I governi dei Paesi occidentali nazionalizzano le banche, la crisi finanziaria mondiale attuale viene accostata a quella del ’29, che, come tutti sanno, fu superata con il New Deal, cioè un vasto intervento pubblico in economia. Le Borse, tra il panico e l’isteria, confidano nella politica per evitare il naufragio. C’è da strabuzzare gli occhi. Una situazione simile chi poteva immaginarla solo due anni fa? Per chi l’avesse dimenticato, la compagnia aerea Alitalia ha rischiato il fallimento, scongiurato all’ultimo momento, perché il governo italiano sosteneva di non poter ripianare il debito dell’azienda con denaro pubblico, essendo tale operazione vietata dal trattato istitutivo dell’Unione europea. Si trattava di due miliardi di euro, una cifra risibile rispetto a quelle che i governi di Belgio, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno dovuto sborsare per rilevare banche e finanziarie agonizzanti o evitarne il crac. Veniamo da un quindicennio in cui il concetto di “nazionalizzazione” era eresia, il liberismo il dogma, la privatizzazione di aziende pubbliche l’unica cura prescritta, qualunque ipotesi di intervento dello Stato in economia una tentazione demoniaca. Ora operatori di Borsa, banchieri ed imprenditori supplicano a mani giunte lo Stato di fare ciò che due anni fa era considerato un peccato mortale. Più nessuno danza attorno al totem del mercato, il liberismo non è più un feticcio, la finanza creativa non è più un idolo. Si torna a parlare, pensate un po’, d’economia reale, quella che produce davvero beni e servizi, quella che crea ricchezza materiale (non virtuale, non di carta) e posti di lavoro, quindi benessere generale e progresso per una nazione. Il mondo oggi è irriconoscibile, uno sconvolgimento di tale portata è abbastanza per poter dire che più nulla sarà come prima. La politica si riprende il suo primato, l’economia fa un passo indietro, torniamo tutti con i piedi per terra. La vera rivoluzione non consiste nella ritirata dei liberisti, ma è ciò che avviene nella mente di milioni di persone in tutto l’Occidente, è nella fine di un’illusione, nella sparizione d’un mondo fiabesco in cui, in fin dei conti, in tanti si erano effettivamente convinti che bastasse poco per arricchirsi. È crollato il castello di carta ed insieme a questo speranze, certezze e la religione del nuovo vitello d’oro, i cui sacerdoti insegnavano che un nuovo trauma come quello del ’29 o del 1987 – che segnò la fine degli yuppies - non si sarebbe più verificato. È crollata altresì una certa concezione dell’Europa, fondata sulla supremazia dell’economia e la politica messa all’angolo. Abbattuto, come già ricordato, il tabù degli aiuti di Stato, ora tocca alla Banca centrale europea. Sin dalla sua fondazione, tale istituto ha dovuto preoccuparsi solo di prevenire l’inflazione, disinteressandosi della crescita economica e dei rischi di recessione. Il risultato è che l’Europa nel suo insieme ha perso sempre più terreno nel mercato mondiale. È una bestemmia dire che è giunto il momento di ripensare anche il ruolo della Bce?
Mauro Ammirati
Mauro Ammirati
1 commento:
Caro Mauro sono tornato. Effettivamente questa crisi della finanza mondiale è impressionante. La cosa che più mi colpisce è il momento di difficoltà degli USA. L'altra sera stavo vedendo un DVD che mi ha spedito un pro-cugino statunitense: nel filmato si vede la nonna di mia madre che trascorre il natale con la sua famiglia in una città del Massachusetts. Si vede una tipica famiglia americana con l'albero di natale, i pacchi-regalo, le lucine colorate, la tv accesa, il divano colorato. Insomma il benessere materiale e la felicità. Dimenticavo di dire che il dvd contiene immagini del 1950! In quel periodo in larga parte d'Italia si soffriva la fame e quindi si guardava agli USA come ad un mondo ideale, irraggiungibile.
Quando ero ragazzo ero molto affascinato dalla cultura americana che conoscevo sopratutto attraverso i film. Wall-street, Manhattan, le scarpe Nike, Madonna, Rambo, Rocky IV°, la musica Rap, il fast-food ecc.. Tutte le cose alla moda erano direttamente o indirettamente provenienti dagli USA. Poi sono cresciuto ed ho capito che anche la ricerca scientifica, la politica, la finanza avevano raggiunto i massimi livelli negli USA. Insomma il mito e l'ammirazione per il popolo Americano sono state delle costanti nella mia vita. Però per conoscere un popolo bisogna frequentarlo e allora nel 2005 sono andato negli USA ed ho visitato New York e la California.
La cosa che più mi ha impressionato è la città di Los Angeles; io mi immaginavo le palme di Beverly Hills, le spiagge con le belle ragazze, gli studi televisivi, insomma un posto popolato da gente felice. Invece non è così, o perlomeno non è così dappertutto. Ho constatato che la maggior parte di Los Angeles (10 milioni di abitanti) è costituita da mega-quartieri abbastanza fatiscenti, con edifici ad uno o due piani alternati a baraccopoli e dominati dalle mafie locali ispaniche. Ovviamente in queste vaste zone della città è proibito inoltrarsi per qualsiasi motivo. Altre perplessità sul mito americano mi sono venute quando ho saputo che un altro lontano nostro parente americano non è riuscito a reperire fondi per curare la figlia malata di leucemia. In Italia non sarebbe mai successo; nonostante Del Turco e soci, la nostra sanità pubblica regge ancora. Per quanto riguarda la crisi finanziaria mi ha molto colpito vedere i dipendenti di Lehman Brothers licenziati e sfrattati con gli scatoloni in mano. Ma vedi, caro Mauro, forse gli americani supereranno anche questa crisi e ricominceranno ad essere un esempio per tutta l'umanità. D'altronde il Blues non è nato sulle rive del Mississippi?
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