passant, la scintilla della guerra era stato l’attentato di Sarajevo, compiuto da un nazionalista serbo). È trascorso un secolo da allora, viviamo sotto un altro cielo, ma la questione dell’autodeterminazione, ai giorni nostri, è tornata al centro del dibattito politico in molti Paesi. La brace dei secessionismi resta accesa sotto la cenere in varie parti d’Europa, pronta a divampare di nuovo. Basti pensare a ciò che ha dichiarato il Presidente della Commissione europea, Junker: «L’Ue non può riconoscere la Catalogna indipendente, è già difficile far funzionare l’Europa e 27, figuriamoci a 98.» Già, perché, legittimando la secessione catalana, l’Ue avrebbe incoraggiato rivendicazioni indipendentistiche un po’ dappertutto, per esempio, nella nostra Sardegna, nel Paese Basco, in Baviera, in Corsica, nelle Fiandre, solo per fare alcuni nomi. «L’Europa a 98», come dice Junker, sarebbe presto diventata una realtà. Ora, dobbiamo porci una domanda: perché siamo arrivati ad una tale situazione da temere un incontrollabile effetto domino? In termini semplici: a cosa dobbiamo tutte queste spinte centrifughe, tutta questa voglia di separarsi, di mettersi in proprio? La risposta è: alla fine della Guerra Fredda, consideratela pure una vendetta postuma del comunismo. Quando avevamo un nemico – e che nemico! -, che ti costruiva un muro a Berlino e sparava a chiunque vi si avvicinasse senza permesso, che ti faceva vivere nell’incubo di un’invasione o d’un conflitto nucleare, dovevamo stare tutti inquadrati e coperti, se qualcuno parlava d’autodeterminazione dei popoli lo prendevano a pernacchie. La situazione non consentiva a nessuno di defilarsi, secedere, creando problemi e tensioni interne, equivaleva ad imboscarsi, ad indebolire la compattezza del fronte, un lusso che non ci si poteva permettere. Il crollo del Patto di Varsavia è stato come sentirsi dire dal sergente: «sciogliete l’inquadramento», «rompete le righe» e ognun per sé. Il resto lo ha fatto una certa faciloneria o, se preferite, superficialità, che ha ridotto il principio dell’autodeterminazione dei popoli ad una banalità, uno slogan, un mezzo di marketing politico, buono per fare qualunque secessione si voglia o per avere più autonomia allo scopo di pagare meno tasse, indifferentemente, uno strumento facile da maneggiare in ogni situazione ed alla portata di tutti. La conseguenza è che diverse comunità si sono convinte che il loro dialetto sia, in realtà, una lingua, che un abito folcloristico o qualche antica tradizione sia sufficiente per considerarsi un popolo, quindi non più una regione, ma una nazione e di avere, pertanto, diritto a separarsi dal resto del Paese. I leader politici e diversi politologi hanno completato l’opera diffondendo una dottrina secondo la quale si può dare vita ad un nuovo Stato semplicemente “armandosi” di matita e d’una scheda referendaria, basta passare al seggio, votare “sì” all’indipendenza e, tra qualche ora, terminato lo spoglio, sarai cittadino d’una nuova repubblica. No, purtroppo, cari amici, non è così semplice. Le secessioni, spesso, costano sangue, molto sangue, capita di rado che si facciano in modo incruento alla maniera dei cechi e degli slovacchi. I croati hanno pagato un prezzo altissimo, in vite umane, alla loro indipendenza, noi italiani ci impelagammo in un conflitto mondiale perché l’Alto Adige potesse secedere dall’Austria, gli eritrei hanno combattuto un trentennio con l’Etiopia per avere un loro Stato e potrei continuare. Il principio dell’autodeterminazione dei popoli è una cosa maledettamente e tragicamente seria. Meno ci scherzate, meglio è.

         Mauro Ammirati           

giovedì 31 agosto 2017

Un'altra economia è possibile

È stata data alle stampe, nei primi mesi del corrente anno, per le edizioni ‘Tabula fati’ di Chieti, l’ultima fatica letteraria di Mauro Ammirati, studioso di economia e apprezzato giornalista pescarese. Il titolo dell’opera è assai evocativo: “Il racconto di un'altra economia. W gli economisti eretici”.
L’Autore ha strutturato l’opera in cinque capitoli, ognuno dei quali dedicato ad un economista ‘eretico’, cioè non in linea con il pensiero dominante. Egli ha raccontato, usando il genere letterario del romanzo, un appassionante dialogo tra un economista e una giovane laureanda in psicologia. L’insistenza della giovane Fabiana è motivata dalla speranza di un futuro migliore che spinge il vecchio amico di famiglia, Flavio, ad accettare di fare delle chiacchierate con la ragazza. E così, dopo la calura dell’estate, in una sera settembrina, iniziano a parlare di economia, argomento ostico e considerato per addetti ai lavori.
Nelle chiacchierate tra i due protagonisti del romanzo, l’Autore presenta, con chiarezza espositiva e assoluta completezza, le figure di Silvio Gesell e la sua idea della ‘moneta libera’ contro le speculazioni e gli interessi di parte; Clifford Hugh Douglas che denuncia i difetti strutturali del sistema economico moderno basato sul debito, causa prima dell’inflazione e della povertà, e propone, come soluzione efficace, il credito sociale e la valorizzazione dell’eredità culturale.
Ancora, Hjalmar Schacht, considerato ‘il banchiere di Hitler’, che realizzò un progressivo risanamento dell’economia tedesca in fortissima crisi dopo la Prima Guerra Mondiale.
Quindi, la chiacchierata sulla figura di Ezra Pound e la sua convinzione che la moneta è semplice unità di ‘misura’ e deve essere ‘certificato di lavoro compiuto’ cioè deve servire al bene e alla crescita della società.
Infine, l’abruzzese Giacinto Auriti, il quale ha smascherato il grande inganno della moneta, “questa straordinaria scoperta – le parole dell’economista guardiese – di cui l’umanità dovrebbe servirsi e, invece, ne è diventata schiava” che deve essere di proprietà del popolo e non di privati.
Davvero un interessante excursus, quello proposto con grande passione e professionalità da Ammirati. Nelle pieghe del romanzo, leggero, che si legge tutto d’un fiato, l’Autore svolge un approfondito trattato di economia, diverso da quelli che si studiano nelle principali università, perché offre una prospettiva alternativa, tale da indurre il lettore ad acquisire la consapevolezza che un mondo nuovo, più giusto ed equo, è possibile, senza incorrere nelle conseguenze catastrofiche del sistema economico in atto. Una nuova economia è possibile e necessaria per risanare definitivamente l’attuale sistema evidentemente inefficace e dannoso.
L’opera risulta essere interessante soprattutto perché permette al lettore di comprendere, in maniera adeguata, la storia e l’attualità. Altra particolarità di questo libro è che apre alla speranza. Se il personaggio di Fabiana si lascia incuriosire da questa tematica, ostica per i più, perché è alla ricerca della speranza, il pubblico che si accosta a quest’opera non può che vivere la medesima esperienza. Una lettura che ci sentiamo di consigliare assolutamente perché differente, utile e arricchente.

         Rocco D’Orazio

mercoledì 30 agosto 2017

Se la politica non crede in se stessa

         In tempi di globalizzazione e di (conseguente) primato dell’economia, inevitabilmente, la partecipazione alla politica diminuisce. Le elezioni legislative francesi di poco tempo fa sono state solo l’ultima dimostrazione (o campanello d’allarme) che va sempre allargandosi il solco tra governati e governanti o, come suol dirsi in Italia, tra Paese reale» e «Paese legale». I partiti, vecchi e nuovi, cercano di mobilitare gli elettori inventandosi pericoli inesistenti come il fascismo risorgente ed il comunismo alle porte, provando a creare uno stato di guerra o una sindrome d’assedio, bastante a scuotere i cittadini dall’indolenza o dal sopore. Ma certi slogan non fanno più presa, ricordano i bunker che Henver Hoxha faceva costruire, ancora negli anni ’80, sulle spiagge albanesi, dicendo che gli italiani avrebbero potuto attaccare da un momento all’altro. La verità è dura da mandare giù, ma estremamente semplice: gli elettori hanno capito che la politica è – per sua scelta – impotente a risolvere i principali problemi, lo Stato, dappertutto, lascia fare ai mercati, all’economia finanziaria. Le più importanti decisioni, nei Paesi comunitari, non vengono prese dai governi nazionali, ma dalla Commissione europea e dal Consiglio europeo. Inoltre, i Paesi membri di Eurozona devono attenersi ai cosiddetti parametri su debito e deficit, quindi hanno una libertà di manovra molto stretta, non possono fare la politica monetaria e fiscale che la situazione socioeconomica richiede. Anche fuori dall’Ue, i governi perseguono innanzitutto la competitività internazionale, il che significa dare garanzie d’affidabilità, di solvibilità, di stabilità, in pratica, basso debito, basso deficit e basse (o inesistenti) imposte per attrarre investimenti stranieri. In alcuni casi di più, in altri di meno, ma la politica si è legata le mani, procede con il pilota automatico, la finanza internazionale indica la rotta ed i governi la seguono. Volete meravigliarvi che i cittadini snobbino le elezioni, che in altri tempi erano – giustamente – considerate il momento più importante della vita democratica d’una nazione? Tra qualche mese si andrà ad eleggere il Parlamento italiano ed i partiti farebbero meglio a temere la diserzione degli aventi diritto al voto, più che un esito sfavorevole, ma sembra non vogliano darsene per inteso. La situazione è desolante. Le ultime elezioni amministrative, cui partecipò solo il 58% dei cittadini chiamati alle urne, hanno rimesso in gioco il centrodestra, che un anno fa sembrava già spacciato. Berlusconi continua a ripetere pari pari ciò che diceva nel 1994: tagli alla spesa pubblica e diminuzione della pressione fiscale. Un programma che, in tre volte che è stato al governo, non ha mai saputo e potuto attuare, perché tagliare la spesa pubblica non è proprio cosa da niente ed in Eurozona non si può diminuire le imposte se prima – appunto - non tagli la spesa pubblica. Occorrerebbe rilanciare consumi ed investimenti, ma, anche qui, in Eurozona non è possibile, a causa dei parametri comunitari, in più abbiamo inserito il pareggio di bilancio in Costituzione. Berlusconi ha proposto di introdurre una doppia moneta, come le Am-lire dell’ultimo dopoguerra, ma i trattati comunitari vietano che si faccia una cosa del genere. Forza Italia è un pilastro del centrodestra, sarebbe meglio che la coalizione facesse chiarezza su questi punti, altrimenti, nella migliore delle ipotesi, è destinata alla quarta esperienza fallimentare di governo. Il centrosinistra, negli ultimi anni, ha investito tutto sull’Ue, sull’euro e, più in generale, sulla globalizzazione, perciò non può tornare indietro senza perdere la faccia. Rappresenta la continuità, la difesa del presente, certamente non la volontà di rimettere tutto in discussione. Il M5S, sulle questioni più importanti, ha cambiato troppe volte posizione: eurobond, euro a due velocità, referendum sull’euro, ora la moneta fiscale, domani chi lo sa… È un quadro scoraggiante. La politica si è disabituata a governare, a pensare in grande, a progettare, a costruire il futuro. Ed ora ha una maledetta paura a riprendere in mano la situazione. E se i politici non credono più in se stessi, perché gli elettori dovrebbero credere nei politici?