sabato 12 novembre 2016

Un nemico sconosciuto

         Davvero, come sostengono in molti, la Brexit e la vittoria di Donald Trump sono solo i segni più evidenti della fine di un’epoca? Siamo in presenza dell’onda lunga d’un nuovo movimento politico originato da un sentimento d’avversione alle élites sempre più diffuso in larghi strati della popolazione? Probabilmente, è un po’ azzardato affermare che, dopo quanto avvenuto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, il mondo non sarà più come prima, ma sarebbe sicuramente un grave errore considerare i fatti in questione dei semplici incidenti di percorso. Di questo movimento politico, a cui è stato dato il nome di «populismo»,  credo che, in tanti, non abbiano ancora compreso la vera natura. Vengono considerati «populisti» e messi nello stesso calderone tutti i leaders politici che, negli ultimi anni, hanno saputo cavalcare il crescente malcontento nelle società occidentali, il che, a mio parere, è già indice di superficialità. Cos’hanno in comune Beppe Grillo, Donald Trump, Nigel Farage, Matteo Salvini, Marine Le Pen, Viktor Orban, considerati tutti populisti? E cosa unisce quei movimenti, etichettati (a torto o a ragione) di destra che stanno prendendo piede anche in Nord Europa?  Molto poco. Sicuramente, una certa capacità di sedurre i settori più arrabbiati dell’elettorato, un certo ascendente su quella parte della società che ha pagato, negli ultimi anni, il prezzo più alto alla recessione. Ma le affinità finiscono qui. Li divide tutto il resto. La verità è che in quel fenomeno chiamato convenzionalmente populismo trovi liberisti, socialisti, nazionalisti, europeisti, ecologisti, marxisti, gruppi che chiedono di fronteggiare i flussi migratori con il pugno di ferro o che combattono contro la privatizzazione del servizio d’erogazione dell’acqua, neofascisti, uomini e donne che salutano con il pugno chiuso o, come si diceva una volta, «romanamente»..., c’è di tutto. Dunque, come già accennato, l’unico elemento comune è un’aspra, feroce contrapposizione all’establishment. Ma, quanto ai programmi, ognuno ha il suo, ben diverso da quello degli altri. In Italia, la Lega Nord è contro l’euro e l’Ue, come il Fn francese, mentre il M5S, sugli stessi temi, si mostra molto più cauto; anche sulla questione immigrazione Salvini e Grillo parlano linguaggi diversi; Trump ha saputo accreditarsi in campagna elettorale come un fiero protezionista, promettendo di voler rimettere in discussione i trattati commerciali, cominciando dal Nafta, ma ha altresì assunto l’impegno di tagliare il deficit ed il debito pubblico, che invece è cresciuto di quasi il 30% con il moderato Obama; l’ungherese Orban è stato contestato dai vertici dell’Ue per aver, di fatto, riportato la banca centrale del suo Paese sotto il controllo del governo, una misura di straordinaria importanza e che ha quasi del sacrilego nell’Europa comunitaria, ma non si ha notizia di altri movimenti detti populisti che abbiano dichiarato di voler fare altrettanto. Potrei andare avanti a lungo, ma vado dritto al punto: il populismo non è una categoria della politica, è un termine vuoto, senza un concetto che lo definisca, essere populista non significa niente. E lo scrivo per la semplice ragione che le classi dirigenti dei Paesi occidentali pensano di risolvere la grave, profonda e drammatica crisi che attraversa le nostre società semplicemente rinchiudendo nello stesso cortile, appunto quello dei «populisti», allo scopo di screditarli, tutti coloro che danno voce al grido di dolore che sale dal basso e non trova ascolto nelle istituzioni, nei governi e nelle forze politiche storiche e tradizionali. Coloro che hanno in mano le redini delle principali democrazie non hanno ancora capito quanti morti e feriti abbia lasciato sul terreno la guerra economica che stiamo vivendo da almeno vent’anni, ma si illudono di poter neutralizzare la rabbia degli esclusi imprimendo il marchio di populista a chi insidia il loro potere. Fanno quadrato, nella loro torre d’avorio, da bravi oligarchi e con spirito elitario, come i socialisti ed i gollisti in Francia, come centrodestra e centrosinistra in Italia, contro chi preme dall’esterno per prendere il loro posto. Ma questa difesa ad oltranza non potrà durare all’infinito. Sono rimasti spiazzati e sorpresi da questo nuovo fenomeno, non lo conoscono affatto, sanno solo che è un loro nemico, ecco perché non si sforzano di capirlo, infatti  gli hanno dato un nome che non significa niente.

         Mauro Ammirati                  

venerdì 2 settembre 2016

Questione di taglie

         La pubblicità le inventa tutte per farti sentire giovane, anche quando i tuoi vent’anni se ne sono andati da un pezzo. Uno spot d’un prodotto dietetico, anni fa, faceva vedere una donna che indossava un jeans dei tempi del liceo e che le andava ancora bene. Aveva mantenuto la stessa taglia, grazie al prodotto che veniva reclamizzato, il fisico era ancora asciutto. La realtà, come sappiamo, è ben diversa. Solitamente, col tempo si mettono su chili, la taglia cresce, se vuoi infilarti a tutti costi la camicia che indossavi ai tempi delle scuole superiori questa si strappa. È un verità elementare, che, per analogia, vale anche per la politica. Lo statista che è prigioniero dei suoi sogni o della nostalgia ragiona così: se la realtà non conferma la validità delle mie idee, tanto peggio per la realtà. Così, fa leggi che sarebbero, forse, andate bene trenta o quarant’anni prima, quando il Paese portava un’altra “taglia”. E quelle leggi diventano camicie da forza. È difficile dar torto a D’Alema quando dice che «l’Italicum è una legge elettorale buona per un Paese bipolare, ma l’Italia non è più bipolare». Infatti, io frequentavo le scuole superiori quando la politica del nostro Paese si caratterizzava per il bipolarismo tra democristiani (o centristi) e comunisti. Oggi, i poli sono almeno tre, con il M5S che contende il primato al Pd. Ed un centrodestra che fa fatica a ritrovare la sua unità e se non la ritrovasse i poli diventerebbero quattro. L’Italicum è, dunque, una camicia da forza. Personalmente, per la “taglia” dell’Italia di oggi credo che il sistema elettorale più adatto sia il voto alternativo, sperimentato, storicamente, con successo in Australia. Al di là delle soluzioni tecniche, è necessario capire ciò che spiegavo mesi fa, su questo giornale:  attualmente, in Italia come in tutte le democrazie avanzate, un bipolarismo c’è, ma non è più quello tra sinistra e destra. La nuova alternativa è tra sovranisti e globalisti (o mondialisti); tra liberisti (nel senso di libero scambio tra le nazioni) e nazionalisti;  tra chi, come il nostro Matteo Renzi, dice che «la globalizzazione è una risorsa» e chi vorrebbe difendere, se necessario con misure protezionistiche, le economie nazionali dalla stessa globalizzazione. Questo nuovo bipolarismo è trasversale alla vecchia destra ed alla vecchia sinistra e finisce per spaccarle. Il risultato è che possiamo osservare, per esempio in Francia, la destra della Le Pen         La pubblicità le inventa tutte per farti sentire giovane, anche quando i tuoi vent’anni se ne sono andati da un pezzo. Uno spot d’un prodotto dietetico, anni fa, faceva vedere una donna che indossava un jeans dei tempi del liceo e che le andava ancora bene. Aveva mantenuto la stessa taglia, grazie al prodotto che veniva reclamizzato, il fisico era ancora asciutto. La realtà, come sappiamo, è ben diversa. Solitamente, col tempo si mettono su chili, la taglia cresce, se vuoi infilarti a tutti costi la camicia che indossavi ai tempi delle scuole superiori questa si strappa. È un verità elementare, che, per analogia, vale anche per la politica. Lo statista che è prigioniero dei suoi sogni o della nostalgia ragiona così: se la realtà non conferma la validità delle mie idee, tanto peggio per la realtà. Così, fa leggi che sarebbero, forse, andate bene trenta o quarant’anni prima, quando il Paese portava un’altra “taglia”. E quelle leggi diventano camicie da forza. È difficile dar torto a D’Alema quando dice che «l’Italicum è una legge elettorale buona per un Paese bipolare, ma l’Italia non è più bipolare». Infatti, io frequentavo le scuole superiori quando la politica del nostro Paese si caratterizzava per il bipolarismo tra democristiani (o centristi) e comunisti. Oggi, i poli sono almeno tre, con il M5S che contende il primato al Pd. Ed un centrodestra che fa fatica a ritrovare la sua unità e se non la ritrovasse i poli diventerebbero quattro. L’Italicum è, dunque, una camicia da forza. Personalmente, per la “taglia” dell’Italia di oggi credo che il sistema elettorale più adatto sia il voto alternativo, sperimentato, storicamente, con successo in Australia. Al di là delle soluzioni tecniche, è necessario capire ciò che spiegavo mesi fa, su questo giornale:  attualmente, in Italia come in tutte le democrazie avanzate, un bipolarismo c’è, ma non è più quello tra sinistra e destra. La nuova alternativa è tra sovranisti e globalisti (o mondialisti); tra liberisti (nel senso di libero scambio tra le nazioni) e nazionalisti;  tra chi, come il nostro Matteo Renzi, dice che «la globalizzazione è una risorsa» e chi vorrebbe difendere, se necessario con misure protezionistiche, le economie nazionali dalla stessa globalizzazione. Questo nuovo bipolarismo è trasversale alla vecchia destra ed alla vecchia sinistra e finisce per spaccarle. Il risultato è che possiamo osservare, per esempio in Francia, la destra della Le Pen opporsi alla politica liberista del socialista Hollande, cioè qualcosa di inimmaginabile vent’anni fa; in Italia, il centrodestra si divide tra il sovranista Salvini ed i liberisti (o mondialisti) Berlusconi ed Alfano.  Negli ultimi tempi, quasi dappertutto, a prevalere sono stati i mondialisti, che, in buona parte dei Paesi europei, hanno messo una camicia da forza ai loro popoli conosciuta come “moneta unica”. I governi italiani degli ultimi anni hanno ragionato così: se l’euro non va bene per l’economia italiana, tanto peggio per l’economia italiana. Quella camicia da forza valutaria ha mandato il nostro Paese in deflazione. Ora, i governi dell’Unione europea stanno negoziando con gli States per stipulare un trattato di libero scambio, di nome Ttip. L’Ue, come si sa, è un’area di libero scambio, perciò al suo interno sono state possibili tante delocalizzazioni verso l’Europa post-comunista, con conseguente disoccupazione nei Paesi dell’Europa occidentale. Se si stipulasse il Ttip saremmo costretti a competere anche con l’economia americana. Ora, la questione è semplice: che si tratti di leggi elettorali, fiscali, trattati commerciali o qualsiasi altra deliberazione da prendere, costa tanto al sarto prendere le misure ad un Paese e cucirgli un abito che non gli stia troppo stretto o troppo largo? 
         Mauro Ammirati      opporsi alla politica liberista del socialista Hollande, cioè qualcosa di inimmaginabile vent'anni fa; in Italia, il centrodestra si divide tra il sovranista Salvini ed i liberisti (o mondialisti) Berlusconi ed Alfano.  Negli ultimi tempi, quasi dappertutto, a prevalere sono stati i mondialisti, che, in buona parte dei Paesi europei, hanno messo una camicia da forza ai loro popoli conosciuta come “moneta unica”. I governi italiani degli ultimi anni hanno ragionato così: se l’euro non va bene per l’economia italiana, tanto peggio per l’economia italiana. Quella camicia da forza valutaria ha mandato il nostro Paese in deflazione. Ora, i governi dell’Unione europea stanno negoziando con gli States per stipulare un trattato di libero scambio, di nome Ttip. L’Ue, come si sa, è un’area di libero scambio, perciò al suo interno sono state possibili tante delocalizzazioni verso l’Europa post-comunista, con conseguente disoccupazione nei Paesi dell’Europa occidentale. Se si stipulasse il Ttip saremmo costretti a competere anche con l’economia americana. Ora, la questione è semplice: che si tratti di leggi elettorali, fiscali, trattati commerciali o qualsiasi altra deliberazione da prendere, costa tanto al sarto prendere le misure ad un Paese e cucirgli un abito che non gli stia troppo stretto o troppo largo? 

         Mauro Ammirati     

lunedì 6 giugno 2016

Tra passione e ragione

         Nonostante debba tenersi nel prossimo ottobre, il referendum con cui approvare o respingere la riforma costituzionale fatta dal governo Renzi ha acceso il dibattito politico sin da ora. Neanche i referendum su divorzio e aborto, in un Paese di tradizione cattolica come l’Italia, infiammarono il rapporto tra i partiti con cinque mesi d’anticipo rispetto al voto. È stato proprio il Capo di governo, ossia il fautore della riforma in questione, a “politicizzare” il referendum, assumendosi davanti a tutta la nazione l’impegno a dimettersi dalla carica in caso di vittoria del “no”. Una mossa che può sembrare azzardata ed imprudente, ma, come spiegavo nell’ultimo numero di questo periodico, assolutamente sensata se messa in relazione con le ambizioni di Matteo Renzi. Alzare la posta fino a giocarsi il tutto per tutto, infatti, era l’unica possibilità che egli avesse per fare di questo referendum un plebiscito e raccogliere quel consenso di cui necessita per accrescere il suo potere negoziale ai vertici dell’Ue. Il 40% ottenuto alle elezioni europee (percentuale da Dc dei tempi di De Gasperi), per quanto importante, rappresentava il consenso ottenuto dal partito, non solo dal leader, quindi una vittoria i cui meriti andavano ripartiti tra i tutti dirigenti del Pd; mentre a vincere o perdere il referendum di ottobre sarà solo Matteo Renzi, perché è stato proprio a lui a “rilanciare”, mettendo sul piatto addirittura la sua carriera politica. Dunque, se gli italiani ora discutono tanto d’un referendum che avrà luogo tra cinque mesi non significa affatto che siano diventati tutti appassionati di diritto costituzionale, il ruolo più ambito da loro – lo confesso, anche da me - sarà sempre quello di ct della nazionale di calcio, non quello di giudice della Consulta o di professore di diritto pubblico e comparato. La verità è che non si decide se tenersi o no questo Senato, ma se tenersi o no questo governo. E tutti sono consapevoli che le dimissioni di Renzi potrebbero avere nel Pd effetti imprevedibili. Potete essere certi che non servirà assolutamente e nulla dire che una riforma della Costituzione va tenuta distinta dalla sorte del governo, chi proverà a tenere le due questioni separate dimostrerà di non aver letto Carl Schmitt, il quale, un secolo fa, spiegava che la distinzione principale nell’estetica è bello e brutto, nella morale buono e cattivo, nell’economia redditizio e non redditizio, in politica amico e nemico. Ecco perché spesso viene avversata una buona proposta di legge unicamente perché è presentata dal nemico e viene sostenuta una pessima proposta di legge solo perché è presentata dall’amico. La politica è un’attività praticata sul crinale tra ragione e passione, accademia e tifoseria da stadio, lucido calcolo e spirito d’appartenenza. Nel caso non sia ancora abbastanza chiaro, lo spiego in termini più semplici: in politica è assolutamente normale evirarsi per fare dispetto alla moglie. Così, molti italiani voteranno “no” alla riforma costituzionale, perché, pur essendo favorevoli al Senato delle autonomie, vogliono farla finita con i governi di centrosinistra e dell’austerità; altri, a dispetto delle loro perplessità sul superamento del bicameralismo perfetto, voteranno “sì” perché temono che le dimissioni di Renzi spalanchino la porta ad una lunga stagione d’instabilità. Non so se Matteo Renzi abbia letto Schmitt. Ma, da buon fiorentino, Machiavelli l’ha letto di sicuro. Un altro che, quanto a realismo e spregiudicatezza, non doveva prendere lezioni da nessuno.

         Mauro Ammirati                  

venerdì 11 marzo 2016

Più che coraggio, è razionalità

         Per quale ragione un Capo di governo quarantunenne, quindi relativamente giovane (per i parametri della politica italiana, giovanissimo, un ragazzino), con una carriera spalancata davanti a sé, decide di giocarsi il tutto per tutto in un referendum? È inevitabile porsi questa domanda, dopo che Matteo Renzi ha dichiarato solennemente che se perderà il referendum sulla riforma costituzionale, da tenersi il prossimo ottobre, chiuderà con la politica e se ne tornerà a casa. C’è un precedente – perdonateci l’accostamento un po’ azzardato, perché parliamo d’un gigante della storia del XX secolo – ed è quello di Charles de Gaulle. Nel 1969, il generale aveva la Francia nelle sue mani, ma indisse un referendum, anche quello avente ad oggetto una riforma costituzionale (ed anche in quel caso si trattava del Senato), dichiarando che, in caso d’esito negativo, si sarebbe dimesso da Capo dello Stato. Ma le differenze tra le due circostanze sono considerevoli: de Gaulle era ormai un uomo anziano (aveva quasi il doppio degli anni di Renzi), di lì a poco sarebbe andato in pensione comunque e, soprattutto, un posto nella storia se l’era già assicurato, partecipando alla Resistenza francese, risolvendo la questione algerina con il minimo danno possibile e dando vita alla Quinta Repubblica. Dunque, da cosa ha origine la decisione di Renzi di giocarsi il suo futuro alla slot machine del voto del prossimo autunno? A mio parere, da un progetto politico molto ambizioso: costruire una nuova Ue, farne un’organizzazione sovrannazionale ben diversa da quella attuale, tecnocratica e formata da troppi satelliti che girano intorno alla Germania. Renzi sta semplicemente osservando cosa accade “lì fuori”, oltre l’Europa continentale, il nucleo originario della Comunità. E vede che c’è tanta confusione sotto il cielo. Oltremanica, prende corpo il rischio Brexit, la Gran Bretagna, il prossimo 23 giugno, deciderà, anche qui con un referendum, se restare o no nell’Ue. Comunque vada, il voto a favore della separazione raggiungerà un’alta percentuale, il che è già indicativo d’un forte malessere verso le istituzioni comunitarie. C’è la questione profughi, un fenomeno davanti al quale molti Paesi dell’Ue hanno ripristinato le frontiere nazionali e tanti saluti all’Europa della solidarietà. C’è il Medio Oriente in fiamme, un incendio che abbiamo alle porte di casa, perché l’Isis è arrivato in Libia, un’altra questione in cui non si vede traccia d’una politica estera europea. L’Ue si è mostrata compatta solo sul fronte Ucraina, combinando un disastro e scatenando una guerra (se Putin fosse davvero quel pericoloso nazionalista di cui si parla, Dio solo sa cosa sarebbe avvenuto). Ci sono anche le primarie americane, in cui due outsider, Sanders e Trump hanno sconvolto tutti i giochi. Sono due figure lontanissime, appartengono a due mondi diversi, ma se l’uno e l’altro hanno raccolto tanti consensi è segno che anche molti americani non ne possono più di un’economia che, in ultima analisi, sa solo comprimere i salari, sostituendo mano d’opera locale con immigrati. E, restando in tema d’economia, nell’Europa comunitaria, la situazione va facendosi drammatica, dando fiato, per di più, ai movimenti d’estrema destra. Per tutte queste ragioni, Renzi è sempre più insistente nel chiedere che l’Ue sia «più attenta alla crescita» e meno ai dati contabili, di farla finita con l’austerità, che ha già distrutto un Paese come la Grecia, di anteporre la creazione di lavoro all’esigenza dei conti in ordine, per farla breve, di costruire una nuova organizzazione di Stati in cui non ci siano più gli scolari virtuosi a dare lezioni agli indisciplinati. Ma, come è facile comprendere, per combattere una simile battaglia occorre intanto avere un forte sostegno, quindi un’alta percentuale di consensi, in casa propria. Renzi poteva scegliere la strada delle elezioni anticipate. Ma il referendum sulla riforma costituzionale si presta in modo particolare a diventare un plebiscito su un leader che alza la posta al massimo, dicendo: o vinco o vado a casa. Non è solo questione di coraggio. È lucida razionalità. I tempi, “lì fuori”, stanno già cambiando. E oltre le Alpi non l’hanno ancora capito.

         Mauro Ammirati           

mercoledì 3 febbraio 2016

La più esplosiva delle miscele

         Ora sono in tanti a chiedersi: sarà l’immigrazione a far crollare l’Ue? Perché sono proprio gli europeisti più convinti, come Matteo Renzi, a dire preoccupati e senza troppi giri di parole: ««Se crolla Schengen, crolla l’Ue». Dunque, non la disoccupazione, non la bassissima crescita economica, non l’esistenza sempre più precaria dei cittadini comunitari, non il debito pubblico dei Paesi del Sud Europa, ma l’afflusso di profughi, rifugiati e richiedenti asilo minaccia la realizzazione dell’ideale europeista? Apparentemente, sì. Ma il tema esige un’analisi più approfondita, perché i problemi che affliggono, soprattutto, i Paesi che compongono Eurozona sono strettamente legati l’uno all’altro e possono essere tutti ricondotti alla vecchia e nota fobia tedesca dell’inflazione e della moneta debole. Andiamo con ordine. Cominciamo, intanto, con il dire che alcune centinaia di migliaia di profughi che si disperdono in un continente grande come il nostro mai e poi mai susciterebbero isterismo collettivo e xenofobia se ogni spagnolo, italiano, portoghese, greco… avessero un posto di lavoro ed un’esistenza dignitosa. Cosa che non può affatto dirsi per buona parte della popolazione dell’Ue. Inoltre, quei poveri siriani che fuggono dalla guerra civile, dalla persecuzione e dalla pulizia etnica vanno ad aggiungersi ad un numero già considerevole di residenti extracomunitari: «Il numero di persone nate al di fuori dell'UE-28 e dimoranti in uno Stato membro al 1° gennaio 2014 era di 33,5 milioni», fonte Eurostat. Purtroppo, immaginare che milioni di uomini e donne si spostino da un continente all’altro senza che ciò scateni tensioni sociali è una pericolosa illusione.  Intendiamoci, non è qui in discussione il dovere morale di accogliere chi cerca di scampare alla morte, violenta o per inedia non fa differenza. La nostra civiltà giudaico-cristiana rinnegherebbe se stessa se si voltasse dall’altra parte quando dei disperati le tendono una mano. Ma dobbiamo raccontarcela tutta, cari lettori, altrimenti non è un’analisi, ma una presa in giro. Dobbiamo dirci che la politica ha preso un abbaglio ed è stata imperdonabilmente facilona. Le rispettabilissime ragioni etiche ed umanitarie, in tutti questi anni, hanno avuto un peso secondario rispetto a quelle pratiche, dettate più dal cinismo che dalla compassione. Ci è stato detto e ripetuto che di immigrati avevamo bisogno perché erano più prolifici di noi, così avrebbero garantito la sostenibilità dei nostri sistemi pensionistici, messi a rischio dal calo delle natalità nei Paesi sviluppati. Ci veniva spiegato che africani ed asiatici erano disposti a fare lavori che gli europei respingevano con sdegno. Pochi si sono spinti fino a raccontare una verità ai limiti dell’inconfessabile: gli immigrati servivano, primariamente, a comprimere salari. Così, oggi scopriamo di maneggiare la più esplosiva delle miscele: immigrazione, disoccupazione e bassi salari. L’estrema destra ringrazia ed ora passa alla cassa (elettorale). L’immigrazione è stata, doverosamente, accettata. Ma, quel che è peggio, è stata incoraggiata, sfruttata da un modello di sviluppo che non si regge in piedi se gli vengono a mancare aspiranti schiavi. Cosa avrebbe dovuto fare la politica? Se il problema è il calo delle natalità, si adottano misure per favorire le natalità, non l’immigrazione. Se si vuole aiutare gli africani, è alquanto insensato privare l’Africa dei suoi giovani, delle sue forze migliori. Parliamo d’un continente ricchissimo di materie prime e risorse naturali, che ha bisogno della nostra tecnologia, ma indebitato fino al collo con il sistema finanziario occidentale, cioè con noi. Hanno necessità dei nostri ingegneri, dei nostri lavoratori qualificati, dei nostri medici, ma finora li abbiamo sommersi di debiti in dollari ed euro, che ora non riescono a pagare (date uno sguardo ai documenti delle Conferenze episcopali africane per capire quanto sia serio il problema). Purtroppo, è un dato storico: è molto difficile che un Paese riesca a pagare debiti denominati in moneta straniera. Come abbiamo spiegato tante volte, su queste pagine, la bassa crescita in Eurozona si risolve sostenendo la domanda interna. Ma l’Ue, sotto la forte influenza tedesca, teme che questa politica crei inflazione (l’incubo della Germania da 70 anni a questa parte). Dunque, invece che sostenere i consumi in casa nostra, si è preferito puntare sulle esportazioni, sulla competitività nel mercato mondiale. E questa competitività esige bassi salari, nuovi schiavi. Cioè, immigrati. Si sono costruiti una bomba devastante. Ed ora non sanno come disinnescarla.   

         Mauro Ammirati