mercoledì 18 novembre 2009

Quel che resta della recessione


Il peggio è passato, dicono gli esperti, adducendo gli indicatori economici a sostegno della loro tesi (beninteso, sono gli stessi esperti che la crisi non l’avevano prevista, il mondo ci stava crollando addosso ma a sentir loro andava tutto bene). L’economia è in ripresa, la tempesta sta per cessare ma, aggiungono gli analisti, perché i livelli occupazionali tornino quelli antecedenti al settembre 2008 (l’inizio della recessione), bisognerà aspettare, probabilmente, un bel po’. In effetti, comincia, finalmente, a diffondersi un certo ottimismo – lo constatiamo, con compiacimento, anche noi -, sono mutate le aspettative (che in economia sono molto più importanti di quanto comunemente si creda) ed è certo che si è riusciti ad evitare che la recessione, come nel 1929, diventasse depressione ed assumesse dimensioni catastrofiche. Il 2010 dovrebbe essere l’anno della svolta e la speranza, ovviamente, è che lo sia davvero. Un altro anno come quello che sta per concludersi avrebbe conseguenze incalcolabili. Detto questo, va fatta, inevitabilmente, una considerazione. Le recessioni costituiscono anche un’opportunità per affrontare e risolvere alcuni problemi. Quando ci si riesce, l’economia esce dalla crisi più forte e più solida di quanto vi fosse entrata. Le recessioni costringono a riflettere sui propri errori, a fare una disamina generale, a rivedere tutto, ad andare alla radice dei problemi. Ora, la domanda è: le analisi della crisi attuale ed in via superamento consentono di affermare che le sue cause sono state veramente comprese e rimosse? A noi, francamente, pare di no. Una sola analisi ci ha veramente convinti, l’unica che sia andata in profondità ed il suo autore non è un economista, ma un teologo. La migliore spiegazione dei mali dell’economia internazionale dei giorni nostri è quella che si può leggere nelle pagine della enciclica sociale “Caritas in Veritate”. Per chi l’avesse dimenticato, la recessione ha avuto inizio quando milioni di famiglie americane non sono più state in grado di pagare le rate del mutuo. È stata l’avidità dei grandi manager bancari degli States a portare il mondo sull’orlo del baratro. «L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento», scrive nella suddetta enciclica Benedetto XVI. Già, l’etica. Andare alla ricerca di cause prettamente “tecniche” del disastro significa ritrovarsi sempre punto e daccapo. L’economia non è un mondo a parte, non può ridursi semplicemente a “tecnica”, quindi non può illudersi di fare a meno di saldi princìpi morali. Quest’illusione, prima o poi, ha effetti devastanti. Sostituire ai vertici delle grandi banche i vecchi manager con dei nuovi altrettanto spregiudicati significa andare dritti verso una nuova recessione. È solo questione di tempo. Il Papa scrive anche: «Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana.» La globalizzazione, infatti, non è buona o cattiva di per sé, essa comporta rischi ed offre opportunità. È solo uno strumento, spetta all’uomo decidere che uso farne. Se n’è fatto finora un uso cattivo, che ha inasprito le ineguaglianze nei popoli e tra i popoli. Nell’economia globalizzata, spiega Benedetto XVI, «l’aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri deve essere considerato come vero strumento di creazione di ricchezza per tutti». Gli Stati sviluppati potranno destinare «maggiori quote del loro prodotto interno lordo… anche rivedendo le politiche di assistenza e di solidarietà sociale al loro interno, applicandovi il principio di sussidiarietà e creando sistemi di previdenza sociale maggiormente integrati, con la partecipazione attiva dei soggetti privati e della società civile. In questo modo è possibile perfino migliorare i servizi sociali e di assistenza e, nello stesso tempo, risparmiare risorse, anche eliminando sprechi e rendite abusive, da destinare alla solidarietà internazionale.» Se negli ultimi anni, invece che agli economisti, avessimo dato retta ai teologi, forse ora non saremmo qui a farci coraggio dicendoci che il peggio è passato.
Mauro Ammirati

sabato 12 settembre 2009

Transizione o buco nero?


Le grandi operazioni politiche talvolta avvengono anche attraverso forzature, intendendo con questo termine risoluzioni prese a tavolino dai leaders ed imposte, quindi, dall’alto ad una realtà in parte recalcitrante. Sono nati così, per esempio, il Pd ed il Pdl. Ricordate l’ormai storico «discorso del predellino»? Berlusconi annunciò davanti a migliaia di persone a Piazza San Babila, a Milano (per di più, uno dei luoghi simbolo dell’estrema destra italiana negli anni ’70), senza neppure avvertire o consultare prima i suoi alleati (manco una telefonata, un fax…), la fondazione del partito unico del centrodestra, aggiungendo che non avrebbe nemmeno provato a convincere i leaders degli altri partiti della sua coalizione ad aderirvi. Cioè, se ci state ci state, se no il partito unico me lo faccio da solo e peggio per voi. In seguito, An ed altre forze politiche minori del centrodestra decisero di partecipare alla costruzione del nuovo partito, concordando con Forza Italia un percorso a tappe, così che gli alleati di Berlusconi poterono dire che alla gestazione ed alla nascita del Pdl essi avevano partecipato con pari dignità e con estrema convinzione. Cioè nessuno aveva “subito” il partito unico, nessuno l’aveva accettato obtorto collo. Il che non era del tutto vero. Berlusconi, infatti, aveva messo An e le altre componenti della coalizione con le spalle al muro – , questo è un fatto, altro che storie! -, deciso ad andare avanti per la sua strada ad ogni costo. Chi fosse rimasto fuori dal nuovo soggetto politico, avrebbe rischiato di restare fuori anche dal Parlamento e di incamminarsi malinconicamente sul viale del tramonto. Il Pdl, dunque, in parte, fu una forzatura, una di quelle sferzate che a volte in politica si rendono necessarie, checché se ne dica. Identico discorso può essere fatto per il Pd, sull’altro versante. L’operazione fu definita da molti osservatori ed opinionisti una «fusione fredda» o «a freddo». Da intendersi come un’operazione studiata lucidamente e, appunto, freddamente dalla leadership della Margherita e da quella dei Ds. Così, ex comunisti ed ex democristiani diedero vita ad un partito che rappresentasse la sintesi di due scuole di pensiero che in Italia e nel mondo si sono combattute, anche militarmente, per tutto il XX secolo. Considerando, dunque, il “peccato originale” del Pdl e del Pd non deve meravigliare che l’uno e l’altro siano oggi alle prese con i medesimi problemi.
In ambedue i partiti un’anima cattolica convive con una laicista. Se inizialmente lo scontro era più evidente a sinistra, ora comincia a manifestarsi anche a destra. Nessuno – almeno così sembra – mette in discussione la legge sul divorzio, ma sulle altre questioni etiche, che Benedetto XVI ha definito «non negoziabili», come aborto, eutanasia, testamento biologico, fecondazione eterologa e parificazione tra coppie di fatto e famiglie, la contrapposizione è trasversale agli schieramenti, è “nei” partiti e non “tra” essi. A sinistra divide l’atteggiamento da tenere nei riguardi del governo Berlusconi e dello scomodo alleato Italia dei Valori. A destra a dividere è la questione immigrazione e “l’appiattimento”, secondo una parte del Pdl, alla Lega. Per farla breve: Pdl e Pd sono nati troppo in fretta? Anche stavolta è stato commesso l’errore di confondere i desideri con la realtà e non si è tenuto sufficientemente conto della storia, dei sentimenti e della volontà della base. A nostro parere, molto più semplicemente è avvenuto questo: la cosiddetta transizione italiana dura ormai da 17 anni, sembra infinita, mancano partiti radicati, strutturati e, soprattutto, capaci di raccogliere la fiducia dei cittadini. Si è cercato di riempire il vuoto lasciato dalla Dc e dal P.c.i. con due nuovi contenitori, che insieme sommano circa il 70% dei consensi. Non si può affatto dire che l’operazione sia fallita – è ancora troppo presto -, ma è arrivato il momento di mettere qualcosa di concreto in quei contenitori. Mancano progetti, idee, strategie d’ampio respiro, obiettivi di lungo periodo, la capacità di guardare lontano. Se a tutto ciò viene anteposta l’immagine del leader ed una vuota propaganda, allora la transizione italiana diventerà il nostro buco nero.
Mauro Ammirati

lunedì 13 luglio 2009

Una mezza verità


Coloro che sostengono che l’ultima tornata elettorale abbia praticamente sepolto il sogno di impiantare il bipartitismo in Italia, dicono una mezza verità o una mezza bugia (fate voi). Era impossibile, date la formule tecniche adottate, che dalla consultazione per eleggere il Parlamento europeo (con sistema proporzionale puro e grandi collegi) e numerose amministrazioni provinciali e comunali (con sistema proporzionale e premio di maggioranza) uscisse un quadro politico di tipo bipartitico. È questa, dunque, la mezza bugia. Perché per instaurare un sistema politico di tipo anglosassone occorre un sistema elettorale, per usare il linguaggio dei politologi, fortemente “manipolativo”. Quelli adottati in Italia sono poco o punto manipolativi, dunque il bipartitismo a queste condizioni rimane una chimera. Ed ora la mezza verità. Le percentuali di consenso raccolte dai due principali partiti italiani, Pdl e Pd, restano alquanto lontane da quelle che raccoglievano, rispettivamente, Dc e P.c.i. negli anni migliori della loro storia. Il Pd mantiene le sue roccaforti nel centro Italia, meritandosi forse la definizione di «partito degli Appennini», che qualcuno gli ha dato. Beninteso, non stiamo parlando d’una forza politica territorialmente delimitata, ma è un fatto che il Pd stenta a prendere considerevoli percentuali di suffragio al Nord ed al Sud vince soprattutto grazie alla coalizione di centrosinistra (il che va nella direzione contraria all’evoluzione in senso bipartitico). Quanto al Pdl, era stato Silvio Berlusconi a dichiarare che alle europee un risultato inferiore al 40% dei voti per il suo partito sarebbe stato da ritenere deludente. Ha preso meno del 35%. Con il senno di poi si può pensare che il premier abbia commesso un grave errore ad alzare la posta, che l’indicazione d’una soglia precisa, il 40%, sia stata una mossa azzardata, a causa della quale una vittoria è stata poi considerata alla stregua d’una sconfitta. C’è chi asserisce che il Capo di governo sia stato ingannato dai sondaggi. Può darsi. Ma credo che la spiegazione da dare sia un’altra. Sin dalla fondazione di Forza Italia, nel 1994, Berlusconi ha sempre avuto un modello in mente: la Dc di Alcide De Gasperi, il partito che costituiva l’architrave dei governi neocentristi, che preparano la rinascita dell’Italia dalle macerie della guerra. Il sogno di Berlusconi è far rivivere al suo Paese la stagione d’oro del neocentrismo. Ma la Dc guidata dallo statista trentino nel 1948 ottenne il 48,5% dei voti, era un partito che poteva legittimamente aspirare nientemeno che alla maggioranza assoluta. Il Pdl oscilla intorno al 35%, che ne fa un grande partito, ma non abbastanza per le ambizioni di Berlusconi. La Dc di Gasperi al momento rimane un modello irraggiungibile. Il guaio – per quanto attiene al nostro discorso – è che finché il Pdl non raggiungerà una percentuale che oscilli intorno al 40%, cui puntava Berlusconi, costruire il bipartitismo sarà pressoché impossibile.
Per il resto, va detto che è rilevante l’incremento di voti della Lega, che non sfonda ancora sotto la linea gotica, ma prova a mettervi radici e battendo pervicacemente sul tasto dell’immigrazione può ottenere successi insperati. Avanzano anche l’Italia dei Valori e l’Udc, che fa dell’avversione al bipartitismo la propria bandiera. Aggiungete che in occasione dei ballottaggi si votava anche per un referendum la cui finalità era quella di modificare la legge per l’elezione di Camera e Senato in modo da assegnare il premio di maggioranza non più alla coalizione, ma al partito di maggioranza relativa. Il referendum non ha raggiunto il quorum per la validità. Un'altra sconfitta per i fautori del bipartitismo.
Mauro Ammirati

lunedì 18 maggio 2009

Una nuova stagione


Nel centrodestra è cominciata una nuova fase o, se preferite, una nuova stagione. Sarà caratterizzata da una maggiore competizione tra Popolo della Libertà e Lega Nord, quindi (ed inevitabilmente) da una maggiore conflittualità interna alla coalizione. Questo non significa necessariamente che il centrosinistra debba aspettarsi regali dallo schieramento antagonista (per intenderci, come il ribaltone di fine 1994, fermo restando che in politica tutto è possibile), ma semplicemente che il nuovo rassemblement liberalconservatore guidato da Berlusconi ed il partito di Bossi non mancheranno di andare a caccia di voti nello stesso territorio. Fino a qualche settimana fa la coalizione di governo si reggeva su d’un tacito patto: la Lega avrebbe puntato sul federalismo e con tale argomento avrebbe cercato di raccogliere il massimo dei consensi al Nord; mentre Forza Italia (da poco tempo confluita con An nel Pdl) avrebbe giocato la carta del liberismo e dell’antistatalismo (meno tasse e più libertà d’impresa, essenzialmente), lasciando alla destra sociale (An, appunto, l’altra costola del neonato partito) come cavalli di battaglia il presidenzialismo e la tutela ad oltranza dell’unità nazionale (tematiche che fanno particolarmente presa al Sud). Ebbene, questo schema è saltato, è stato rimesso tutto in discussione, d’altra parte nessun patto può valere per sempre. Cos’è accaduto? Vi invitiamo a rileggervi – se avete conservato la copia – l’articolo che pubblicammo all’indomani delle ultime elezioni politiche. In quella circostanza, commentando i dati elettorali, scrivemmo che il successo della Lega nei quartieri popolari ed operai delle grandi città settentrionali era da attribuire principalmente alla linea adottata da Bossi in materia d’immigrazione. Aggiungemmo che a milioni di elettori che avevano votato Lega non stava affatto a cuore il federalismo (semmai lo temevano, considerandolo un attacco al welfare), ma l’ordine pubblico, sempre più minacciato dalle ondate migratorie provenienti dal Sud del mondo e dall’Est Europa. Dopo un anno l’hanno capito anche i dirigenti leghisti che, non a caso, in queste elezioni europee ed amministrative presentano liste di candidati anche in Abruzzo, provando a sfondare nel Meridione, dove il problema dell’immigrazione non è meno sentito che a Lecco e Como. L’ha capito anche Berlusconi, il cui governo nelle ultime settimane si è inimicato l’O.n.u. e la Conferenza episcopale italiana respingendo navi di immigrati che si avvicinavano alle nostre coste. Sull’immigrazione oggi Pdl e Lega gareggiano a chi fa la faccia più feroce. Entrambi i partiti hanno fatto due conti ed hanno constatato che il problema in questione può spostare qualche milione di voti da una parte all’altra della coalizione. Perché, si sono chiesti nel Pdl, regalare a Bossi tutti questi consensi, quando invece potremmo prenderli noi? Perché assicurargli questa rendita di posizione, specie ora che l’alleato nordista “sconfina” e cerca di mettere radici anche a Pescara?
A sinistra denunciano «la deriva xenofoba» dell’attuale maggioranza parlamentare, in Parlamento il governo è stato accusato di voler «un Paese fascista e razzista». Al di là delle polemiche, anche aspre, è bene che si tenga presente un principio elementare: in periodi di grave crisi economica e sociale, di disagio diffuso e di aspettative inquietanti, se le forze moderate si mostrano troppo timide ad aggredire i problemi, i voti di protesta si riversano sui movimenti politici estremisti ed incontrollabili. Tanto per essere chiari, c’è voluto uno come Sarkozy per togliere voti a Le Pen. Ed è meglio trattare con un conservatore dal pugno duro che con i fanatici nazionalisti.
Mauro Ammirati

mercoledì 25 marzo 2009

Il Paese vi precede


Il Pdl a questo punto non è più un progetto politico, ma un partito a tutti gli effetti, nel senso che la realizzazione del progetto medesimo è giunta a compimento, con atti solenni come il congresso che ha sancito lo scioglimento di An. Invero, si trattava solo di formalità, dacché il simbolo del Pdl era già presente sulle liste elettorali nella consultazione del 13 e del 14 aprile 2008, vinta dal centrodestra. Sostanzialmente, pertanto, non c’è stata alcuna novità. Ma, potremmo dire che già il 14 aprile 2008 quel simbolo comune dei candidati di An e Forza Italia non era affatto una novità. Il Pdl, infatti, era già nato, da anni, nell’elettorato di centrodestra. Ancora una volta, un processo di semplificazione politica ha avuto origine nella società civile, è cominciato dal basso, per intenderci. Infatti, cosa perseguivano i referendum elettorali degli anni ’90 se non la costruzione d’una democrazia dell’alternanza da attuarsi attraverso il sistema elettorale maggioritario, cioè semplificando il quadro politico? E quei referendum non erano stati promossi, anch’essi, da movimenti che erano espressioni della società civile? Il nuovo partito di centrodestra, dunque, è nato con un certo ritardo riguardo alle aspettative degli elettori. Un’altra dimostrazione che i leaders fanno fatica a capire il Paese. Ma se a destra procedono con lentezza, a sinistra fanno un passo avanti ed uno indietro. Con la leadership di Veltroni il Pd non faceva mistero di aspirare a diventare il partito unico del centrosinistra, sulla falsariga del New Labour e del Partito democratico statunitense. Sembrava che l’obiettivo fosse a portata di mano dopo le ultime elezioni politiche, nelle quali la sinistra antagonista non era riuscita ad ottenere un seggio alla Camera né al Senato. Poi è andata come sappiamo, Veltroni si è dimesso e nel Pd, in queste settimane, si torna a guardare con nostalgia all’Unione o all’Ulivo, cioè ad una grande coalizione sovraffollata che includa il centro e tutte le altre sigle della sinistra. Dunque, a destra, seppur con fatica, lentezza e ritardo si semplifica, a sinistra di partito unico neanche si parla più. Ma la domanda che sale dalla comunità nazionale è chiara, lo è da anni, almeno per chi non è accecato dall’ideologia o dallo spirito di parte: checché se ne dica, gli italiani chiedono più democrazia diretta, un rapporto più trasparente tra governati e governanti, governi più stabili e più partecipazione. La formula per garantire tutto ciò è il bipartitismo, piaccia o no (se hanno inventato altre formule sarò lieto di prenderle in considerazione, ma al momento non mi risulta). Finché ci saranno partiti che raccolgono l’1,3% ma avranno un diritto di veto su ogni decisione, anche la più urgente, la nostra democrazia non potrà mai essere davvero efficiente, non sarà mai in grado di aggredire i problemi e la volontà della maggioranza continuerà ad essere mortificata. L’alta affluenza che si registra alle elezioni primarie promosse per scegliere i candidati del centrosinistra per i Comuni e le Province attesta che in quello schieramento militanti, iscritti e simpatizzanti vogliono contare, partecipare, essere ascoltati, esprimere il loro parere ed esigono, com’è giusto che sia, che questo parere sia vincolante per i vertici. Sia l’elettorato di sinistra che quello di destra sono molto più avanti rispetto ai partiti ed alla classe politica in generale, i quali difettano del coraggio di rimettersi in discussione. Agli italiani, anche quelli di sinistra, il bipartitismo non fa affatto paura, sono i leaders a temerlo. Ed una certa paura della partecipazione e della democrazia diretta è evidente anche a destra, dove finora non si sono mai fatte elezioni primarie, i candidati sono sempre stati scelti dall’alto. Dunque, ai dirigenti del Pdl come a quello del Pd una sola cosa ci sentiamo di dire: mettete mano, una volta per tutte alle riforme istituzionali, perché il Paese vi precede di qualche decennio e rischiate di restare spaventosamente indietro.
Mauro Ammirati

giovedì 19 febbraio 2009

Le vere colpe di Veltroni

Non c’è affatto da rallegrarsi che il principale partito d’opposizione in Italia sia ora una forza politica acefala. C’è anzi da preoccuparsi, per la semplice ragione che una democrazia, per essere efficiente e per prevenire i tanti mali che sono sempre in agguato, in primis la corruzione, ha bisogno tanto d’un buon governo, quanto d’una buona opposizione. Sebbene sembri paradossale, un’opposizione lacerata da divisioni interne e senza una leadership autorevole è uno dei guai peggiori che possa capitare ad un governo. Le dimissioni rassegnate da Veltroni all’indomani della sconfitta riportata dal centrosinistra nelle elezioni regionali sarde non aggravano né risolvono la crisi nel Partito Democratico, ne sono semplicemente la logica conseguenza ed una clamorosa manifestazione. Ora, è nell’interesse anche del centrodestra che il medesimo Partito democratico al più presto trovi la cura, quale che sia (congresso, nuove primarie…), che gli consenta di tornare a svolgere, in Parlamento, nelle migliori condizioni possibili, il ruolo che l’elettorato italiano gli ha affidato: l’opposizione. Detto questo, ci permettiamo di fare una considerazione riguardo all’origine della crisi in parola, che a sua volta ha cagionato le recenti sconfitte elettorali. A Veltroni viene rimproverato di non avere saputo dare un progetto politico ed un’identità al Pd. Invero, sembra che nessuno – neppure tra gli avversari più critici del leader dimissionario – abbia davvero un progetto, a meno che con questo termine non s’intenda la proposta di tornare a coalizzarsi con l’estrema sinistra. Se la colpa di Veltroni, come sostengono in tanti nel suo stesso partito, è quella di aver voluto separarsi dalla cosiddetta sinistra antagonista, allora è bene ricordare che per ben due volte, negli ultimi tredici anni, riformisti e sinistra estrema hanno provato a governare insieme questo Paese e si sa com’è andata. No, non è stato questo l’errore di Veltroni. Semmai, il contrario, ossia non ha avuto il coraggio di perseguire ad ogni costo il proposito di presentarsi alle ultime elezioni politiche senza alcun alleato. Fece due eccezioni, una per i radicali ed un’altra per Di Pietro. E mal gliene incolse. I radicali furono candidati nelle liste (quindi con il simbolo) del Pd e, tutto sommato, tanti grattacapi a Veltroni non ne hanno dati. Ma il rapporto con l’Italia dei valori fu tumultuoso sin dall’inizio della legislatura. Quando scriviamo che il segretario del Pd non ha avuto il coraggio di perseguire “ad ogni costo” il suo disegno politico, intendiamo dire: “anche a costo” di rinunciare ai voti Di Pietro. Perché la figura dell’ex Pubblico ministero e leader dell’Italia dei valori che accostava Berlusconi a Videla (l’alto ufficiale argentino che mandava a morire i desaparacidos) strideva troppo con quella del segretario del Pd, dialogante e dichiaratamente disposto a fare le riforme con l’esecutivo di centrodestra. Veltroni, dunque, ha commesso due errori: il primo è stato allearsi con Di Pietro, il secondo è stato quello di perseverare nel primo. Non si può dialogare con il governo e restare alleato con chi considera il capo di governo la personificazione del male. In tal modo, il riformismo del Pd è sembrato ambiguo, incerto, insincero, zoppicante, indeciso… per intenderci, un passo avanti ed uno indietro, vorrei ma non posso. Se alcuni mesi dopo aver stipulato l’alleanza con l’Italia dei valori, Veltroni avesse avuto il coraggio di romperla, ora forse saremmo qui a raccontare un’altra storia.
Mauro Ammirati

lunedì 19 gennaio 2009

Se non ora, quando?

Il gravoso compito che aspetta la nuova giunta regionale abruzzese, in ultima analisi, consiste (se ci si passa l’espressione insolita) in un duplice risanamento. Non si tratta, infatti, di risanare solamente le finanze regionali, che, intendiamoci, non è cosa da poco. Il neopresidente Gianni Chiodi e la sua squadra, purtroppo, dovranno risanare anche la politica, cioè restituirle rispettabilità, credibilità e decoro. Bisognerà ricominciare da un dato oggettivo: in Abruzzo, nelle ultime elezioni regionali, il 47% degli aventi diritto si è rifiutato di andare ai seggi e deporre la scheda nell’urna. Un attestato di sfiducia e disistima verso la classe politica più evidente e preoccupante di questo è difficile immaginarlo. Le diverse inchieste giudiziarie degli ultimi anni sul Comune di Montesilvano, la gestione d’una nota azienda pubblica, la Regione, la sanità privata convenzionata e, last but not least, il Comune di Pescara sono altrettanti ferite nel rapporto tra eletti ed elettori, governanti e governati ed hanno prima suscitato e poi alimentato l’avversione ed il disgusto dei cittadini nei confronti dei partiti. Se ne prenda atto, ché il medico pietoso uccide il paziente (fermo restando, ribadiamolo fino alla noia, che chiunque è innocente in mancanza d’una sentenza di condanna). Lo tsunami provocato dalle recenti indagini della Procura di Pescara ha indirettamente ed accidentalmente infranto, per dirla con un termine della politologia anglosassone, the covenant o, per dirla con Rousseau, il “contratto sociale”, vale a dire quel patto che costituisce il fondamento della società. La corruzione, il clientelismo ed i vari altri mali della politica, infatti, annullando la fiducia reciproca tra cittadini e rappresentanti delle istituzioni politiche, finiscono per lacerare il tessuto sociale, cioè la fiducia reciproca tra i cittadini stessi. I “vizi” – direbbe Tommaso d’Aquino – della politica, come la corruzione, mortificano i talenti, misconoscono la meritocrazia e distruggono lentamente la coscienza dei propri diritti. Dalla cittadinanza si passa alla sudditanza e, quel che peggio, dalla virtù del civismo al cinismo diffuso. Appunto, la lacerazione del tessuto sociale. Tali fenomeni non vanno debellati unicamente perché moralmente riprovevoli, ma anche perché hanno un notevole costo economico. Di questo soprattutto Chiodi deve tener conto. La mancanza di meritocrazia, infatti, si paga in inefficienza, la corruzione dilata spaventosamente la spesa pubblica, il clientelismo calpestando la legge della libera concorrenza avvilisce anche l’impresa privata, che smetterà di perseguire la competitività attraverso l’innovazione per cercare di restare sul mercato attraverso rapporti preferenziali con il notabilato politico. Dunque, il risanamento finanziario e quello morale sono strettamente legati tra loro, non si ottiene nessuno dei due separandolo dall’altro. Il difficile momento che l’Abruzzo sta vivendo, pertanto, può essere una grande opportunità per ricostruire, sotto tutti gli aspetti, a cominciare da quello culturale, la comunità regionale su nuove basi, come il riconoscimento dei meriti, la trasparenza dell’attività amministrativa e, anche favorendo il ricorso agli istituti di democrazia diretta, la partecipazione. Vi sembrano obiettivi troppo ambiziosi? Purtroppo, non abbiamo scelta, in alternativa c’è solo la rassegnazione. «The only thing we have to fear, is fear itself», diceva Franklin Delano Roosvelt: «la cosa di cui dobbiamo avere più paura è la paura.» Sì, è una grande opportunità, perché la situazione generale è talmente degradata e la nostra gente si sente così offesa ed umiliata che resta solo da dire: se non ora, quando?
Mauro Ammirati