martedì 31 maggio 2011

Due questioni da affrontare nel centrodestra

         In linea di principio, è un errore attribuire valenza nazionale al voto locale. Nelle elezioni amministrative gli elettori altro non fanno che esprimere un giudizio sull’operato delle amministrazioni uscenti, non sul governo nazionale. Inoltre, dal 1993, in Italia, il Sindaco ed il Presidente della Provincia sono eletti direttamente dal popolo e con il suffragio diretto a determinare la scelta dell’elettore sono in massima parte le qualità personali del candidato. Ma per la lettura del voto amministrativo dello scorso 30 maggio bisogna fare un’eccezione. Infatti, è stato Silvio Berlusconi ad alzare la posta e mettere in gioco il governo da egli presieduto. «Il voto è politico», ha dichiarato a Milano in piena campagna elettorale. Gli italiani lo hanno preso sul serio. E lo hanno bastonato. La strategia si è rivelata perdente su tutta la linea. La sconfitta riportata dal centrodestra è stata pesantissima, praticamente una batosta, di quelle che lasciano il segno. Ora, inevitabilmente, si chiedono tutti quale conseguenze provocherà la débâcle nell’alleanza di centrodestra. Prima di dire che il ciclo politico di Berlusconi è finito ci penserei cento volte. Il Presidente del Consiglio, in passato, in diverse circostanze è stato dato per spacciato, ma ha sempre dimostrato una grande capacità di reazione e di ripresa davanti alle difficoltà. Forse stavolta sarà più difficile, ma non si può escludere che si rialzi anche dopo questa disfatta. Si aspettano le prossime mosse della Lega. Non è un mistero che Bossi, da tempo, faccia fatica a tenere buona e calma la base del suo partito, la quale è smaniosa di abbandonare Berlusconi al suo destino. La tentazione è forte, ma, a meno che ai vertici della Lega prevalga l’emotività sulla razionalità, è improbabile che  avvenga la rottura. La separazione dal Pdl significherebbe ammettere che negli ultimi dieci anni è stata adottata una strategia fallimentare, che il partito ha puntato sul cavallo sbagliato e che, quindi, occorre rimettere tutto in discussione. Non sarebbe il modo migliore di prepararsi alle  prossime elezioni politiche, che, nella migliore delle ipotesi, avranno luogo tra due anni. Inoltre, una Lega che corresse in solitaria, probabilmente, otterrebbe una percentuale maggiore di consensi, ma diventerebbe una forza politica marginale ed irrilevante. Un  forte movimento locale, niente di più. Molto più difficile è prevedere cosa accadrà, nei prossimi mesi, nel Pdl. I dirigenti del partito hanno già fatto sapere che il governo andrà avanti e che la sconfitta di Milano e Napoli costituiscono uno stimolo a rilanciare le riforme. Invero, non ci si aspettava che dicessero altro. Ma oltre le (rituali) dichiarazioni ufficiali, ci sono due questioni da affrontare, strettamente legate tra loro: la leadership e l’organizzazione del partito. Se il Pdl intende presentare, alle prossime elezioni politiche, per la sesta volta, la candidatura di Berlusconi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri o se, invece, affidarsi a qualcun altro e (prepararlo alla competizione da ora) è un problema di cui discutere nell’immediato. Che sia Frattini o Alfano o la Gelmini, colui o colei che dovrà sfidare la sinistra non puoi gettarlo o gettarla nella mischia all’ultimo momento. Se, al contrario, sarà ancora Berlusconi a guidare il centrodestra, allora lo si dica subito. In quest’ultimo caso, il Pdl resterà un partito leggero, fondato sulla totale identificazione con il capo e fondatore, come lo stesso Berlusconi ha sempre voluto. Un cambio della leadership esigerebbe, invece, un partito strutturato, tradizionale, una mutazione genetica, perché Berlusconi ha rappresentato e personificato un periodo della storia d’Italia irripetibile, segnato dalla crisi dei partiti del ‘900. Chiunque gli succederà, sbaglierà ad imitarlo. Oggi siamo sotto un altro cielo.

         Mauro Ammirati                    

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