giovedì 5 novembre 2015

Ci vorrebbe un New Deal

         Di questi tempi, c’è molto da lavorare per i politologi. Devono rimettere mano ai saggi ed ai libri che hanno pubblicato negli ultimi 30-40 anni e stavolta non si tratta dei soliti aggiornamenti. Quei lavori di ricerca e d’analisi, ormai, parlano d’un mondo che non esiste più. Un mondo che era sopravvissuto anche alla caduta del Muro di Berlino, ma ora sta cadendo sotto i colpi di piccone d’un fenomeno imprevedibile fino a poco tempo fa. Ci è stato insegnato, per decenni, che le grandi democrazie occidentali erano fondate sul bipolarismo o bipartitismo, sull’alternanza al governo tra conservatori e riformisti, liberali e socialdemocratici, centrodestra e centrosinistra. I primi  che cercavano di arginare la presenza dello Stato in economia e non si preoccupavano particolarmente delle diseguaglianza sociali, i secondi che cercavano di mantenere lo Stato dirigista e di redistribuire la ricchezza. E siccome ogni regola ha le sue eccezioni, ci veniva spiegato che in Paesi come l’Italia e quelli scandinavi (quasi irrilevanti, in quanto poco popolosi) la democrazia dell’alternanza non aveva mai davvero attecchito. Neanche una grande democrazia come quella tedesca era mai stata rigidamente bipolare, ricorrendo, in diverse circostanze, alla grande coalizione di governo tra democristiani e socialdemocratici. L’archetipo della democrazia dell’alternanza era quella che aveva messo radici in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (un Paese costruito dai discendenti degli inglesi, non a caso), dove la competizione era, ordinariamente, un discorso a due ed i governi monopartitici la norma. Il Parlamento di Westminster, a Londra, pensate un po’, non è un emiciclo, ma ha la forma rettangolare. C’era stata qualche “incursione” dell’alleanza tra liberali e socialdemocratici, per scardinare il sistema, ma, fino ad oggi, i governi di Sua Maestà erano sempre stati saldamente in pugno ai laburisti o ai conservatori. Solo negli States tiene il tradizionale bipartitismo, tra repubblicani e democratici, ma è da tenere presente che in un Paese di così grandi dimensioni la campagna elettorale è costosissima e senza i cospicui finanziamenti delle grandi lobby chi è fuori dall’establishment non ha speranza di battere i partiti storici. Bene, ora, come direbbe Bartali: «L’è tutto da rifare». Già, perché nella vecchia Europa avanzano le “terze forze” o, se preferite, i “terzi incomodi”, gli ousiders, i guastafeste. In Italia, è in crescita il M5S (presto potrebbe prendersi il Comune di Roma e non sarebbe un segnale da poco), in Francia il Front National, in Spagna Podemos ed in Gran Bretagna l’Ukip, solo per menzionare i casi più importanti. A volte, si tratta di movimenti che non si lasciano collocare secondo le categorie di destra e sinistra (M5S e Ukip) e quasi sempre sono danneggiati dalla difficoltà di trovare alleati e dal sistema elettorale (i collegi uninominali inglesi e francesi). Il punto centrale è che sono accusati di cavalcare il malcontento, di fare demagogia, di essere populisti... ma i loro consensi sono accresciuti dalla manifesta impotenza dei governi a risolvere i problemi più gravi, a cominciare dalla disoccupazione. Che sia di centrodestra o di centrosinistra, ogni Primo ministro non sa fare altro che chiedere di avere fiducia, confida che la ripresa si irrobustisca quanto basta per creare qualche posto di lavoro, chiede agli imprenditori di investire di più, come se questi facessero beneficenza, spesso si mette da parte e lascia la scena al tecnico che spiega che il rapporto debito/Pil è migliorato... Di più, non riescono a dare. Si sono arresi al primato dell’economia, alla sovranità dei mercati, alla politica ancillare, i frutti avvelenati della globalizzazione e, quel che è peggio, da questa gabbia ora non sanno come uscire. Davanti alle macerie d’una recessione devastante, ti danno una pacca sulla spalla per farti coraggio. Ci vorrebbe un New Deal. Ma, soprattutto, ci vorrebbe un Roosvelt.

         Mauro Ammirati     

venerdì 11 settembre 2015

La consolazione dei decimali


         Qualche mese fa, la Nasa ha dichiarato di avere scoperto un pianeta, molto simile al nostro, ma una volta e mezza più grande, l’hanno chiamato Kepler 452 B e ci è stato anche detto che un giorno potremmo andare a viverci. La vera notizia, purtroppo, è un’altra: Kepler 452 B è disabitato. Non c’è manco, come suol dirsi, un’anima viva da quelle parti. Così, qualche spiritoso ha proposto di farne un’immensa discarica, «così, qui da noi, la facciamo finita con la raccolta differenziata». Ma, battute a parte, è un vero peccato che questo pianeta gemello della Terra possa essere, nella migliore delle ipotesi, colonizzato, ma non sfruttato secondo le nostre esigenze. Perché, di questi tempi, noi miseri terrestri non cerchiamo nuovi spazi, ma nuovi clienti. Già, siamo ridotti così male che ci tocca conquistare nuovi mercati, ormai, nell’universo. L’economia dei giorni nostri, infatti, è stata costruita su un principio tanto semplice, quanto devastante: una nazione non produce per consumare, ma per esportare. Ogni Paese distrugge la domanda interna, per vendere i suoi prodotti ai consumatori che vivono fuori dai propri confini, cerca di attirare in tutti i modi possibili, soprattutto con misure fiscali, investimenti stranieri, in economia si dice: «beggar thy neighbour», frega il tuo vicino. Ora, non occorre un’intelligenza straordinaria per capire che se tutti vogliono esportare e nessuno vuole importare, se tutti vogliono vendere e nessuno vuole acquistare, se ognuno cerca di essere più furbo dell’altro, a lungo andare, il motore dell’economia mondiale si ingrippa, come se qualcuno ci avesse buttato dentro la sabbia. Ed è quanto sta succedendo ai giorni nostri. Purtroppo, come vi ho appena spiegato, questi maledetti “kepleriani” non esistono, accidenti a loro!, quindi dobbiamo risolvere i nostri problemi qui, su questo pianeta. La razionalità vorrebbe che si tornasse a produrre per consumare e che le esportazioni non fossero più l’obiettivo principale, che, insomma, la facessimo finita, una volta per tutte, con questa competizione internazionale senza freni e senza remore, ma leaders politici ed economisti non vogliono darsene per inteso. Valga per tutti come esempio il nostro Matteo Renzi che ripete la litania: «La globalizzazione è una risorsa», mentre gli stranieri ci portano via un’industria dopo l’altra ed egli stesso ci invita a brindare perché la disoccupazione è scesa sotto il 13% ed il Pil è aumentato lo scorso luglio dell’0,3%, si prevede l’0,7% su base annua. Sarebbe bene che qualcuno spiegasse al nostro Capo di governo che il dato dei senza lavoro esclude i cosiddetti “rassegnati” (gli italiani che, disperando di trovare un’occupazione, non rinnovano l’iscrizione alle liste di collocamento, per l’Istat ormai sono fantasmi) ed un milione di italiani che, negli ultimi dieci anni, è espatriato; quanto alla produzione, per i decimali non si fa festa neanche in tempi di guerra. Ma Renzi insiste che siamo in ripresa, perché, dice, «davanti al Pil ora c’è il segno “più” e prima c’era il “meno”». Sembra che non basti più la persuasione, quindi ora ci prova con l’ipnosi. A nulla vale spiegargli che servono a poco misure come il Job act o il credito d’imposta per chi assume, perché il problema dei nostri imprenditori è che i loro prodotti restano invenduti, dato che non vengono acquistati all’estero - perché tutti stanno svalutando la propria moneta, allo scopo di diminuire le importazioni - né in Italia, perché l’austerità ha distrutto il mercato interno. Speriamo che la Nasa scopra un altro pianeta. Ma, stavolta, per favore, che sia abitato.

         Mauro Ammirati    

venerdì 5 giugno 2015

La vera novità viene dall'Italia centrale


 
Che sia giusto o sbagliato, le elezioni regionali, in Italia, da sempre sono considerate una sorta di sondaggio sul governo nazionale. Non dovrebbe essere così, perché non vi è alcuna relazione tra l’elezione dei Consigli regionali ed il giudizio che si dà sulle Giunte regionali uscenti, da una parte e l’operato del governo nazionale, dall’altra. Per di più, da un ventennio, il Presidente della Regione è eletto direttamente dal popolo, quindi dare una valenza “politica” a questo voto significa, di fatto, esautorare la nuova legge elettorale. Il punto è che sono gli stessi leaders politici nazionali a voler approfittare d’ogni circostanza per rafforzare la propria posizione, come se la vittoria d’un candidato di centrodestra in Molise o in Val d’Aosta significasse, nella situazione attuale, un segno di sfiducia verso il governo Renzi. Ma tant’è. Se, convenzionalmente, la lettura dei dati è quella appena spiegata, allora va tenuto conto delle conseguenze della lettura stessa sugli equilibri politici. Dunque, cominciamo con il dire che il messaggio più importante che gli elettori hanno mandato in occasione delle elezioni dello scorso 2 giugno è quello relativo all’affluenza ai seggi: il 48% degli aventi diritto non è andato a votare. È un fenomeno diffuso nelle democrazie occidentali, ma, almeno per quanto mi riguarda, il «mal comune» non è sempre «mezzo gaudio». In Italia, ormai, ci sono più partiti che Pro loco, ma la metà degli italiani non ne trova uno cui dare il proprio consenso. Non mi sembra un dato da ignorare. Il Pd vince in 5 regioni su 7, ma viene travolto in Veneto, dove il suo candidato non ottiene più del 23,37%, mentre quello del centrodestra prende il 52,18%, nonostante la Lega Nord abbia subito una scissione. Perde anche in Liguria, il centrosinistra, dove si era diviso presentando due candidati diversi alla Presidenza, una dimostrazione tangibile di quanto siano sempre più tesi e difficili, nel Pd, i rapporti tra i renziani e l’ala di sinistra. Nessun candidato del M5S riesce a farsi eleggere Presidente della Regione, ma la percentuale dei voti raccolti è in crescita, rispetto al deludente risultato dello scorso anno alle elezioni europee. I numeri dicono che se si votasse oggi con l’Italicum, la nuova legge elettorale (che andrà in vigore solo dal luglio 2016), al ballottaggio andrebbero M5S e Pd. La situazione, dunque, è estremamente preoccupante per il centrodestra, che ora ha anche un problema attinente ai rapporti di forza interni. Infatti, se, in Veneto, la Lega Nord ottiene il 23,08%, mentre Forza Italia si ferma ad un misero 5,97%, nelle regioni dell’Italia centrale, le liste formate sotto la leadership di Matteo Salvini, cioè quelle filoleghiste, raggiungono la doppia cifra: 13,99% in Umbria, 13,02% nelle Marche, 16,16% in Toscana. Percentuali che, ai tempi della leadership di Bossi, la Lega non osava neppure sognare. Sotto la guida di Salvini, il partito sfonda anche a sud della linea gotica, al punto da sorpassare Forza Italia. Bossi non metteva in discussione la permanenza dell’Italia nell’Unione europea e, per distinguersi dagli alleati di centrodestra, minacciava la secessione del nord; Salvini contesta duramente l’Unione europea, chiede la secessione dell’Italia dall’eurozona e dice di rappresentare anche gli interessi del Meridione italiano. Il radicale mutamento di linea politica finora è stato premiato. Nella lotta contro l’euro, la Lega è in compagnia del M5S e Fratelli d’Italia, che ha visto crescere la percentuali di voti ottenuti un po’ dappertutto. Anche in Italia, soffia sempre più forte il vento antieuropeista.

         Mauro Ammirati         

venerdì 17 aprile 2015

Due diversi vincoli esterni

     Dovessimo compendiare in poche parole la situazione politica italiana di questi ultimi mesi, potremmo, semplicemente, scrivere: non si riesce a tenere uniti i partiti, figuriamoci le coalizioni. Non c’è forza politica, di questi tempi, che non abbia subito o che non sia a rischio di subire una scissione: nel Pd, il rapporto tra la componente di sinistra ed i cosiddetti renziani si è guastato da un pezzo, sono mesi che vivono da separati in casa ed è difficile prevedere fino a quando sarà possibile una coabitazione così litigiosa; dopo quella che diede vita al Ncd, Forza Italia potrebbe perdere un’altra componente, questa volta guidata da Raffaele Fitto, sempre più in rotta di collisione con Berlusconi; Flavio Tosi e la sua corrente hanno lasciato la Lega Nord e lo stesso Tosi si presenterà come candidato alla Presidenza della Regione Veneto contro il candidato del suo ex partito, Luca Zaia; la forza politica che doveva rappresentare il rinnovamento, il M5S, dall’inizio della legislatura parlamentare, ha perso per strada una buona parte dei suoi deputati e senatori; probabilmente, dimentico qualche altro fatto marginale, ma quanto appena ricordato dovrebbe bastare per capire che siamo tornati al multipolarismo che caratterizzava l’Italia prima del 1992, l’anno in cui i partiti storici crollarono o furono soggetti ad una mutazione genetica. Quel sistema era definito dai politologi «pluralismo polarizzato», ma viene ricordato con il nome di «consociativismo», che in realtà è un’altra cosa (il termine non era appropriato al nostro Paese, ma soprassediamo). Le elezioni politiche del maggio 1994 furono l’atto di nascita d’un nuovo sistema politico, fondato su due grandi coalizioni in competizione per contendersi il governo del Paese. Si pensava che l’Italia avesse ormai voltato pagina, che i piccoli partiti avrebbero avuto sempre meno spazio, che l’antagonismo tra le due grandi alleanze di centrodestra e centrosinistra avrebbe caratterizzato la nostra politica per il mezzo secolo successivo. È saltato tutto per aria. Oggi, le elezioni del 1994 sembrano appartenere all’era giurassica. Ciò che è importante capire è che la situazione attuale rispetto a quella antecedente il 1992 presenta un multipolarismo di tipo diverso. Contrariamente a trent’anni fa, infatti, non ci sono più il comunismo e, per reazione, l’anticomunismo a tenere, in qualche modo, unite le coalizioni. In quel mondo le ideologie erano un potente collante, al punto che un partito diviso in tante correnti come la Dc governò ininterrottamente mezzo secolo, quasi sempre con gli stessi alleati. Oggi, per garantire la tenuta di un’alleanza, si cerca di surrogare le ideologie con sistemi elettorali manipolativi, cioè attraverso congegni come il premio di maggioranza, l’elezione diretta del Sindaco, del Presidente della Regione… Ma, come abbiamo spiegato, più volte, l’ingegneria elettorale non può fare miracoli, può arginare lo sfaldamento del quadro politico, ma solo temporaneamente. È un tampone, non una cura. Un’altra differenza fondamentale rispetto all’altro sistema bipolare è la presenza oggi d’un vincolo esterno diverso da quello cui eravamo soggetti allora. A quei tempi il vincolo esterno era, come già detto, il comunismo, non potevamo cioè cambiare coalizione di governo senza correre il rischio di uscire dall’Alleanza atlantica e diventare un Paese filosovietico. Oggi il vincolo esterno è l’Unione europea, le cui regole hanno notevolmente diminuito le risorse a nostra disposizione. L’Italia ha ceduto la sovranità monetaria alla Bce, quella fiscale ed economica alla Commissione europea. Così che la politica italiana è ridotta ad agire in uno spazio angusto e con scarsi mezzi. Il che poteva e può solo accrescere la conflittualità nel Paese, tra i partiti e nei partiti. E a fronte di simili problemi, non c’è riforma elettorale o costituzionale che tenga.

         Mauro Ammirati       

mercoledì 4 marzo 2015

Non è questione di fiducia


         Disse una volta un fisico americano: ««Prendete i numeri e torturateli. Prima o poi confesseranno.» I numeri parlano, ci è stato insegnato, sono dati inconfutabili, incontrovertibili, fotografano la realtà. Non è così. Almeno, non sempre. I numeri, talvolta, sono come il pupazzo del ventriloquo. Muove la bocca, ma non è il pupazzo a parlare. Uno striminzito 0,1% del Pil relativo all’ultimo mese o trimestre, che diventa 0,4% o 0,6% «su base annua» io non lo considererei proprio un dato attendibile. Più o meno, è una pacca sulla spalla, un modo per dire: coraggio, se continui così, magari, tra qualche anno... Ma, dal momento che le aspettative in economia sono molto più importanti di quanto il profano immagini, è assolutamente necessario, in tempi di recessione, che prevalga una certa lettura o interpretazione delle percentuali pubblicate. La Bce, Matteo Renzi ed il ministro Padoan l’hanno detto chiaramente più volte: la ripresa arriverà se si diffonderà la fiducia tra gli investitori. Sbagliano, ma sono coerenti con la loro ferma opinione che la stessa ripresa debba essere trainata da investimenti privati. Il nostro governo ha strappato qualcosa dall’Ue in materia di investimenti pubblici, ma siamo alle briciole, anzi alla presa in giro. Più propaganda, che altro. Il dramma è che da nessuna recessione, figuriamoci da una sconvolgente come quella che stiamo vivendo, si esce a rimorchio degli investimenti privati. Per una ragione estremamente semplice: il settore privato è, come si dice, prociclico, cioè segue il ciclo economico. Solo il settore pubblico, com’è facile comprendere, può essere anticiclico. Prima di investire, l’imprenditore privato aspetta che l’economia si sia ripresa, mica si adopera perché si riprenda. È una verità elementare, che solo i governi dell’eurozona ignorano o fingono di ignorare. Sempre per infondere questa benedetta fiducia, la Bce, come sapete, ha dato inizio, tra squilli di trombe e rulli di tamburi, ad un’operazione per la quale non siamo ancora riusciti a trovare un’appropriata traduzione nella nostra lingua: quantitative easing. Nel nostro caso significa che l’istituto d’emissione spenderà 1.140 miliardi di euro per acquistare, principalmente, titoli di Stato dalle banche che li hanno in portafoglio. La speranza è che questa pioggia di liquidità spinga le banche a concedere prestiti più facilmente agli imprenditori. Speranza che andrà delusa, contrariamente a quanto affermano tanti economisti, politici e giornalisti. Costoro affermano che l’economia americana si sia ripresa proprio grazie al quantitative easing della Fed (la loro banca centrale). Non è vero (infondere fiducia d’accordo, sparare balle no), in realtà detta operazione negli States non ha portato alcun beneficio all’economia reale, cioè imprese e famiglie. Il loro Pil, nel 2014, è cresciuto del 2,4% perché ora raccolgono i frutti d’una politica di spesa a deficit che il governo Obama ha praticato per anni. In termini semplici, hanno fatto tanti investimenti pubblici, al punto che nel 2009 il rapporto deficit federale/Pil era al 10%. Per lo stesso parametro, i governi dell’eurozona, come presumo sappiate, non possono superare il 3%!, è stabilito dai trattati comunitari. Oltre tale soglia, se proviamo a spendere lo 0,1% in più, la Commissione europea ci mozza le mani. Purtroppo no, non è questione di fiducia. Ma di buon senso. I governi nordeuropei, guardiani dell’ortodossia, obiettano che una politica espansiva, cioè di investimenti pubblici, determinerebbe un incremento del rapporto debito/Pil. Il terrore del debito, in realtà, è solo un’altra stupida fissazione tipica dell’eurozona. Per caso, qualcuno di voi la mattina fa colazione con cappuccino e debito/Pil?

         Mauro Ammirati

martedì 13 gennaio 2015

Due sfide per l'Ue


         I recenti e tragici fatti avvenuti in Francia hanno riportato al centro del dibattito politico, in tutti i Paesi occidentali, l’emergenza terrorismo. Forse non è proprio corretto scrivere che l’Europa, come abbiamo letto e sentito, ha avuto il suo 11 settembre, se si pensa a ciò che avvenne a Madrid, alla stazione ferroviaria di Ochoa, nel 2004 o nella metropolitana di Londra, nel 2005. Ma un fatto è certo: il vecchio continente si scopre più vulnerabile di quanto immaginasse e, come accadde all’indomani dell’11 settembre americano, si torna a parlare di scontro di civiltà, del rapporto tra Occidente ed Islam e, soprattutto, d’immigrazione. Alla paura degli attentati si aggiunge quella della xenofobia, dell’ostilità crescente verso l’africano, l’asiatico e chiunque venga considerato estraneo alla nostra civiltà. Di qui, la preoccupazione dei principali governi europei che un sentimento diffuso d’avversione all’immigrato possa determinare un’avanzata elettorale di forze politiche reputate, dagli stessi governi, estremiste o populiste , comunque dichiaratamente e fermamente contrarie al processo d’integrazione europea, come la Lega Nord ed il Front National, che intanto hanno già chiesto a gran voce di tornare a controllare le frontiere. Le stragi di Parigi, i cui autori avevano il passaporto francese, hanno spinto, in un primo momento, i ministri dell’Interno di Spagna e Francia a porre la questione della modifica o della sospensione del Trattato di Schengen, che stabilisce il principio di libera circolazione dei cittadini comunitari entro i confini dell’Ue. Ipotesi che è stata respinta immediatamente dal governo italiano, per il quale l’adozione di simili misure sarebbe «un passo indietro» ed «un regalo ai populisti». Tanto può bastare per capire che la minaccia terroristica è una grave insidia alla tenuta della stessa Ue. Ma un’altra prova difficile attende le istituzioni comunitarie. Il prossimo 25 gennaio, in Grecia, si terranno le elezioni politiche. I sondaggi danno favorito Syriza, un partito di sinistra a favore della permanenza del Paese nel gruppo della moneta unica, ma contrario al proseguimento della politica d’austerità, imposta dalla cosiddetta Troika (Fmi, Bce e Commissione europea). Il punto centrale del programma di Syriza è la ristrutturazione del debito, vale a dire la sua rinegoziazione, una proposta che, comprensibilmente, desta una certa inquietudine nei creditori, tra i quali ci sono il Fondo di stabilità europeo, il Fmi, la Bce, l’Esm, banche tedesche, francesi ed italiane. Il leader del partito, Alexis Tsipras, ha più volte dichiarato che la sua volontà è quella di tenere la Grecia nell’eurozona (per inciso, come il 75% dei suoi connazionali), ma, in economia, la sola volontà non è sufficiente a conseguire un obiettivo. Ristrutturare un debito significa sedersi a tavolino con i creditori, trattare per chiedere la remissione d’una parte o una dilazione o chissà cos’altro e trovare un accordo. Tsipras chiede di rinegoziare il 70%, che, come è facile capire, non è proprio poca cosa. Nel caso che l’accordo non venisse trovato, alla Grecia resterebbe solo di tornare a stampare il dracma. Una situazione alla quale, sostengono molti economisti, l’euro non potrebbe sopravvivere.

         Mauro Ammirati