Una domanda che si pongono in tanti in Italia,
comprensibilmente anche con una certa rabbia, è: perché, mentre il Paese
affonda, politici e giornalisti parlano solo di Berlusconi? Probabilmente, sono
in tanti a chiederselo anche all’estero, soprattutto nelle democrazie
occidentali, dove è una regola comunemente accettata che un uomo politico
condannato in via definitiva si faccia da parte, senza troppe storie. Stiamo
assistendo allo smantellamento dell’apparato industriale italiano, la
disoccupazione giovanile – dato ufficiale pubblicato solo qualche giorno fa – è
al 40%, l’esercito di disoccupati si accresce ogni giorno, eppure la questione
centrale del dibattito politico è la decadenza da senatore di Silvio
Berlusconi. In effetti, converrete, almeno in apparenza è assolutamente
inspiegabile. In apparenza. Perché una spiegazione c’è. La vera ragione è che,
anche per il centrosinistra, se Berlusconi non esistesse, bisognerebbe inventarlo.
Per il Pd, non solo il leader del centrodestra non è un problema, ma
paradossalmente è una risorsa. Più precisamente, come dicono e scrivono in
tanti sui social network, con un gioco di parole, Berlusconi è una
straordinaria «arma di distrazione di massa», cioè un argomento che serve a
distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi reali, a
distrarre, appunto. Purtroppo, non si può giocare un mondiale di calcio ogni
anno, non bastano reality show, talent show e vari altri programmi televisivi
d’intrattenimento per addormentare le coscienze, non più, almeno, perché la
situazione socioeconomica è drammatica, comunque tale da annullare l’effetto
dei “narcotici tradizionali”. Ci vuole altro, qualcosa di nuovo,
d’eccezionalmente efficace ed un leader coinvolto in inchieste giudiziarie,
processi e scandali vari è la figura più adatta ad evitare che si parli di
aziende che chiudono, di italiani – anche con istruzione media o alta - che
fanno la fila davanti la mensa dei poveri, di imprenditori e disoccupati che
non sanno più a che santo rivolgersi. In parole povere, parliamo di tutto, ma
non d’economia, perché quando si affronta quest’argomento, i nostri politici
divagano dal tema, balbettano, nel migliore dei casi rispondono che c’è la
recessione, i tempi sono cambiati, siamo nel mercato mondiale, i sacrifici sono
necessari per restare in Europa… ed altri luoghi comuni. Praticamente, non
rispondono. Beninteso, il centrodestra ha interesse a salvare il suo leader
dalla decadenza, quindi si capisce benissimo che parli solo di questo e
tralasci tutto il resto. Sulla stessa decadenza il Senato dovrà votare il 27
novembre, molti parlamentari del Pdl, che ora è tornato a chiamarsi Forza
Italia, sanno che senza Berlusconi alla guida del partito non otterrebbero nuovamente
il seggio e l’istinto di sopravvivenza li spinge ad eseguire ogni ordine
provenga dall’alto. Una componente del centrodestra, guidata da Alfano,
vorrebbe affrancarsi da Berlusconi, ma per costruire un nuovo centrodestra, con
una nuova leadership, occorre tempo, che può essere guadagnato solo rimandando
il più possibile le elezioni anticipate. Perciò, contro il volere di
Berlusconi, Alfano farà di tutto per evitare la crisi di governo, anche a costo
di causare un scissione nel partito. Nel versante opposto, c’è una gran
confusione. Il Pd ha stabilito che segretario nazionale e candidato alla
Presidenza del Consiglio dei ministri non dovranno necessariamente essere la
stessa persona, una decisione che non aiuta certo a fare chiarezza ed allontana
il partito dal modello delle democrazie occidentali. L’imbarazzo e le
difficoltà del principale partito del centrosinistra sono dovute ad una scelta
storica che ora presenta il conto. Andreatta, Ciampi e Prodi, i veri padri del
Pd, legarono il destino dell’Italia all’Unione monetaria europea. Coerentemente
con questo indirizzo, il Pd ha finora sostenuto con fermezza la linea dell’austerità,
che però non ha dato i risultati che ci si aspettava. A fronte di enormi
sacrifici chiesti agli italiani (riforma
delle pensioni ed aumento della pressione fiscale), il debito pubblico è
aumentato, l’economia è crollata e la disoccupazione è schizzata in alto. Al Pd
resta solo da sperare in tempi migliori, confidando nella ripresa o in qualche
miracolo. Nel frattempo, gioca in difesa, come si dice in gergo calcistico, fa
catenaccio. In altre parole, parla di Berlusconi.
lunedì 11 novembre 2013
mercoledì 4 settembre 2013
I rischi di un'ampia diserzione
Non possiamo sapere se davvero Berlusconi toglierà la
fiducia al governo Letta, come minaccia da un mese, nel caso la Giunta per le
elezioni del Senato lo dichiari decaduto dalla carica di senatore. L’organo in
questione comincerà a discuterne dal 9 settembre, ma comunque vadano le cose,
alcune considerazioni possiamo farle sin da ora. Cominciamo con il dire che il
quadro politico è quanto mai complesso, le variabili indipendenti o, come suol
dirsi, le incognite sono diverse. Sappiamo con certezza che il voto anticipato
è richiesto dal leader del M5s, Beppe Grillo, dalla Lega nord e, pare, da una
buona frazione del Pdl. Ma non è affatto sicuro che una crisi di governo porti
ad elezioni anticipate. Il Presidente della Repubblica, in più di un’occasione,
ha fatto capire chiaramente che, se Enrico Letta verrà sfiduciato, le tenterà
tutte prima di sciogliere il Parlamento. Il Capo di Stato non può certo
inventarsi una maggioranza parlamentare che non c’è, non può crearla dal nulla,
davanti ad un Parlamento di minoranze incomunicabili può solo indire nuove
elezioni. Ma, da questo punto di vista, ciò che sta accadendo nei gruppi
parlamentari del M5s merita di essere seguito con attenzione. In sette mesi di
legislatura vi sono già state clamorose defezioni tra gli eletti di tale forza
politica, nelle ultime settimane Beppe Grillo ha ribadito con fermezza di non
essere affatto disposto a stipulare un’alleanza di governo con il Pd, ma diversi
senatori e deputati del M5s in proposito hanno già detto di pensarla
diversamente dal leader. Ulteriori defezioni o – qualcuno azzarda – una
scissione potrebbe spianare la strada alla formazione d’una nuova maggioranza e
d’un nuovo esecutivo. E, comunque, la sola possibilità che questo accada è
sufficiente per indurre chi vuole mandare a casa Enrico Letta a tenere un
comportamento più prudente. In secondo luogo, la storia della Repubblica
insegna che le elezioni anticipate non premiano chi le ha volute. Il diritto di
voto è una gran bella cosa, ma neanche al popolo sovrano piace rinnovare le
assemblee elettive troppo di frequente. In Italia le elezioni politiche si sono
tenute nello scorso febbraio, tornare alle urne nove o dieci mesi dopo non
sarebbe un segno di buona salute per la nostra democrazia. In terzo luogo, la
vicenda che è al centro del dibattito politico italiano da un mese a questa
parte, cioè la sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna in
appello per Silvio Berlusconi, fa tornare alla mente il cartello appeso nella
famosa fattoria di George Orwell. Come si sa, c’era scritto: «Tutti gli animali
sono eguali davanti alla legge, ma alcuni animali sono più eguali degli altri.»
Berlusconi ha chiesto insistentemente al Pd ed ai colleghi senatori della
Giunta per le elezioni di essere dichiarato «più eguale degli altri», definendo
la sua permanenza nella carica un «atto di pacificazione». Ora, se il governo
cadesse per un mancato «atto di pacificazione» e si andasse davvero alle urne,
la campagna elettorale inesorabilmente diverrebbe una referendum sulla
magistratura italiana e sulla riforma del sistema giudiziario. Il punto è: quanto interesserebbe all’elettorato
partecipare ad uno scontro simile, in un Paese in cui la disoccupazione
giovanile è arrivata al 40% ed a causa della recessione i suicidi sono quasi
all’ordine del giorno? Forse è il caso di ricordare che alle ultime elezioni
regionali ad aver vinto, anzi stravinto, è stato il partito della diserzione.
Mauro Ammirati
martedì 11 giugno 2013
Quando i dati vengono torturati
Al
ballottaggio delle elezioni amministrative ha votato il 48,51% degli aventi
diritto, al primo turno la percentuale era stata del 59,76%. A Roma il nuovo
Sindaco è stato scelto dal 45% degli elettori. Il centrosinistra ha sbaragliato
centrodestra e M5s dappertutto, in alcuni casi con un notevole divario, come
nella capitale (circa 30 punti percentuali) o a Imperia (quasi 50 punti) o
Ancona (circa 25 punti). Si aggiunga che il centrosinistra ha vinto anche a
Treviso, uno dei capoluoghi dove la Lega Nord sembrava imbattibile. In
apparenza, c’è poco da discutere: crolla il movimento di Beppe Grillo, che solo
quattro mesi fa raccoglieva il 25% alle elezioni politiche; crollano il Pdl ed
i suoi alleati, che, come si dice in gergo calcistico, «non sono mai entrati in
partita». Ammesso che si possa parlare di vincitori quando più della metà degli
elettori non vota, ha vinto il Pd, che qualche settimana fa dava l’impressione
di essere una forza politica allo sbando ed a rischio scissione. Ma in certi
casi è bene ricordarsi quel che dice un fisico americano: «Prendete i dati e
torturateli. Prima o poi confesseranno.» O come ammonisce un noto giornalista
sportivo: «Esistono le bugie, le grandi bugie e le statistiche.» Occhio ad una
lettura superficiale delle cifre. Queste ci dicono che il centrosinistra
scoppia di salute, il Pdl è praticamente un rottame ed il M5s qualcosa di
simile ad un temporale estivo. È davvero così? Certo che no. Se più della metà
dei cittadini ricusa di esercitare il diritto di voto significa che la crisi
della politica è ormai irreversibile. «Questa è la vostra ultima occasione», ha
dichiarato solennemente Giorgio Napolitano davanti all’intero Parlamento,
durante il discorso di insediamento alla Presidenza della Repubblica,
all’inizio del suo secondo mandato. I rappresentanti della nazione, come li
definisce la Costituzione, non ne sono pienamente consapevoli, visto che non
hanno ancora trovato uno straccio d’accordo su una questione importante come la
legge elettorale. In certe analisi, poi, fondamentali sono i termini di
confronto. Sono sempre stato dell’idea che accostare i risultati del voto
amministrativo e di quello politico sia, metodologicamente, un’operazione,
almeno, discutibile, per non dire imprudente. Nel primo caso, si sa, incidono
fattori locali, a cominciare dal giudizio sull’operato della Giunta comunale
uscente e questioni che nelle singole comunità spaccano in due l’opinione
pubblica, come l’isola pedonale, la filovia, l’inceneritore... Aggiungete che,
da vent’anni a questa parte, il Sindaco in Italia è eletto direttamente dal
popolo, dunque le qualità personali dei singoli candidati possono decidere una
competizione. Per raccogliere consenso alle elezioni politiche possono bastare
pochi messaggi, ma forti, si pensi alla campagna elettorale di Beppe Grillo ed
ai suoi slogan nello scorso inverno: «Mandiamoli tutti a casa», «Facciamo un
referendum sull’euro», «Restituiremo tre quarti dell’indennità di parlamentare»…
Berlusconi, nella stessa campagna elettorale, promise non solo di abrogare
l’imposta comunale sugli immobili, ma anche di restituire quella già pagata. Proposte
semplici, ma che fanno breccia
nell’elettorato e che denotano un certo talento nella difficile arte
della comunicazione (non a caso, stiamo parlando d’un comico, cioè un uomo di
spettacolo e del principale editore televisivo privato italiano). Nel voto
amministrativo, invece, è importante principalmente il radicamento territoriale
ed il Pd è l’unico forza politica in Italia, relativamente, strutturata. Riesce
ancora a mobilitare qualche milione di elettori quando organizza elezioni
primarie, mantiene un forte legame con il sindacato e, proprio grazie al
radicamento, nelle varie città riesce sempre a trovare il ricambio. Il M5s ha
un’origine recente e la formazione d’una classe dirigente in ogni regione e
provincia è un processo che esige tempi lunghi. Quanto al Pdl, sono proprio i
suoi dirigenti a dire che senza Berlusconi il loro partito non esisterebbe.
Quindi, è già un mezzo miracolo se i candidati di centrodestra accedano ai
ballottaggi. Forse, se il Pdl cominciasse a pensare ad un futuro senza
Berlusconi (perché nessuno è eterno), quindi a formare una nuova generazione di
dirigenti, farebbe un grande favore a se stesso ed alla democrazia italiana.
Mauro Ammirati
lunedì 22 aprile 2013
Il presidenzialismo è altra cosa
Come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere. Quanto è
avvenuto in occasione dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica -
deflagrazione del Pd e conferimento della carica, nuovamente, al Capo di Stato
uscente - ha spinto più d’un osservatore politico a proporre per l’Italia il
sistema presidenziale. La proposta è fondata su due argomenti: l’elezione
diretta del Presidente della Repubblica eviterebbe che un Paese venisse, di
fatto, lasciato allo sbando e che in Parlamento avesse luogo un’indecorosa
guerra per bande, com’è avvenuto con le votazioni sulle candidature di Franco
Marini e Romano Prodi. E questo è vero. Il secondo argomento è che dalla
presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, il Capo di Stato è andato assumendo sempre
maggiori poteri, al punto che si può già considerare l’Italia una repubblica
presidenziale, tanto vale, quindi, che se ne prenda atto. E questo, invece, non
è vero. A scanso di equivoci, io sono presidenzialista e non può che farmi
piacere se tanta gente si converte alla nostra causa, ciò non toglie che
un’analisi sbagliata resti un’analisi sbagliata. È indubitabile che negli
ultimi venti anni il Capo dello Stato ha avuto un ruolo, non decisivo, ma
straordinariamente importante in determinate circostante, l’ultima in ordine di
tempo, la formazione del governo Monti. Va però precisato che, in realtà, in
tutte queste circostanze, il Presidente della Repubblica altro non ha fatto che
esercitare i poteri che gli vengono attribuiti dalla Costituzione. Dalla
situazione venuta a determinarsi con la separazione tra Lega Nord e
centrodestra, nel 1994 (e conseguente nascita del governo Dini), fino alle
dimissioni di Berlusconi nell’autunno 2011 (e conseguente nascita del governo
dei tecnici), passando per la caduta dei due governi presieduti da Romano
Prodi, il rappresentante della massima carica dello Stato si è sempre,
scrupolosamente (com’è suo dovere) attenuto alla Carta. Per essere chiari: non
sono aumentati i poteri del Presidente della Repubblica, semplicemente questi
poteri sono stati esercitati a discrezione dello stesso Presidente, senza che
la Legge fondamentale venisse violata. Non è un caso che si affermi che la
tendenza presidenzialista abbia cominciato a delinearsi con la presidenza
Scalfaro. Cioè, nel 1992, l’anno in cui scoppia Tangentopoli, l’evento che,
unendosi al crollo del comunismo, cancella in Italia un intero sistema
politico. Fin quando erano esistiti partiti strutturati, radicati, coesi e
disciplinati al loro interno, come Pci e Dc, la libertà di manovra del
Presidente della Repubblica era sempre stata assai modesta. In una repubblica
parlamentare, di regola, quando i partiti fanno bene il loro mestiere, il ruolo
del Capo dello Stato è marginale. La scomparsa dei due grandi partiti di massa,
oltre che di quello socialista, lascia un vuoto enorme. Le forze politiche di
nuova formazione (Lega, Forza Italia, Ppi, Alleanza nazionale, Pds...) si
mostrano incapaci di sostituire adeguatamente i partiti che hanno portato
l’Italia fuori dal dopoguerra e dal sottosviluppo, soprattutto non riescono a
costruire un nuovo sistema politico. Per farla breve, restano le vecchie
regole, cambiano gli attori, che però non hanno da dare al Paese leader come De
Gasperi, Nenni e Togliatti. Il Capo dello Stato, davanti a partiti ed alleanze
politiche che nascono e muoiono in pochi anni è costretto a svolgere un ruolo sempre
più politico, senza rinunciare a quello di garante delle regole. Per fare un
esempio pratico, sul finire del 2011, dopo le dimissioni di Berlusconi,
Napolitano poteva sciogliere il Parlamento o affidare l’incarico a Mario Monti.
Preferì, a sua discrezione – sottolineo: a sua discrezione, perché è tutto qui
il discorso - la seconda opzione. Fu una scelta eminentemente politica - come
lo sarebbe stata quella di sciogliere le camere - ma che non contrastava con la
lettera né con lo spirito della nostra Costituzione. Negli anni ’50, ’60 e ’70,
Pci e Dc non avrebbero mai messo un Capo di Stato nella condizione di dover fare
simili scelte. L’Italia non è diventata una repubblica presidenziale. La verità
è che trent’anni fa avevamo partiti degni di questo nome ed ora non più.
Mauro Ammirati
martedì 5 marzo 2013
I migliori alleati di Beppe Grillo
Il successo straordinario ottenuto dal Movimento 5 stelle
alle ultime elezioni politiche ha sorpreso tutti. Perfino il leader ed il
fondatore del movimento stesso. Si sapeva e si prevedeva, già da mesi, che i
seguaci di Beppe Grillo avrebbero raccolto un ampio consenso, bastava
trattenersi dieci minuti in un qualsiasi bar o in una qualsiasi piazza d’Italia
per capirlo. Quel che, invece, nessuno aveva previsto – secondo me, lo
ribadisco, neanche Grillo – era una così alta percentuale di suffragi: il 25%
dei votanti, una scheda elettorale su quattro, al netto delle bianche e delle
nulle. Un vero sisma politico. Così, i neofiti della politica sono passati
dall’infanzia all’età adulta, senza passare per l’adolescenza. Un conto è
entrare in Parlamento, per la prima volta, con la prospettiva di fare cinque
anni d’opposizione alla “casta” ed avere molto tempo per prendere dimestichezza
con il nuovo ruolo; altro è avere la responsabilità di essere determinanti
nella formazione d’un nuovo governo. Perché, allo stato attuale, dati i nuovi
equilibri politici e parlamentari venuti a determinarsi, sembra assai difficile
che si trovi un sostituto di Mario Monti indipendentemente dalla volontà del
Ms5. Berlusconi e Bersani hanno una schiacciante maggioranza di seggi in tutte
e due le Camere, volendo potrebbero accordarsi e fare un governo in un
qualsiasi momento, ma sono consapevoli che il 23 ed il 24 febbraio 2013, in
Italia, è accaduto qualcosa che rischia
di mettere tutto in discussione, compreso il sistema dei partiti nella sua
interezza, così come si è sviluppato e lo abbiamo conosciuto in questi decenni.
Potrei dire che ciò che oggi è sotto esame è un certo concetto di democrazia.
Leggete il programma di Grillo, vi troverete idee care a Rousseau, come la
democrazia diretta e partecipativa, cioè, un drastico ridimensionamento della
presenza e della funzione dei partiti. Solo qualche giorno fa, lo stesso Grillo
ha proposto di modificare l’articolo 67 della Costituzione, quello che vieta
che il parlamentare, l’eletto, sia soggetto a «vincoli di mandato». Pertanto,
l’errore peggiore che possano ora commettere Pd e Pdl è quello di credere che
questo nuovo fenomeno politico sia davvero solo «un movimento di protesta». Di
certo, rabbia ed indignazione suscitati da vari scandali di corruzione hanno
dato una grossa mano al M5s; ed è altrettanto certo che i partiti che hanno
governato l’Italia in questi ultimi vent’anni avrebbero fatto molto meglio a
praticare per primi l’austerità, dando il buon esempio (per esempio, dimezzandosi
le indennità parlamentari), invece che pretendere di esserne affrancati. Era il
modo più sicuro per guadagnarsi il disprezzo di milioni di connazionali. Ma il
successo di Grillo è dovuto anche ad altro. I suoi migliori alleati, in questa
campagna elettorale, sono stati la Bce ed il Cancelliere Merkel, che hanno
imposto una politica deflattiva agli Stati dell’Europa meridionale. Un euro ad
immagine e somiglianza del marco tedesco – si abbia l’onesta intellettuale di
ammetterlo – è stato un esperimento fallimentare. Berlusconi e Tremonti, quando
erano al governo lo sussurravano soltanto, Grillo lo ha gridato nelle piazze.
Imporre l’austerità in piena recessione è un grave rischio, pensare di
combattere la deflazione senza incrementare la spesa pubblica è una pericolosa
illusione (che in Grecia porta voti ad “Alba dorata”). Ora in Germania temono
che l’Italia esca dall’unione monetaria. A Berlino farebbero bene a cospargersi
il capo di cenere. Questi sono i frutti avvelenati di scelte dissennate imposte
da loro.
Mauro Ammirati
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