lunedì 11 novembre 2013

Purché non si parli d'austerità.


         Una domanda che si pongono in tanti in Italia, comprensibilmente anche con una certa rabbia, è: perché, mentre il Paese affonda, politici e giornalisti parlano solo di Berlusconi? Probabilmente, sono in tanti a chiederselo anche all’estero, soprattutto nelle democrazie occidentali, dove è una regola comunemente accettata che un uomo politico condannato in via definitiva si faccia da parte, senza troppe storie. Stiamo assistendo allo smantellamento dell’apparato industriale italiano, la disoccupazione giovanile – dato ufficiale pubblicato solo qualche giorno fa – è al 40%, l’esercito di disoccupati si accresce ogni giorno, eppure la questione centrale del dibattito politico è la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi. In effetti, converrete, almeno in apparenza è assolutamente inspiegabile. In apparenza. Perché una spiegazione c’è. La vera ragione è che, anche per il centrosinistra, se Berlusconi non esistesse, bisognerebbe inventarlo. Per il Pd, non solo il leader del centrodestra non è un problema, ma paradossalmente è una risorsa. Più precisamente, come dicono e scrivono in tanti sui social network, con un gioco di parole, Berlusconi è una straordinaria «arma di distrazione di massa», cioè un argomento che serve a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi reali, a distrarre, appunto. Purtroppo, non si può giocare un mondiale di calcio ogni anno, non bastano reality show, talent show e vari altri programmi televisivi d’intrattenimento per addormentare le coscienze, non più, almeno, perché la situazione socioeconomica è drammatica, comunque tale da annullare l’effetto dei “narcotici tradizionali”. Ci vuole altro, qualcosa di nuovo, d’eccezionalmente efficace ed un leader coinvolto in inchieste giudiziarie, processi e scandali vari è la figura più adatta ad evitare che si parli di aziende che chiudono, di italiani – anche con istruzione media o alta - che fanno la fila davanti la mensa dei poveri, di imprenditori e disoccupati che non sanno più a che santo rivolgersi. In parole povere, parliamo di tutto, ma non d’economia, perché quando si affronta quest’argomento, i nostri politici divagano dal tema, balbettano, nel migliore dei casi rispondono che c’è la recessione, i tempi sono cambiati, siamo nel mercato mondiale, i sacrifici sono necessari per restare in Europa… ed altri luoghi comuni. Praticamente, non rispondono. Beninteso, il centrodestra ha interesse a salvare il suo leader dalla decadenza, quindi si capisce benissimo che parli solo di questo e tralasci tutto il resto. Sulla stessa decadenza il Senato dovrà votare il 27 novembre, molti parlamentari del Pdl, che ora è tornato a chiamarsi Forza Italia, sanno che senza Berlusconi alla guida del partito non otterrebbero nuovamente il seggio e l’istinto di sopravvivenza li spinge ad eseguire ogni ordine provenga dall’alto. Una componente del centrodestra, guidata da Alfano, vorrebbe affrancarsi da Berlusconi, ma per costruire un nuovo centrodestra, con una nuova leadership, occorre tempo, che può essere guadagnato solo rimandando il più possibile le elezioni anticipate. Perciò, contro il volere di Berlusconi, Alfano farà di tutto per evitare la crisi di governo, anche a costo di causare un scissione nel partito. Nel versante opposto, c’è una gran confusione. Il Pd ha stabilito che segretario nazionale e candidato alla Presidenza del Consiglio dei ministri non dovranno necessariamente essere la stessa persona, una decisione che non aiuta certo a fare chiarezza ed allontana il partito dal modello delle democrazie occidentali. L’imbarazzo e le difficoltà del principale partito del centrosinistra sono dovute ad una scelta storica che ora presenta il conto. Andreatta, Ciampi e Prodi, i veri padri del Pd, legarono il destino dell’Italia all’Unione monetaria europea. Coerentemente con questo indirizzo, il Pd ha finora sostenuto con fermezza la linea dell’austerità, che però non ha dato i risultati che ci si aspettava. A fronte di enormi sacrifici chiesti agli italiani  (riforma delle pensioni ed aumento della pressione fiscale), il debito pubblico è aumentato, l’economia è crollata e la disoccupazione è schizzata in alto. Al Pd resta solo da sperare in tempi migliori, confidando nella ripresa o in qualche miracolo. Nel frattempo, gioca in difesa, come si dice in gergo calcistico, fa catenaccio. In altre parole, parla di Berlusconi.            

mercoledì 4 settembre 2013

I rischi di un'ampia diserzione


         Non possiamo sapere se davvero Berlusconi toglierà la fiducia al governo Letta, come minaccia da un mese, nel caso la Giunta per le elezioni del Senato lo dichiari decaduto dalla carica di senatore. L’organo in questione comincerà a discuterne dal 9 settembre, ma comunque vadano le cose, alcune considerazioni possiamo farle sin da ora. Cominciamo con il dire che il quadro politico è quanto mai complesso, le variabili indipendenti o, come suol dirsi, le incognite sono diverse. Sappiamo con certezza che il voto anticipato è richiesto dal leader del M5s, Beppe Grillo, dalla Lega nord e, pare, da una buona frazione del Pdl. Ma non è affatto sicuro che una crisi di governo porti ad elezioni anticipate. Il Presidente della Repubblica, in più di un’occasione, ha fatto capire chiaramente che, se Enrico Letta verrà sfiduciato, le tenterà tutte prima di sciogliere il Parlamento. Il Capo di Stato non può certo inventarsi una maggioranza parlamentare che non c’è, non può crearla dal nulla, davanti ad un Parlamento di minoranze incomunicabili può solo indire nuove elezioni. Ma, da questo punto di vista, ciò che sta accadendo nei gruppi parlamentari del M5s merita di essere seguito con attenzione. In sette mesi di legislatura vi sono già state clamorose defezioni tra gli eletti di tale forza politica, nelle ultime settimane Beppe Grillo ha ribadito con fermezza di non essere affatto disposto a stipulare un’alleanza di governo con il Pd, ma diversi senatori e deputati del M5s in proposito hanno già detto di pensarla diversamente dal leader. Ulteriori defezioni o – qualcuno azzarda – una scissione potrebbe spianare la strada alla formazione d’una nuova maggioranza e d’un nuovo esecutivo. E, comunque, la sola possibilità che questo accada è sufficiente per indurre chi vuole mandare a casa Enrico Letta a tenere un comportamento più prudente. In secondo luogo, la storia della Repubblica insegna che le elezioni anticipate non premiano chi le ha volute. Il diritto di voto è una gran bella cosa, ma neanche al popolo sovrano piace rinnovare le assemblee elettive troppo di frequente. In Italia le elezioni politiche si sono tenute nello scorso febbraio, tornare alle urne nove o dieci mesi dopo non sarebbe un segno di buona salute per la nostra democrazia. In terzo luogo, la vicenda che è al centro del dibattito politico italiano da un mese a questa parte, cioè la sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna in appello per Silvio Berlusconi, fa tornare alla mente il cartello appeso nella famosa fattoria di George Orwell. Come si sa, c’era scritto: «Tutti gli animali sono eguali davanti alla legge, ma alcuni animali sono più eguali degli altri.» Berlusconi ha chiesto insistentemente al Pd ed ai colleghi senatori della Giunta per le elezioni di essere dichiarato «più eguale degli altri», definendo la sua permanenza nella carica un «atto di pacificazione». Ora, se il governo cadesse per un mancato «atto di pacificazione» e si andasse davvero alle urne, la campagna elettorale inesorabilmente diverrebbe una referendum sulla magistratura italiana e sulla riforma del sistema giudiziario. Il punto è:  quanto interesserebbe all’elettorato partecipare ad uno scontro simile, in un Paese in cui la disoccupazione giovanile è arrivata al 40% ed a causa della recessione i suicidi sono quasi all’ordine del giorno? Forse è il caso di ricordare che alle ultime elezioni regionali ad aver vinto, anzi stravinto, è stato il partito della diserzione.

         Mauro Ammirati       

martedì 11 giugno 2013

Quando i dati vengono torturati

Al ballottaggio delle elezioni amministrative ha votato il 48,51% degli aventi diritto, al primo turno la percentuale era stata del 59,76%. A Roma il nuovo Sindaco è stato scelto dal 45% degli elettori. Il centrosinistra ha sbaragliato centrodestra e M5s dappertutto, in alcuni casi con un notevole divario, come nella capitale (circa 30 punti percentuali) o a Imperia (quasi 50 punti) o Ancona (circa 25 punti). Si aggiunga che il centrosinistra ha vinto anche a Treviso, uno dei capoluoghi dove la Lega Nord sembrava imbattibile. In apparenza, c’è poco da discutere: crolla il movimento di Beppe Grillo, che solo quattro mesi fa raccoglieva il 25% alle elezioni politiche; crollano il Pdl ed i suoi alleati, che, come si dice in gergo calcistico, «non sono mai entrati in partita». Ammesso che si possa parlare di vincitori quando più della metà degli elettori non vota, ha vinto il Pd, che qualche settimana fa dava l’impressione di essere una forza politica allo sbando ed a rischio scissione. Ma in certi casi è bene ricordarsi quel che dice un fisico americano: «Prendete i dati e torturateli. Prima o poi confesseranno.» O come ammonisce un noto giornalista sportivo: «Esistono le bugie, le grandi bugie e le statistiche.» Occhio ad una lettura superficiale delle cifre. Queste ci dicono che il centrosinistra scoppia di salute, il Pdl è praticamente un rottame ed il M5s qualcosa di simile ad un temporale estivo. È davvero così? Certo che no. Se più della metà dei cittadini ricusa di esercitare il diritto di voto significa che la crisi della politica è ormai irreversibile. «Questa è la vostra ultima occasione», ha dichiarato solennemente Giorgio Napolitano davanti all’intero Parlamento, durante il discorso di insediamento alla Presidenza della Repubblica, all’inizio del suo secondo mandato. I rappresentanti della nazione, come li definisce la Costituzione, non ne sono pienamente consapevoli, visto che non hanno ancora trovato uno straccio d’accordo su una questione importante come la legge elettorale. In certe analisi, poi, fondamentali sono i termini di confronto. Sono sempre stato dell’idea che accostare i risultati del voto amministrativo e di quello politico sia, metodologicamente, un’operazione, almeno, discutibile, per non dire imprudente. Nel primo caso, si sa, incidono fattori locali, a cominciare dal giudizio sull’operato della Giunta comunale uscente e questioni che nelle singole comunità spaccano in due l’opinione pubblica, come l’isola pedonale, la filovia, l’inceneritore... Aggiungete che, da vent’anni a questa parte, il Sindaco in Italia è eletto direttamente dal popolo, dunque le qualità personali dei singoli candidati possono decidere una competizione. Per raccogliere consenso alle elezioni politiche possono bastare pochi messaggi, ma forti, si pensi alla campagna elettorale di Beppe Grillo ed ai suoi slogan nello scorso inverno: «Mandiamoli tutti a casa», «Facciamo un referendum sull’euro», «Restituiremo tre quarti dell’indennità di parlamentare»… Berlusconi, nella stessa campagna elettorale, promise non solo di abrogare l’imposta comunale sugli immobili, ma anche di restituire quella già pagata. Proposte semplici, ma che fanno breccia  nell’elettorato e che denotano un certo talento nella difficile arte della comunicazione (non a caso, stiamo parlando d’un comico, cioè un uomo di spettacolo e del principale editore televisivo privato italiano). Nel voto amministrativo, invece, è importante principalmente il radicamento territoriale ed il Pd è l’unico forza politica in Italia, relativamente, strutturata. Riesce ancora a mobilitare qualche milione di elettori quando organizza elezioni primarie, mantiene un forte legame con il sindacato e, proprio grazie al radicamento, nelle varie città riesce sempre a trovare il ricambio. Il M5s ha un’origine recente e la formazione d’una classe dirigente in ogni regione e provincia è un processo che esige tempi lunghi. Quanto al Pdl, sono proprio i suoi dirigenti a dire che senza Berlusconi il loro partito non esisterebbe. Quindi, è già un mezzo miracolo se i candidati di centrodestra accedano ai ballottaggi. Forse, se il Pdl cominciasse a pensare ad un futuro senza Berlusconi (perché nessuno è eterno), quindi a formare una nuova generazione di dirigenti, farebbe un grande favore a se stesso ed alla democrazia italiana.

         Mauro Ammirati     

lunedì 22 aprile 2013

Il presidenzialismo è altra cosa


         Come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere. Quanto è avvenuto in occasione dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica - deflagrazione del Pd e conferimento della carica, nuovamente, al Capo di Stato uscente - ha spinto più d’un osservatore politico a proporre per l’Italia il sistema presidenziale. La proposta è fondata su due argomenti: l’elezione diretta del Presidente della Repubblica eviterebbe che un Paese venisse, di fatto, lasciato allo sbando e che in Parlamento avesse luogo un’indecorosa guerra per bande, com’è avvenuto con le votazioni sulle candidature di Franco Marini e Romano Prodi. E questo è vero. Il secondo argomento è che dalla presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, il Capo di Stato è andato assumendo sempre maggiori poteri, al punto che si può già considerare l’Italia una repubblica presidenziale, tanto vale, quindi, che se ne prenda atto. E questo, invece, non è vero. A scanso di equivoci, io sono presidenzialista e non può che farmi piacere se tanta gente si converte alla nostra causa, ciò non toglie che un’analisi sbagliata resti un’analisi sbagliata. È indubitabile che negli ultimi venti anni il Capo dello Stato ha avuto un ruolo, non decisivo, ma straordinariamente importante in determinate circostante, l’ultima in ordine di tempo, la formazione del governo Monti. Va però precisato che, in realtà, in tutte queste circostanze, il Presidente della Repubblica altro non ha fatto che esercitare i poteri che gli vengono attribuiti dalla Costituzione. Dalla situazione venuta a determinarsi con la separazione tra Lega Nord e centrodestra, nel 1994 (e conseguente nascita del governo Dini), fino alle dimissioni di Berlusconi nell’autunno 2011 (e conseguente nascita del governo dei tecnici), passando per la caduta dei due governi presieduti da Romano Prodi, il rappresentante della massima carica dello Stato si è sempre, scrupolosamente (com’è suo dovere) attenuto alla Carta. Per essere chiari: non sono aumentati i poteri del Presidente della Repubblica, semplicemente questi poteri sono stati esercitati a discrezione dello stesso Presidente, senza che la Legge fondamentale venisse violata. Non è un caso che si affermi che la tendenza presidenzialista abbia cominciato a delinearsi con la presidenza Scalfaro. Cioè, nel 1992, l’anno in cui scoppia Tangentopoli, l’evento che, unendosi al crollo del comunismo, cancella in Italia un intero sistema politico. Fin quando erano esistiti partiti strutturati, radicati, coesi e disciplinati al loro interno, come Pci e Dc, la libertà di manovra del Presidente della Repubblica era sempre stata assai modesta. In una repubblica parlamentare, di regola, quando i partiti fanno bene il loro mestiere, il ruolo del Capo dello Stato è marginale. La scomparsa dei due grandi partiti di massa, oltre che di quello socialista, lascia un vuoto enorme. Le forze politiche di nuova formazione (Lega, Forza Italia, Ppi, Alleanza nazionale, Pds...) si mostrano incapaci di sostituire adeguatamente i partiti che hanno portato l’Italia fuori dal dopoguerra e dal sottosviluppo, soprattutto non riescono a costruire un nuovo sistema politico. Per farla breve, restano le vecchie regole, cambiano gli attori, che però non hanno da dare al Paese leader come De Gasperi, Nenni e Togliatti. Il Capo dello Stato, davanti a partiti ed alleanze politiche che nascono e muoiono in pochi anni è costretto a svolgere un ruolo sempre più politico, senza rinunciare a quello di garante delle regole. Per fare un esempio pratico, sul finire del 2011, dopo le dimissioni di Berlusconi, Napolitano poteva sciogliere il Parlamento o affidare l’incarico a Mario Monti. Preferì, a sua discrezione – sottolineo: a sua discrezione, perché è tutto qui il discorso - la seconda opzione. Fu una scelta eminentemente politica - come lo sarebbe stata quella di sciogliere le camere - ma che non contrastava con la lettera né con lo spirito della nostra Costituzione. Negli anni ’50, ’60 e ’70, Pci e Dc non avrebbero mai messo un Capo di Stato nella condizione di dover fare simili scelte. L’Italia non è diventata una repubblica presidenziale. La verità è che trent’anni fa avevamo partiti degni di questo nome ed ora non più.   

         Mauro Ammirati

martedì 5 marzo 2013

I migliori alleati di Beppe Grillo


         Il successo straordinario ottenuto dal Movimento 5 stelle alle ultime elezioni politiche ha sorpreso tutti. Perfino il leader ed il fondatore del movimento stesso. Si sapeva e si prevedeva, già da mesi, che i seguaci di Beppe Grillo avrebbero raccolto un ampio consenso, bastava trattenersi dieci minuti in un qualsiasi bar o in una qualsiasi piazza d’Italia per capirlo. Quel che, invece, nessuno aveva previsto – secondo me, lo ribadisco, neanche Grillo – era una così alta percentuale di suffragi: il 25% dei votanti, una scheda elettorale su quattro, al netto delle bianche e delle nulle. Un vero sisma politico. Così, i neofiti della politica sono passati dall’infanzia all’età adulta, senza passare per l’adolescenza. Un conto è entrare in Parlamento, per la prima volta, con la prospettiva di fare cinque anni d’opposizione alla “casta” ed avere molto tempo per prendere dimestichezza con il nuovo ruolo; altro è avere la responsabilità di essere determinanti nella formazione d’un nuovo governo. Perché, allo stato attuale, dati i nuovi equilibri politici e parlamentari venuti a determinarsi, sembra assai difficile che si trovi un sostituto di Mario Monti indipendentemente dalla volontà del Ms5. Berlusconi e Bersani hanno una schiacciante maggioranza di seggi in tutte e due le Camere, volendo potrebbero accordarsi e fare un governo in un qualsiasi momento, ma sono consapevoli che il 23 ed il 24 febbraio 2013, in Italia,  è accaduto qualcosa che rischia di mettere tutto in discussione, compreso il sistema dei partiti nella sua interezza, così come si è sviluppato e lo abbiamo conosciuto in questi decenni. Potrei dire che ciò che oggi è sotto esame è un certo concetto di democrazia. Leggete il programma di Grillo, vi troverete idee care a Rousseau, come la democrazia diretta e partecipativa, cioè, un drastico ridimensionamento della presenza e della funzione dei partiti. Solo qualche giorno fa, lo stesso Grillo ha proposto di modificare l’articolo 67 della Costituzione, quello che vieta che il parlamentare, l’eletto, sia soggetto a «vincoli di mandato». Pertanto, l’errore peggiore che possano ora commettere Pd e Pdl è quello di credere che questo nuovo fenomeno politico sia davvero solo «un movimento di protesta». Di certo, rabbia ed indignazione suscitati da vari scandali di corruzione hanno dato una grossa mano al M5s; ed è altrettanto certo che i partiti che hanno governato l’Italia in questi ultimi vent’anni avrebbero fatto molto meglio a praticare per primi l’austerità, dando il buon esempio (per esempio, dimezzandosi le indennità parlamentari), invece che pretendere di esserne affrancati. Era il modo più sicuro per guadagnarsi il disprezzo di milioni di connazionali. Ma il successo di Grillo è dovuto anche ad altro. I suoi migliori alleati, in questa campagna elettorale, sono stati la Bce ed il Cancelliere Merkel, che hanno imposto una politica deflattiva agli Stati dell’Europa meridionale. Un euro ad immagine e somiglianza del marco tedesco – si abbia l’onesta intellettuale di ammetterlo – è stato un esperimento fallimentare. Berlusconi e Tremonti, quando erano al governo lo sussurravano soltanto, Grillo lo ha gridato nelle piazze. Imporre l’austerità in piena recessione è un grave rischio, pensare di combattere la deflazione senza incrementare la spesa pubblica è una pericolosa illusione (che in Grecia porta voti ad “Alba dorata”). Ora in Germania temono che l’Italia esca dall’unione monetaria. A Berlino farebbero bene a cospargersi il capo di cenere. Questi sono i frutti avvelenati di scelte dissennate imposte da loro.

         Mauro Ammirati