Gli americani rieleggono Obama alla Presidenza della
Repubblica. Nel momento in cui scrivo, non si hanno ancora dati precisi su voti
popolari e grandi elettori, ma è certo che il primo Presidente afroamericano
della storia degli States ha vinto la sfida contro il repubblicano Romney ed
ottenuto il secondo mandato. Four more years, gridano i suoi
sostenitori, altri quattro anni alla Casa Bianca, sperando che siano meno
turbolenti dei quattro precedenti, segnati dalla depressione economica. Sulle
ragioni della vittoria del candidato democratico non intendo soffermarmi, a mio
parere, noi italiani dovremmo riflettere su un altro aspetto della competizione
appena conclusa. Agli americani, si sa, piace lo spettacolo, anche la
nomination e la campagna elettorale devono somigliare ad uno show, il candidato
deve parlare della sua infanzia e della sua gioventù, portarsi dietro la
moglie, abbracciarla e baciarla in pubblico..., cose che a noi italiani –
diciamocelo francamente - fanno sorridere. Se da noi il Capo di governo
soltanto accarezzasse il coniuge davanti a telecamere e fotografi, verrebbe
sbertucciato da tutti, la satira politica si sfregherebbe le mani.
Consideriamola una debolezza dei nostri amici d’oltreoceano, qualcosa che si
può anche perdonare. Per il resto, è difficile che non si provi invidia vedendo
il popolo degli Stati Uniti quando deve scegliersi il Capo dello Stato. Nessuna
opera umana, per definizione, può essere perfetta, neppure la Costituzione
americana lo è (come ha anche spiegato in una raccolta di saggi, pubblicata
recentemente, il politologo Robert A. Dahl), ma lo storico documento redatto
dalla Convenzione di Filadelfia nel 1787 rimane un capolavoro di diritto
costituzionale, politica e filosofia. Ciò che ha consentito agli Stati Uniti di
diventare una potenza mondiale, come aveva profetizzato Alexis de Tocqueville
agli albori del XIX secolo, è il sistema istituzionale che li tiene insieme.
Barack Obama vince la competizione per la Presidenza, i repubblicani mantengono
la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, ma per gli americani non è
affatto un problema. Da loro, infatti, è quasi la regola. La Costituzione stabilisce
una rigida ed integrale separazione dei poteri, secondo l’insegnamento di
Montesqueiu: il Capo dello Stato non può sciogliere il Parlamento, ma non può
essere da questo sfiduciato; i giudici federali vengono nominati dal
Presidente, con il consenso del Senato, ma sono inamovibili, la nomina è a vita
e l’indennità che viene loro corrisposta non può essere diminuita finché
restano in carica. È il sistema Checks
and Balances, “freni e contrappesi”, che regge impeccabilmente da due
secoli. Io sono orgoglioso di essere italiano, vivo in un Paese che amo
profondamente, ma che mi fa imbestialire ogni giorno, perché non vuole proprio
capire che la democrazia, come insegnano i grandi costituenti americani, vive
di due tempi: quello della discussione e quello della decisione. Una democrazia
senza governi stabili e, quindi, incapace di decidere, prima o poi scivola nel
disordine, nel caos. E nel caos attecchiscono illegalità e corruzione. I nostri
costituenti, nell’immediato dopoguerra, scrissero la migliore costituzione
possibile, dato il contesto in cui operarono. Lasciarono alle generazioni
successive il compito di migliorarla. Un compito che non abbiamo saputo
assolvere. Nel 1788, Alexander Hamilton,
James Madison e John Jay, per convincere il popolo di New York a ratificare la
Costituzione redatta a Filadelfia, scrivevano: «La stabilità del governo è
indispensabile tanto per il raggiungimento della coscienza nazionale e per i
vantaggi che ne derivano quanto per istillare quiete e fiducia nel cuore del
popolo; vale a dire, quanto di meglio ha da offrire una società politica» (The Federalist).
Mauro Ammirati