lunedì 7 novembre 2011

Alle origini d'una crisi

         Il lato bello della democrazia è che questa concede a chiunque – com’è giusto che sia – l’opportunità di diventare Capo di governo, ministro o parlamentare. Il lato brutto è che, purtroppo, un conto è essere Capo di governo, un altro è essere statista. Per diventare Capo di governo possono bastare la scaltrezza e una certa capacità di raccogliere consensi (magari promettendo il Paradiso sulla terra), per essere statista occorre quella particolare qualità (o virtù) che si chiama lungimiranza - «l’occhio dell’aquila», dicevano i politologi medievali - insieme al coraggio, che comporta, quando la circostanza lo esige, l’assunzione del rischio.  Questo spiega perché De Gasperi si mise da parte quando la Francia respinse il progetto della Ced, perché De Gaulle si giocò tutto in un referendum e perché la Thatcher preferì farsi sfiduciare dal suo partito piuttosto che cambiare linea politica sull’europeismo. Ci si può improvvisare Capi di governo, ma statisti non ci si improvvisa. La drammatica situazione in cui è venuta a cacciarsi l’Italia negli ultimi mesi è dovuta – ormai lo hanno capito tutti – ad una crisi di credibilità, che spiega l’assalto dei mercati ai nostri titolo pubblici. L’enorme debito pubblico è un fardello che ci portiamo dietro dagli anni ’80, quando bastava svalutare la liretta per esportare i nostri prodotti. Altri tempi. Quando, con l’adozione dell’euro, ci è stato chiesto di diventare adulti, cioè di aggredire il debito e mettere a posto i conti, abbiamo dovuto prendere atto che non avevamo uno statista che fosse uno, ma solo politicanti, gente abile a fare compromessi al ribasso per formare e poi tenere in piedi governi deboli e traballanti. Proprio ciò che il Paese non poteva e non può permettersi. Torniamo indietro solo di un anno, quando vi fu la rottura definitiva tra Fini e Berlusconi. Il Capo di governo, in quella circostanza, aveva davanti a sé due strade: comportarsi da statista e chiedere immediatamente le elezioni anticipate; oppure, agire da politicante, cercando di compensare la perdita di deputati e senatori nella sua maggioranza con altri parlamentari provenienti dall’opposizione. Fece la seconda scelta, come si sa (a dimostrazione che statisti non ci si improvvisa). La prima opzione era imposta dal rispetto che si deve ad un principio sacrosanto e da ragioni d’ordine pratico. Il principio in questione è quello maggioritario, secondo il quale se nel corso della legislatura si rompe un’alleanza stipulata prima delle elezioni, occorre restituire la parola agli elettori. Gli italiani avrebbero giudicato, punendolo o premiandolo, il voltafaccia di Gianfranco Fini. Berlusconi mise da parte il principio supremo della democrazia maggioritaria, non volle assumersi il rischio di perdere le elezioni, si comportò da proporzionalista ed accolse a braccia aperte alcuni parlamentari eletti nelle liste del centrosinistra. Da quel giorno, il suo diventò un governo parlamentare, sebbene abbia continuato fino ad oggi a dire che è «il governo scelto dagli elettori». Le ragioni d’ordine pratico sono facili da comprendere. Il governo, come si ricorderà, il 14 dicembre, ottenne la fiducia con 314 suffragi, 2 in meno della maggioranza assoluta, qualcuno in più dell’opposizione. Si può ragionevolmente ritenere che sia possibile governare il Paese più indebitato dell’Occidente in simili condizioni? Quale statista lo penserebbe mai? Da allora Berlusconi ha smesso di governare e ha dovuto preoccuparsi unicamente di sopravvivere, come era facile prevedere. Così, si è perso un anno e si è prolungata l’agonia del governo. Purtroppo per noi, i mercati saranno anche schizofrenici, ma sanno chi e come colpire.

         Mauro Ammirati

lunedì 5 settembre 2011

Senza riforme costituzionali saranno impossibili quelle economiche


         A causa di un’ondata speculativa che, a metà agosto, si è abbattuta su tutte le Borse occidentali, ma particolarmente sull’Italia (precisamente sui Bpt), il governo Berlusconi è stato costretto ad intervenire d’urgenza con una manovra economica – come si dice in questi casi – “correttiva”. La tempesta non è ancora passata, la speculazione non è mai stata imprevedibile come in questi ultimi tempi, difficile dire cosa accadrà nei prossimi giorni, certo è che se la Bce non avesse acquistato una gran quantità di Bpt italiani, dietro esplicita richiesta del nostro governo, avremmo rischiato la catastrofe. Si tratta, purtroppo, d’un tampone, il rischio non è stato del tutto scongiurato, il punto debole dell’Italia, come si sa, è il debito sovrano, siamo spaventosamente vulnerabili ed in futuro non potrà sempre soccorrerci la Bce. Questa la triste realtà, piaccia o no. Nel giro di poche settimane sono state elaborate e proposte tre manovre correttive e, purtroppo, non è detto che la terza sia davvero l’ultima. Diversi provvedimenti – come quello sul riscatto degli anni della leva e degli studi universitari – sono stati presi, annunciati e poi accantonati in meno di 48 ore, senza che neppure si sapesse chi li avesse inseriti nella manovra. Lo spettacolo, dispiace dover scriverlo, è stato scoraggiante. Ad un certo punto, si è avuta l’impressione che nel Consiglio dei Ministri prevalesse una gran confusione e che il governo non sapesse da che parte sbattere la testa. Onestamente, bisogna aggiungere che intervenire nell’emergenza non è mai facile, con l’ansia non si lavora bene, inoltre sono in affanno anche i governi di Stati Uniti, Francia e Germania (il 4% di crescita dell’economia tedesca, dei mesi scorsi, si è rivelato un fuoco di paglia). Ognuno ha i suoi guai, se questo ci può consolare. Ciò non toglie che quanto si è visto in Italia in queste ultime settimane è stato deprimente. Tra veti incrociati, impuntature e minacce di defezioni, il comportamento della la maggioranza di governo è stato tutt’altro che rassicurante. Andiamo subito al nocciolo della questione. Il debito pubblico in Italia è sempre stato e resta l’indice di qualità della classe politica. Per cinquant’anni, circa, la spesa  pubblica è cresciuta a dismisura perché i vari governi di coalizione, politicamente debolissimi, che si succedevano alla guida del Paese riuscivano a tenere insieme le maggioranze parlamentari che li sostenevano solo con una politica di deficit spending. La conflittualità interna dovuta all’eterogeneità delle coalizioni veniva neutralizzata sperperando denaro pubblico per fini elettorali, indebitando le future generazioni. Con l’adozione della moneta unica europea, avremmo dovuto mettere giudizio. Ma, anche qui, la debolezza politica degli esecutivi ha sempre impedito che il debito venisse ripianato. E siamo sempre punto ed a capo. Come andiamo sostenendo da molto tempo ormai (purtroppo, inascoltati), se non si cambia la forma di governo, cominciando dal sistema elettorale e poi mettendo mano alla Costituzione, governi che abbiano la forza di aggredire il debito non riusciremo mai a darceli. Chi oggi suggerisce a Berlusconi di imitare Reagan o la Thatcher dimentica che l’uno e l’altra guidavano esecutivi monopartitici. Ribadisco: non ci saranno riforme economiche se prima non si faranno quelle costituzionali. Ma questa, per dirla con la Scrittura, è «voce di uno che grida nel deserto.» Un’altra annotazione. Lo scontro, tutt’interno al centrodestra, sulle pensioni ha manifestato chiaramente quel che almeno i più avveduti avevano capito già da molto tempo. E che, cioè, è difficile perseguire l’interesse generale, da intendersi come quello nazionale, governando con una forza politica il cui orizzonte non va oltre la Lombardia. Mentre si cercava di scongiurare la bancarotta dell’intero Paese, c’era chi alzava il dito medio all’inno di Mameli ed al tricolore e diceva ai suoi elettori di tenersi pronti: «Se crolla l’Italia c’è già la Padania.» E dovremmo sentirci in buone mani?

         Mauro Ammirati     

martedì 31 maggio 2011

Due questioni da affrontare nel centrodestra

         In linea di principio, è un errore attribuire valenza nazionale al voto locale. Nelle elezioni amministrative gli elettori altro non fanno che esprimere un giudizio sull’operato delle amministrazioni uscenti, non sul governo nazionale. Inoltre, dal 1993, in Italia, il Sindaco ed il Presidente della Provincia sono eletti direttamente dal popolo e con il suffragio diretto a determinare la scelta dell’elettore sono in massima parte le qualità personali del candidato. Ma per la lettura del voto amministrativo dello scorso 30 maggio bisogna fare un’eccezione. Infatti, è stato Silvio Berlusconi ad alzare la posta e mettere in gioco il governo da egli presieduto. «Il voto è politico», ha dichiarato a Milano in piena campagna elettorale. Gli italiani lo hanno preso sul serio. E lo hanno bastonato. La strategia si è rivelata perdente su tutta la linea. La sconfitta riportata dal centrodestra è stata pesantissima, praticamente una batosta, di quelle che lasciano il segno. Ora, inevitabilmente, si chiedono tutti quale conseguenze provocherà la débâcle nell’alleanza di centrodestra. Prima di dire che il ciclo politico di Berlusconi è finito ci penserei cento volte. Il Presidente del Consiglio, in passato, in diverse circostanze è stato dato per spacciato, ma ha sempre dimostrato una grande capacità di reazione e di ripresa davanti alle difficoltà. Forse stavolta sarà più difficile, ma non si può escludere che si rialzi anche dopo questa disfatta. Si aspettano le prossime mosse della Lega. Non è un mistero che Bossi, da tempo, faccia fatica a tenere buona e calma la base del suo partito, la quale è smaniosa di abbandonare Berlusconi al suo destino. La tentazione è forte, ma, a meno che ai vertici della Lega prevalga l’emotività sulla razionalità, è improbabile che  avvenga la rottura. La separazione dal Pdl significherebbe ammettere che negli ultimi dieci anni è stata adottata una strategia fallimentare, che il partito ha puntato sul cavallo sbagliato e che, quindi, occorre rimettere tutto in discussione. Non sarebbe il modo migliore di prepararsi alle  prossime elezioni politiche, che, nella migliore delle ipotesi, avranno luogo tra due anni. Inoltre, una Lega che corresse in solitaria, probabilmente, otterrebbe una percentuale maggiore di consensi, ma diventerebbe una forza politica marginale ed irrilevante. Un  forte movimento locale, niente di più. Molto più difficile è prevedere cosa accadrà, nei prossimi mesi, nel Pdl. I dirigenti del partito hanno già fatto sapere che il governo andrà avanti e che la sconfitta di Milano e Napoli costituiscono uno stimolo a rilanciare le riforme. Invero, non ci si aspettava che dicessero altro. Ma oltre le (rituali) dichiarazioni ufficiali, ci sono due questioni da affrontare, strettamente legate tra loro: la leadership e l’organizzazione del partito. Se il Pdl intende presentare, alle prossime elezioni politiche, per la sesta volta, la candidatura di Berlusconi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri o se, invece, affidarsi a qualcun altro e (prepararlo alla competizione da ora) è un problema di cui discutere nell’immediato. Che sia Frattini o Alfano o la Gelmini, colui o colei che dovrà sfidare la sinistra non puoi gettarlo o gettarla nella mischia all’ultimo momento. Se, al contrario, sarà ancora Berlusconi a guidare il centrodestra, allora lo si dica subito. In quest’ultimo caso, il Pdl resterà un partito leggero, fondato sulla totale identificazione con il capo e fondatore, come lo stesso Berlusconi ha sempre voluto. Un cambio della leadership esigerebbe, invece, un partito strutturato, tradizionale, una mutazione genetica, perché Berlusconi ha rappresentato e personificato un periodo della storia d’Italia irripetibile, segnato dalla crisi dei partiti del ‘900. Chiunque gli succederà, sbaglierà ad imitarlo. Oggi siamo sotto un altro cielo.

         Mauro Ammirati                    

mercoledì 23 marzo 2011

Una sfida da vincere

La “primavera araba” ha suscitato in Occidente entusiasmo e preoccupazione. Un atteggiamento solo in apparenza contradditorio. In verità, era difficile restare indifferenti vedendo milioni di giovani egiziani, tunisini e libici riempire le piazze chiedendo che anche nei loro Paesi venissero rispettate le libertà inalienabili della persona umana. Mai come in questi ultimi tempi quei popoli ci sono sembrati così simili a noi, quei ragazzi che, coraggiosamente, hanno rovesciato i regimi di Ben Alì e Mubarak potevano essere scambiati per i nostri figli o i nostri nipoti o i nostri fratelli minori. Era assolutamente normale solidarizzare con i rivoltosi di Tunisi, Il Cairo e Bengasi, sarebbe stato strano il contrario. Ciò che avviene nell’Africa settentrionale è l’ennesima dimostrazione che la democrazia ha le sue radici nella dignità della persona umana, l’anelito alla libertà è insopprimibile in ogni uomo ed in ogni donna, qualunque religione essi professino e dovunque essi vivano. La democrazia, contrariamente a quanto molti credono, non è un valore occidentale: è un valore universale, l’uomo è stato creato per essere libero, avendo ricevuto il dono del libero arbitrio. Chi non ha ancora capito questo principio, non può avere a cuore la causa della democrazia.


Quanto alle preoccupazioni, invece, il discorso da fare è un po’ complicato. La democrazia, infatti, non basta volerla, occorre costruirla, edificando un sistema, fondamentalmente, d’equilibrio di poteri. Come insegnava, tanti anni fa, don Luigi Sturzo: «La democrazia è partecipazione al potere.» Per quei popoli che non sono stati abituati a partecipare al potere, cioè a condividere il governo del Paese e della città, ad eleggere parlamenti, a scegliersi i propri rappresentanti nelle assemblee elettive, esercitare la democrazia è un’arte difficile. Il timore diffuso, oggi, in Occidente, è che egiziani, tunisini e libici (con o senza Gheddafi al potere) si lascino persuadere dalla propaganda di partiti islamici integralisti e confondano la democrazia con la teocrazia. Può succedere, perché parliamo di nazioni che la democrazia non l’hanno mai davvero conosciuta. Diciamolo subito: è un rischio che bisogna correre. Era rischioso anche provare ad instaurare la democrazia in Italia, Germania e Giappone, nel 1946. Ma i vincitori della Seconda guerra mondiale vollero darci quest’opportunità ed oggi anche noi possiamo dire di essere un popolo libero. Perché negare la medesima opportunità ai popoli nordafricani? L’integralismo religioso è una seria minaccia, ne siamo consapevoli. Ma siamo altrettanto consapevoli che ogni popolo deve essere padrone del proprio destino.

Un’altra causa di preoccupazione è costituita dalle notevoli diseguaglianze sociali presenti in Egitto, Tunisia e Libia. Nei primi decenni del XIX secolo, il francese Alexis de Tocqueville scriveva che gli Stati Uniti sarebbero diventati una grande nazione democratica, perché, spiegava, quella americana era una società di tanti piccoli proprietari. In quella giovane democrazia non si era mai radicata l’aristocrazia e, quindi, nemmeno il latifondo, come invece era avvenuto nelle colonie spagnole. Questo spiega perché in Nord America la democrazia si è imposta senza problemi, mentre in Sud America lo stesso ideale fa fatica ad imporsi ancora oggi. La cosa migliore da fare per aiutare tunisini,egiziani e libici a costruirsi regimi politici davvero liberi è quella di elaborare ed attuare una sorta di Piano Marshall che favorisca la nascita e la diffusione del ceto medio nei loro Paesi. Un’ultima considerazione: le popolazioni nordafricane hanno un’età media molto bassa, al contrario di quelle occidentali. Da questa parte del Mediterraneo facciamo pochi figli ed invecchiamo sempre più. Dall’altra, invece, possono guardare al futuro con ottimismo. Sono – beati loro! – popoli giovani. Se vinceranno la sfida della democrazia saremo noi, tra cinquant’anni, a guardarli con invidia.

Mauro Ammirati

lunedì 7 febbraio 2011

In attesa della chiarezza

Tutta la situazione politica italiana venuta a determinarsi nelle ultime settimane potrebbe essere compendiata con queste parole: abbiamo cose “meno” serie di cui occuparci. Sono scoppiate rivolte popolari in Tunisia, Algeria, Albania ed Egitto, la sponda meridionale del Mediterraneo è in fiamme, abbiamo rivoluzioni e guerre civili – dagli esiti, al momento, imprevedibili - alle porte di casa, ma a tenere banco in Italia è la vita privata del nostro Primo ministro. L’attenzione dei media e delle forze politiche, in massima parte, è rivolta alle feste tenutesi nella villa di Silvio Berlusconi, ad Arcore, sulle quali ha indagato la Procura di Milano. I giornali riportano le trascrizioni delle intercettazioni delle telefonate fatte tra gli amici del Presidente del Consiglio, il quale s’indigna e grida al complotto o al golpe della magistratura. Non si capisce perché l’opinione pubblica ritenga tanto importante sapere ciò che fa Berlusconi nel tempo libero, fatto sta che da qualche settimana non si parla d’altro. Se ad Arcore sono stati commessi reati, è compito della magistratura accertarlo, va da sé. Ma che opinionisti politici e cittadini debbano interessarsene, trascurando ciò che avviene a Tunisi, Tirana ed il Cairo, come se tali drammatiche vicende non ci riguardassero, questo, francamente, è difficile comprenderlo. Ad ogni modo, il quadro politico in Italia è quanto mai incerto, da circa un anno, cioè da quando Gianfranco Fini ha cominciato a scoprire le carte, preparando la separazione del suo gruppo dal Pdl. Berlusconi è sopravvissuto al voto di sfiducia del 14 dicembre per soli tre suffragi. Nell’attuale maggioranza parlamentare vi sono deputati eletti nel centrosinistra, mentre nell’opposizione vi sono Fini ed i suoi seguaci eletti nelle liste del centrodestra. Definire normale una simile situazione è quanto meno una forzatura. In questi ultimi giorni di gennaio, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali, il Capo di governo è rimasto l’unico ad opporsi alle elezioni anticipate. Nonostante i sondaggi lo diano in vantaggio, Berlusconi non vuole rischiare. Il ritorno alle urne a metà legislatura presenta, per lui, troppe incognite. In primo luogo, il Pdl potrebbe ottenere la più alta percentuale di voti, ma mancare la maggioranza assoluta dei seggi al Senato, per la cui elezione il premio di maggioranza è assegnato per singola Regione (così stabilisce la legge elettorale vigente, voluta a suo tempo, fortemente, proprio da Berlusconi. Chi è causa del suo mal…). In secondo luogo, il voto potrebbe premiare il centrodestra, ma assegnando una forte vittoria alla Lega, al Nord. Il che determinerebbe un mutamento dei rapporti di forza all’interno del blocco conservatore. Inoltre, secondo i sondaggi, è ancora altissima la percentuale di italiani che non hanno ancora deciso per chi votare la prossima volta. Infine, si teme un astensionismo diffuso. Troppi dubbi e troppo poche certezze per Berlusconi, che, probabilmente, confida di irrobustire la sua precaria maggioranza con alcuni deputati pentiti di aver seguito Fini nella scissione del Pdl. Per di più, l’economia, un po’ dovunque, comincia a dare i primi segni di ripresa e chissà che, tra qualche mese, i vari indici del suo stato di salute, anche in Italia, non mostrino un netto miglioramento. In quel caso, andare in campagna elettorale sarebbe tutt’altra cosa. Preferisce, dunque, aspettare Berlusconi, minimizzando i rischi e sperando che il tempo lavori per lui. Che poi questa scelta sia buona anche per il Paese è difficile dirlo. Allo stato attuale, l’impressione è che il governo sia alla paralisi e la vita politica sempre più conflittuale. In verità, in Italia, di questi tempi, è difficile essere ottimisti.


Mauro Ammirati