mercoledì 7 novembre 2012

I due tempi della democrazia


         Gli americani rieleggono Obama alla Presidenza della Repubblica. Nel momento in cui scrivo, non si hanno ancora dati precisi su voti popolari e grandi elettori, ma è certo che il primo Presidente afroamericano della storia degli States ha vinto la sfida contro il repubblicano Romney ed ottenuto il secondo mandato.  Four more years, gridano i suoi sostenitori, altri quattro anni alla Casa Bianca, sperando che siano meno turbolenti dei quattro precedenti, segnati dalla depressione economica. Sulle ragioni della vittoria del candidato democratico non intendo soffermarmi, a mio parere, noi italiani dovremmo riflettere su un altro aspetto della competizione appena conclusa. Agli americani, si sa, piace lo spettacolo, anche la nomination e la campagna elettorale devono somigliare ad uno show, il candidato deve parlare della sua infanzia e della sua gioventù, portarsi dietro la moglie, abbracciarla e baciarla in pubblico..., cose che a noi italiani – diciamocelo francamente - fanno sorridere. Se da noi il Capo di governo soltanto accarezzasse il coniuge davanti a telecamere e fotografi, verrebbe sbertucciato da tutti, la satira politica si sfregherebbe le mani. Consideriamola una debolezza dei nostri amici d’oltreoceano, qualcosa che si può anche perdonare. Per il resto, è difficile che non si provi invidia vedendo il popolo degli Stati Uniti quando deve scegliersi il Capo dello Stato. Nessuna opera umana, per definizione, può essere perfetta, neppure la Costituzione americana lo è (come ha anche spiegato in una raccolta di saggi, pubblicata recentemente, il politologo Robert A. Dahl), ma lo storico documento redatto dalla Convenzione di Filadelfia nel 1787 rimane un capolavoro di diritto costituzionale, politica e filosofia. Ciò che ha consentito agli Stati Uniti di diventare una potenza mondiale, come aveva profetizzato Alexis de Tocqueville agli albori del XIX secolo, è il sistema istituzionale che li tiene insieme. Barack Obama vince la competizione per la Presidenza, i repubblicani mantengono la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, ma per gli americani non è affatto un problema. Da loro, infatti, è quasi la regola. La Costituzione stabilisce una rigida ed integrale separazione dei poteri, secondo l’insegnamento di Montesqueiu: il Capo dello Stato non può sciogliere il Parlamento, ma non può essere da questo sfiduciato; i giudici federali vengono nominati dal Presidente, con il consenso del Senato, ma sono inamovibili, la nomina è a vita e l’indennità che viene loro corrisposta non può essere diminuita finché restano in carica. È il sistema Checks and Balances, “freni e contrappesi”, che regge impeccabilmente da due secoli. Io sono orgoglioso di essere italiano, vivo in un Paese che amo profondamente, ma che mi fa imbestialire ogni giorno, perché non vuole proprio capire che la democrazia, come insegnano i grandi costituenti americani, vive di due tempi: quello della discussione e quello della decisione. Una democrazia senza governi stabili e, quindi, incapace di decidere, prima o poi scivola nel disordine, nel caos. E nel caos attecchiscono illegalità e corruzione. I nostri costituenti, nell’immediato dopoguerra, scrissero la migliore costituzione possibile, dato il contesto in cui operarono. Lasciarono alle generazioni successive il compito di migliorarla. Un compito che non abbiamo saputo assolvere.  Nel 1788, Alexander Hamilton, James Madison e John Jay, per convincere il popolo di New York a ratificare la Costituzione redatta a Filadelfia, scrivevano: «La stabilità del governo è indispensabile tanto per il raggiungimento della coscienza nazionale e per i vantaggi che ne derivano quanto per istillare quiete e fiducia nel cuore del popolo; vale a dire, quanto di meglio ha da offrire una società politica» (The Federalist).

         Mauro Ammirati

mercoledì 12 settembre 2012

Una scelta difficile


         Silvio Berlusconi, di recente, ha dichiarato in diverse circostanze che sta pensando seriamente di presentare, per la sesta volta (!), alle prossime elezioni politiche, la sua candidatura alla guida del governo. Si è riservato qualche mese per riflettere, non prenderà alcuna risoluzione, ha fatto sapere, prima di ottobre. Non è da escludere che sia un’abile mossa tattica, studiata a tavolino – come alcuni sostengono – per mettere in difficoltà il centrosinistra, uno schieramento tenuto insieme, per diciotto anni, solo dall’avversione comune allo stesso Berlusconi. All’indomani dell’insediamento del governo Monti, lo smarrimento del Partito Democratico e degli altri partiti di centrosinistra era palpabile. Privi del “nemico”, considerato per quasi un ventennio la principale causa di tutti i problemi italiani, il “male” da debellare ad ogni costo, sembrava non sapessero più che dire e che fare. Forse allora hanno capito che la guerra ad oltranza al Cavaliere di Arcore, cominciata nel 1994 e combattuta pervicacemente fino all’autunno 2011, li aveva ormai disabituati a fare politica. Avendo anteposto, per molto tempo, l’abbattimento di Berlusconi a tutto, compresa l’elaborazione di idee e programmi, inevitabilmente, venuto a mancare il nemico, il centrosinistra è caduto in una crisi d’identità. Ecco perché, come insegnano i politologi, la vittoria uccide. Ne sanno qualcosa i democristiani italiani, che hanno visto il loro partito sbriciolarsi insieme al muro di Berlino. Consapevole di questo, il fondatore del (fu) centrodestra, ora preferisce giocare a carte coperte, tenendo la sua strategia in sospeso porta scompiglio nel campo opposto. La contrapposizione tra Bersani ed il giocane Sindaco di Firenze, Matteo Renzi, nelle primarie nel Partito Democratico, è divenuta una resa dei conti tra generazioni. Da un simile scontro, un forza politica rischia di uscire ridotta in macerie. Ma, tatticismi a parte, verosimilmente, Berlusconi è davvero incerto sul da farsi. Ammesso che abbia già preso una decisione, sicuramente questa non è definitiva ed irrevocabile. Il futuro presenta troppe incognite per buttarsi nella mischia senza esitazioni, come fece diciotto anni fa. Le ragioni dell’indecisione di Berlusconi aiutano a capire il quadro generale. Per cominciare, non si sa con quale legge elettorale si andrà a votare. Se come pare assai probabile, resterà in vigore quella attuale, che assegna un premio di maggioranza alla coalizione vincente, il rischio per il Pdl sarà alto, perché la nascita del governo Monti ha segnato la fine dell’alleanza con la Lega, il cui nuovo leader, Roberto Maroni, medita di rinunziare a presentare liste del suo partito alle elezioni politiche, per rafforzare l’identità della stessa Lega come “partito del territorio”, cioè, del Nord. Se non si rinsalda il rapporto con il leghisti, per il Pdl conseguire il premio di maggioranza sarà assai difficile. Inoltre, non si sa quale sarà la situazione economica mondiale tra tre o quattro mesi, infatti non si esclude che ci si debba affidare ai tecnici anche nella prossima legislatura. Fu proprio la tempesta finanziaria dell’estate 2011 ad indurre Berlusconi a dimettersi da Capo di governo. Quindi, è impensabile che certe valutazioni ora proprio lui non le faccia. Infine, non si sa neppure quanti elettori andranno a votare e quanti consensi raccoglierà il “Movimento 5 stelle”, il cui programma stabilisce di sostituire la democrazia rappresentativa con la democrazia diretta, da praticarsi tramite il web (un esperimento che non avrebbe precedenti nella storia). In altri termini, nel caso non sia ancora chiaro, le prossime elezioni potrebbero concretizzarsi in una specie di “processo di piazza” ad un’intera classe politica. Detto tra noi, non sarei sorpreso se Berlusconi alla fine rinunziasse.
Mauro Ammirati

martedì 3 luglio 2012

Il peso della storia


         Sul campo di calcio li abbiamo battuti ancora una volta. Nel football, ormai è chiaro, siamo più bravi noi. Italia e Germania, due scuole calcistiche diverse, direi agli antipodi. Noi che giochiamo palla a terra, curiamo di più la tecnica, sappiamo, come si dice, «saltare l’uomo» e mantenere il possesso della sfera di cuoio negli spazi stretti. Siamo latini, ma molto più abili nella tattica di spagnoli (il 4-0 con cui si è conclusa la finale dell’Europeo è da attribuire semplicemente al divario qualitativo delle due squadre e, comunque, quanto a tecnica gli spagnoli sono più latini di noi), francesi, portoghesi, argentini, per non parlare dei brasiliani, che spesso vanno allo sbaraglio. I tedeschi confidano nella loro prestanza e nel loro temperamento, schierano quattro “armadi” in difesa, centrocampisti laterali veloci che buttano palloni alti nell’area avversaria, dove due colossi mettono in mostra la loro arma migliore, talvolta l’unica, che è il colpo di testa. Detto tra noi, non ricordo un solo tedesco che avesse piedi buoni, eccetto Franz Beckenbauer, lui sì, aveva il tocco delicato e giocava di fino, ma era un’eccezione. Per intenderci, un Pirlo o un Cassano teutonico, un calciatori tedesco che nasconda la palla all’avversario, difficilmente lo vedrete. Scuole diverse, dicevamo, tradizioni calcistiche che hanno molto poco, forse nulla, in comune. Per la semplice ragione che sono i due popoli ad avere poco, forse nulla, in comune. Ciononostante, siamo due tra i Paesi fondatori della Ceca, che poi divenne Cee ed oggi si chiama Unione europea. Ma solo un italiano come Alcide De Gasperi, che parlava tedesco ed era nato e cresciuto nel Trentino austriaco, poteva intendersi con Konrad Adenauer ed evitare che la gestazione d’una nuova Europa fosse più travagliata. C’era tanta diffidenza allora come ce n’è tanta oggi, tra noi e loro. Ed è proprio questa, la diffidenza, a complicare il rapporto tra la Germania e l’Italia e ad originare molto spesso incomprensioni tra esse. Invero, quando c’è di mezzo il denaro, i tedeschi sono diffidenti con tutti. Per ragioni culturali, sicuramente, ma soprattutto per ragioni storiche. Mi riferisco a vicende che ci hanno fatto studiare a scuola, ma sulle quali, forse, non abbiamo riflettuto abbastanza. Il cancelliere Merkel difende l’euro così com’è, oppone un deciso “nein” a qualsiasi modifica dello statuto della Bce ed esige che ogni Paese dell’unione monetaria pratichi il massimo rigore nei conti pubblici. Perché? Perché da certe esperienze sono rimasti marchiati a fuoco. Nella Repubblica di Weimar, nell’ottobre del 1923, il valore del dollaro salì a 25 miliardi (dico: miliardi) di marchi. I tedeschi andavano a fare spesa con carriole piene di banconote ridotte a carta straccia. La situazione economica precipitò al punto che un pittore austriaco senza arte né parte, in pochi anni,  diventò padrone assoluto del Paese. Da allora, i tedeschi hanno – comprensibilmente – la fobia del deficit pubblico e della svalutazione monetaria, non è un caso che uno dei capisaldi della Repubblica Federale di Germania è la valuta forte, garantita dall’autonomia dal potere politico della banca d’emissione. Quindi, della moneta unica europea e di legare il proprio destino a quello di popoli spendaccioni come il nostro i tedeschi avrebbero fatto volentieri a meno. Accettarono, obtorto collo, di aderire all’euro unicamente perché questo era il prezzo da pagare alla riunificazione con l’ex Germania comunista. La notte tra il 9 ed il 10 novembre 1989, come si sa, cambia la storia del mondo. Crolla il Muro di Berlino, in tutta Europa, a Parigi soprattutto, rivedono vecchi fantasmi. Una Germania economicamente potente e riunificata incute troppa paura. Andreotti dichiara: «Amo così tanto la Germania che vorrei ce ne fossero sempre due». Mitterand è pienamente d’accordo. C’è un solo modo per i tedeschi di rassicurare gli altri Paesi europei ed è quello di rinunciare alla loro arma più potente: il marco. In cambio la Germania ottiene che alla Bce venga affidato il solo compito di prevenire l’inflazione, cioè che abbia le mani legate nell’emissione di banconote. L’euro, così come lo conosciamo, dunque, è nato da due fobie: quella tedesca per il deficit pubblico e quella francese per i tedeschi. Quando si chiede alla Merkel di acconsentire che la Bce diventi una banca d’emissione come la Fed americana o come qualsiasi altra banca centrale, si va a sbattere contro un muro. Ai tedeschi si può chiedere tutto. Ma sulla moneta forte non transigono.

         Mauro Ammirati

giovedì 10 maggio 2012

Beati i francesi

Stavolta i sondaggisti hanno fatto centro, le loro previsioni si sono avverate. Nel primo turno delle elezioni amministrative, tenutosi il 6 ed il 7 maggio, il Pdl è crollato, al Pd è andata un po’ meglio, la Lega ha perso anche nelle sue roccaforti ed il Terzo polo è stato praticamente annientato. I partiti, consapevoli che la loro popolarità è ai minimi storici, si sono presentati, un po’ dappertutto, sotto mentite spoglie, nascondendo i propri simboli dietro quelli delle liste civiche, un modo furbesco (ma, tutto sommato, comprensibile) di ammorbidire l’attesa mazzata (che, comunque ed a scanso di equivoci, c’è stata). Non è un caso che, tanto per fare un esempio, l’unico Sindaco leghista che abbia ottenuto un grande successo sia Flavio Tosi, Sindaco uscente e confermato di Verona, dove - a costo di scatenare nei mesi scorsi una guerra nel suo partito - ha voluto testardamente presentare una lista che portasse solo il suo nome. Aveva fiutato l’aria ed i fatti gli hanno dato ragione. Il responso delle urne, oggettivamente, indebolisce il governo Monti e rappresenta un altro segnale diretto a Berlino, aggiungendosi a quelli proveniente da Parigi ed Atene. L’Europa è sempre più insofferente del rigore finanziario predicato, preteso ed imposto dalla signora Merkel, piuttosto che pagare un prezzo così alto all’egemonia germanica molti europei preferiscono rinunciare alla moneta unica e tornare alle valute nazionali (c’è poco da fare, i tedeschi quando vogliono comandare non piacciono, neppure se vestono abiti civili ed usano le maniere gentili). L’area del disagio sociale in Italia va allargandosi sempre più, strada facendo l’esecutivo dei tecnici è andato perdendo il credito che aveva otto mesi fa. Nel Pdl si discute se sia opportuno continuare a sostenere il governo Monti, Berlusconi è tentato dall’idea di abbandonare i ministri professori al loro destino, probabilmente sono le troppe incognite a trattenerlo. La politica non sembra ancora pronta a riprendere in mano la situazione, c’è ancora del lavoro “sporco” da fare ed i partiti non hanno l’autorevolezza necessaria per farsene carico; andare alle elezioni politiche con questa legge elettorale comporterebbe il rischio di consegnare il Paese all’ingovernabilità; Berlusconi e gli altri leaders sanno che il governo tecnico offre la migliore congiuntura possibile per fare le riforme costituzionali e che senza di queste si rischia seriamente di sprofondare nel caos, com’è accaduto in Grecia, dove si è appena votato e si sta già pensando di tornare nuovamente al voto. In altri termini, i francesi possono permettersi di scegliere il cambiamento ed eleggere Hollande, senza che questo comporti contraccolpi pericolosi per la Repubblica, perché (grazie principalmente a quel grande statista di Charles de Gaulle) hanno un sistema istituzionale e politico che dal 1963 ha dato ottima prova di sé. Noi ed i greci uno Stato come quello francese non siamo ancora riusciti a darcelo ed ora la storia presenta il conto.

         Pressoché unanimemente, sostengono i commentatori politici che ad aver vinto le elezioni amministrative siano stati il comico Beppe Grillo ed il suo Movimento 5 stelle, che hanno ottenuto a livello nazionale l’8,74% dei consensi. Quella di Grillo viene considerata «la vittoria dell’antipolitica», cioè del qualunquismo e della demagogia. Su questo si potrebbe discutere a lungo, magari un giorno su queste colonne lo faremo. Ma ammesso (e non concesso) che sia così, allora si può solo sentenziare: è la cattiva politica a suscitare ed alimentare l’antipolitica. Chi rompe paga ed i cocci sono suoi.

         Ammirati   Mauro

lunedì 12 marzo 2012

Due letture sbagliate

         Poche settimane fa c’è stato il ventennale dell’apertura dell’inchiesta giudiziaria “Mani pulite”, quella che fece da detonatore a Tangentopoli, l’esplosione che in meno di due anni cancellò i partiti storici italiani. Inevitabilmente, come sempre accade in simili circostanze, ci siamo chiesti più o meno tutti quale fosse lo stato di salute della politica italiana vent’anni dopo quella catarsi provocata dalle indagini di diverse Procure. In verità, non si fa una gran fatica a rispondere. Ma bisogna andare per ordine. Gli storici un giorno dovranno spiegare che Tangentopoli cominciò con una tangente di sette milioni di lire buttati in un water. Sette milioni di lire, una cifra irrisoria, una bazzecola. Ma fu il sassolino che scendendo a valle diventa una valanga. Dì lì a poco tempo, ebbero inizio altre inchieste riguardanti cifre da far girar la testa ed i magistrati accertarono quel che in Italia sapevano o intuivano tutti: la corruzione non era accidentale, ma “sistemica”, radicata e capillare. Quel sistema politico che era sopravvissuto anche alla difficile e dolorosa prova dei cosiddetti “anni di piombo” o della “notte della Repubblica” da tempo si reggeva soprattutto sul finanziamento illecito dei partiti. Tangentopoli fu una sorta di lavacro, purtroppo non sempre al lavacro o alla purificazione segue la rigenerazione. Quella bonifica compiuta dai giudici non fu sufficiente a ricostruire il Paese prostrato dall’intreccio perverso di politica ed affari. Vent’anni dopo, il quadro che abbiamo davanti è tutt’altro che incoraggiante. La piaga della corruzione non è stata debellata, di recente è stata quantificata in sessanta miliardi di euro. Ma c’è un altro dato su cui vale la pena soffermarsi a riflettere. Tangentopoli segnò la scomparsa dei grandi partiti di massa, cioè il P.c.i., la Dc ed il P.s.i. Queste forze politiche erano espressioni della Guerra fredda, cercarono di sopravvivere ad un mondo che ormai, dopo la caduta del Muro di Berlino, apparteneva alla storia. Erano culturalmente impreparate ad affrontare un contesto internazionale profondamente mutato dopo il crollo dei regimi dell’Europa orientale. Quel che Gorbaciov ed i comunisti ungheresi avevano capito già nei primi anni ’80, in Italia democristiani, comunisti e socialisti non l’avevano ancora capito nei primi anni ’90. Costoro erano, pertanto, destinati ad essere cancellati, le inchieste giudiziarie abbreviarono semplicemente l’agonia  di P.c.i., Dc e P.s.i. Se non si parte da qui non si può capire perché oggi governino i tecnici. Infatti, le forze politiche nate dalle rovine del dopo Tangentopoli e che oggi formano il centrodestra ed il centrosinistra si dividono principalmente sull’analisi di quanto accadde nel biennio 1992-93. Per il centrodestra Tangentopoli fu né più né meno che un complotto della magistratura per portare la sinistra al potere; per il centrosinistra, invece, quelle inchieste dimostrarono che in Italia esistono due destre: una nostalgica e fascista, l’altra irrimediabilmente corrotta e bramosa di sottomettere la magistratura.  Così, sulla base di queste due letture distorte della storia recente, per un ventennio le due coalizioni hanno opposto un rifiuto alla mutua legittimazione, insultandosi e contrapponendosi ad oltranza, fino a screditarsi ed indebolirsi vicendevolmente. Un giorno è bastato dire al governo dei tecnici: prego, si accomodi.

         Mauro Ammirati       

venerdì 3 febbraio 2012

Le cause d'un fallimento

         Sulla distinzione tra governo tecnico e governo politico si potrebbe discutere a lungo, purtroppo su queste pagine non disponiamo di sufficiente spazio per un’analisi approfondita dell’argomento. Ad ogni modo, è illuminante in materia una raccolta di saggi scritti da Max Weber nel 1917, Parlamento e Governo, Ed. Laterza. In questa sede, ci interessa principalmente cercare di capire la situazione venuta a crearsi in Italia, negli ultimi mesi, con l’insediamento del governo Monti. Occorre dare una risposta a quelle domande che ora molti si pongono, soprattutto (e con una certa rabbia), nel centrodestra: perché si va a votare ed eleggere un Parlamento e (indirettamente) un governo se poi a governare vanno i cosiddetti tecnici? Come ne esce da questa vicenda la sovranità del popolo, che in democrazia è un dogma? A dispetto delle apparenze, la questione è estremamente semplice: nei Paesi in cui la democrazia ha radici profonde, quando la politica fallisce, al potere vanno gli accademici, gli alti funzionari dello Stato, i banchieri ed i dirigenti delle grandi aziende, in una parola, i tecnici; dove la democrazia non ha un’antica tradizione a sostenerla, se la politica non fa dignitosamente la sua parte e cade in discredito, al potere vanno i militari. Grazie a Dio, l’Italia di oggi non è il Cile degli anni ’70, così il nuovo Presidente del Consiglio è un ex rettore della Bocconi  e non un uomo con le stellette sulle spalle. Ma nell’uno come nell’altro caso, parliamo sempre di fallimento della classe politica. Capisco che Monti ed i suoi ministri non suscitano un grande entusiasmo a destra e, invero, neanche a sinistra, ma i principali partiti italiani devono chiedersi perché quelle riforme – giuste o sbagliate, condivisibili o meno che siano – che l’attuale governo ha fatto in due mesi la politica non abbia saputo o potuto farle in tre decenni. In altri termini, perché era necessario che andassero al potere i tecnici perché in Italia venissero presi provvedimenti che in altre democrazie sono stati adottati da governi eletti dal popolo e guidati da personalità politiche? Noi due risposte da dare le abbiamo.

         La politica italiana ha perso e continua imperdonabilmente a perdere la sfida più importante: la grande riforma istituzionale. La nostra è una Costituzione compromissoria, nell’immediato dopoguerra era, probabilmente, l’unica possibile, ma sin dalla fine degli anni ’70, la necessità che venisse modificata in più parti è andata facendosi sempre più evidente. Un sistema istituzionale come il nostro non consente che si formino governi stabili ed efficienti, capaci di decidere e fare leggi nell’interesse delle future generazioni. Se non si mette mano alla Carta ed alle regole elettorali, noi da questo fosso non usciamo.

         Non è solo questione di regole, va detto, ma anche di cultura politica. Fino alla caduta del Muro di Berlino, abbiamo avuto la Guerra Fredda dentro casa. Il cosiddetto “fattore K” impediva il ricambio, la nostra era una democrazia bloccata, non si poteva certo pretendere che il nostro sistema politico funzionasse come quelli anglosassoni o quelli scandinavi. Ma dal 1991 in poi, con la scomparsa della cortina di ferro, abbiamo avuto anche noi la possibilità di costruire una “democrazia compiuta” o dell’alternanza. Purtroppo, sostanzialmente, non ci siamo riusciti, altrimenti oggi non governerebbero i tecnici. Il punto è che dal 1994 ad oggi è prevalsa la politica “negativa”, cioè sono state stipulate coalizioni non per governare, ma per impedire che l’avversario vincesse le elezioni. Così, a destra si coalizzavano nazionalisti, separatisti, autonomisti e federalisti. A sinistra, l’alleanza si estendeva da liberali atlantisti a partiti filocubani rimasti fermi alla lotta di classe, passando per cattolici e laicisti (nel 2008 Veltroni scaricò l’estrema sinistra e fu ritenuto responsabile della sconfitta elettorale). Ognuno dei due schieramenti era convinto di essere una sorta di fronte di liberazione nazionale. È finita come sappiamo e non poteva che finire così. Ma, francamente, dubitiamo assai che abbiano capito la lezione.

         Mauro Ammirati