lunedì 30 giugno 2008

Onore alla Spagna, però...


Onore alla Spagna, ha meritato innegabilmente il titolo di Campione europeo, ha espresso il gioco più convincente, ha dimostrato di essere almeno una spanna al di sopra di tutti gli avversari. Complimenti ad Aragones, per il suo coraggio soprattutto, perché ce ne voleva e molto per lasciare a casa uno come Raul e presentarsi alla massima competizione calcistica continentale per nazioni con una squadra di ragazzini. Riconosciuti, con estrema franchezza, i meriti dei vincitori, è bene aggiungere che certe considerazioni sono inconfutabili se riferite al contesto attuale, ma un’analisi più approfondita ci costringe a dire cose sgradevoli. Per essere più precisi: la Spagna ha saputo, a tratti anche divertire, ma sostenere che il suo gioco abbia fatto impazzire forse è troppo. Provate a confrontare Torres e compagni con la Francia di Platini e l’Olanda di Van Basten - rispettivamente Campioni d’Europa nel 1984 e 1988 - e capirete subito che il calcio negli ultimi ventiquattro anni ha conosciuto un’involuzione qualitativa preoccupante. Si può affermare che la Spagna attuale è un’ottima squadra, ma nella consapevolezza che oggi quel che passa il convento non è granché. Se, come si dice, nella notte tutte le vacche sono grigie, non occorre molto per distinguersi. Bisognerebbe – lo dico da anni – riflettere sullo stato di salute del nostro football, le squadre che ai giorni nostri definiamo divertenti, trent’anni fa le avremmo forse definite noiose. All’indomani della finale degli Europei del 1996, vinti dalla Germania, un quotidiano italiano uscì con il titolo: “Il calcio è malato, curiamolo”. Oggi, il trionfo della rappresentativa iberica è stato commentato con titoli come: “Ha vinto il calcio”. Viene da pensare che la differenza tra il presente e dodici anni fa è che ci siamo talmente abituati ad un football mediocre che abbiamo dimenticato cos’è (e cos’è stato) davvero il bel calcio.
Un altro aspetto della situazione da prendere in considerazione ci riguarda da molto vicino. La Spagna ha vinto con tutti gli avversari che ha incontrato, tranne uno: l’Italia. Non solo. Se in semifinale le “furie rosse” hanno umiliato la Russia ed in finale hanno steso al tappeto la Germania molto prima del novantesimo, con i nostri non sono riusciti a segnare un solo gol in centoventi minuti. Aggiungiamo che le più grandi parate Casillas le ha fatte contro gli azzurri e che nello stesso incontro l’attacco spagnolo di certo non ha fatto soffrire particolarmente la nostra difesa. Qualcuno – e dubito che abbia torto - ora sostiene che la vera finale sia stata Spagna-Italia. E l’accoglienza riservata a Pirlo e compagni al loro rientro in Italia induce a ritenere che siano in molto ad essere del medesimo parere. Eppure, il signor Roberto Donadoni è stato messo cortesemente alla porta, manco gli azzurri fossero stati eliminati con una prestazione da far arrossire. Non è stata data una seconda possibilità al Ct dell’unica nazionale con cui i Campioni d’Europa abbiano davvero rischiato di perdere. Nulla da eccepire sulle qualità e le capacità di Marcello Lippi, al quale si deve solo gratitudine. Con lui ci auguriamo di tornare a vincere. Ma resta l’amarezza, per due ragioni. La prima è il trattamento riservato a Roberto Donadoni, un giovane tecnico su cui forse valeva la pena investire, lasciandogli portare a termine il suo lavoro. La seconda è che la scelta della Federazione è emblematica, riflette un’attitudine assai diffusa nel nostro Paese: nel calcio, come in tutti i settori (economia compresa), l’Italia è un Paese che non perdona nulla e concede poche opportunità ai giovani, preferendo aggrapparsi agli uomini del passato. Avere meno di sessant’anni nell’Italia di oggi è quasi una disgrazia.
Mauro Ammirati

venerdì 27 giugno 2008

Le macerie del dialogo


C’era da aspettarselo. Non poteva durare, infatti non è durato. Il dialogo tra Veltroni e Berlusconi è stato accantonato non appena la politica italiana ha toccato uno dei suoi nervi scoperti: la cosiddetta questione giustizia. Il decreto sulla sicurezza, la sospensione dei processi per i reati meno gravi, quindi il proposito dichiarato dal governo di tutelare con uno «scudo» i rappresentanti delle prime quattro cariche dello Stato dalle indagini giudiziarie durante l’esercizio del loro mandato sono stati più che sufficienti per disfare in pochi giorni la tela che Veltroni aveva pazientemente tessuto sin da quando aveva preso le redini del neonato Partito Democratico. Punto ed a capo, si torna alla conflittualità ad oltranza ed all’incomunicabilità che avevano caratterizzato la politica nazionale dal 1994 agli inizi di quest’anno. Le elezioni politiche del 2008 ed i primi mesi della nuova legislatura parlamentare avevano destato la speranza (o il timore, punti di vista) che si fosse ad una svolta nei rapporti tra centrodestra e centrosinistra. D’altra parte c’erano tutte le condizioni per ritenere che la politica italiana vivesse sotto un’altra temperie: ambedue i poli avevano rinunciato ad allearsi con le ali estreme del rispettivo schieramento, il più grande partito del centrosinistra aveva scelto come propria guida il kennediano Veltroni e Berlusconi aveva concesso un’apertura di credito al candidato antagonista che sembrava preludere ad una nuova stagione. Invece, oggi ci tocca constatare che Pdl e Pd scelgono lo scontro, in luogo del confronto. Ma – ed è questo il punto – sarebbe un errore pensare che il ritorno al muro contro muro sia dovuto alle misure che il governo ha preso ed a quelle che intende prendere in materia di giustizia (per quanto detta questione sia importante, parliamo pur sempre del principio della separazione dei poteri dello Stato). La linea del governo sulle toghe ha fatto solo da detonatore ad una situazione che era già esplosiva all’interno del Pd. La fiducia accordata da Veltroni a Berlusconi nei mesi passati ha suscitato più malumori e mugugni che consensi nel partito nato dalla fusione tra Ds e Margherita. Per buona parte del Pd il centrodestra italiano restava e resta un’anomalia nel novero delle democrazie occidentali, per molteplici ragioni: il conflitto d’interessi che Berlusconi non ha mai voluto risolvere, la convinzione che il leader del Pdl abbia scelto di far politica in prima persona per evitare di farsi processare in Tribunale e per difendere le sue aziende che operano nel settore televisivo da una nuova legge antitrust, infine la convinzione che Pdl e Lega in realtà rappresentino una destra populista e demagoga, più sudamericana che europea. Tenere a bada questa parte (cospicua) del suo partito per Veltroni è stato sempre più difficile dopo la disfatta nelle urne del 14 aprile e la capitolazione alle elezioni comunali di Roma. Quando alle due sconfitte predette si è aggiunto il “cappotto” alle elezioni amministrative in Sicilia, il segretario del Pd ha capito che la linea del dialogo avrebbe portato il suo partito sull’orlo d’una scissione o ad un travaso di voti verso l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, acerrimo avversario del Cavaliere. In altri termini, Veltroni ora deve seguire il suo partito, il contrario non è più possibile. Con o senza decreti e disegni di legge sulla sicurezza, sospensione dei processi e «scudo» contro le inchieste della magistratura, alla rottura tra centrodestra e centrosinistra saremmo arrivati comunque. Troppa radicata la reciproca diffidenza tra i due poli, troppo scarsa la fiducia vicendevole perché questo dialogo reggesse ancora di più. Non poteva durare, infatti non è durato.
Mauro Ammirati

giovedì 26 giugno 2008

A Villa Medici Cinema d'Autore



Da qualche settimana a Roma si è conclusa la rassegna “Le Vie del Cinema Da Cannes a Roma”. Tra i vari eventi sicuramente il più interessante è stato il dibattito “Presente e Futuro del Cinema Italiano d’Autore” che ha visto la partecipazione degli addetti ai lavori in campo cinematografico ed i protagonisti della kermesse francese quali: Paolo Sorrentino, Riccardo Munzi e Marco Tullio Giordana, rispettivamente registi de “Il Divo”, “Il resto della notte”, “Sangue pazzo” e Domenico Procacci, il lungimirante produttore di “Gomorra”.
Questi personaggi non hanno solo parlato dei successi che i film italiani, in particolare “Gomorra” ed “Il Divo” hanno avuto a Cannes, vincendo il premio della giuria, ma si sono anche confrontati riguardo la rinascita d’un nuovo linguaggio cinematografico, che resta legato alla tradizione del cinema realista italiano ma, nello stesso tempo, trova un modo nuovo, un punto di vista originale e moderno di raccontare l’Italia, tutti e quattro i film, infatti, affrontano tematiche legate alle questioni socio-politiche italiane con i suoi protagonisti passati e presenti.
Durante l’incontro si è discusso di quanto importanti siano i finanziamenti, sia quelli statali, che si spera possano dare più sostegno in seguito al ripristino della taxcredit, sia quelli privati, legati alla figura del produttore societario e indipendente, figura essenziale senza la quale non potrebbero esistere molti dei film che oggi vediamo. Finanziamenti necessari per produrre delle belle opere che ci facciano conoscere oltralpe, che mettano a tacere tutti coloro che dicono che il cinema italiano è morto o che, trasportati dai facili entusiasmi, si esaltano per i premi di Cannes ma poi rinnegano l’elogio, se ad altri festival i film italiani fanno solo capolino. Sostentamenti e finanziamenti che però a nulla servono se non si crea la giusta sinergia tra autori e produttori e se non ci sono leggi che incentivino o tutelino chi fa parte di questo mondo, affinché non soccomba sotto le leggi del mercato o dei sistemi oligopolistici.
Quello che questi esperti autori e produttori, a mio parere hanno voluto dire, è che il cinema italiano va sostenuto sempre e comunque a di là delle vittorie e delle sconfitte, perché è solo con la costanza, l’impegno ed il rischio di cimentarsi anche in film meno commerciali, che si riesce a costruire una salda tradizione cinematografica. Il cinema italiano non è solo commedia, Garrone e Sorrentino lo hanno dimostrato, mettendo in scena una Napoli che, se dalle cronache ci appare brutta, sporca e cattiva, in realtà, continua a partorire talenti e fare da sfondo a capolavori; dico questo perché Sorrentino è di origini napoletane così come Toni Servillo, attore di entrambi i film vincitori a Cannes e perché Gomorra è interamente ambientato a Casal di Principe, uno degli habitat della camorra. Questi film, a quanto pare, non sono piaciuti sola alla critica francese ma anche al pubblico italiano visto che fino ad oggi hanno incassato nelle sale più di 8 milioni di euro. Non siamo mica gli americani, come recita il titolo di una vecchia canzone di Vasco, ma dobbiamo far bene quello che sappiamo fare da italiani e se ci manca un cinema spettacolare fatto di esplosioni e mega effetti speciali questo non significa che non sappiamo fare cinema. Di quello critico-espressivo non possiamo non sentici padroni. Il nostro cinema è quindi ancora vivo, tanto da trasformare in fascinazione e farci appassionare anche le brutture del nostro Paese... e ditemi se questa non è arte o magia!
L’auspicio, alla fine di questo incontro, è che il cinema italiano abbia un grande futuro, che vi sia una presa di coscienza, sopratutto da parte dello Stato e dei politici, di quanto importante sia la cultura cinematografica, di quanto importante sia un educazione alla visone che non è fatta solo di Grandi Fratelli, ipnotizzatori di menti.
Marta Ronzone

mercoledì 18 giugno 2008

Ma ora basta con questa rivalità



Dunque, l’abbiamo sfangata, l’Italia riesce ad accedere ai quarti di finale del Campionato europeo, sconfiggendo per 2-0 nei novanta minuti regolamentari i cugini d’Oltralpe – non accadeva dal 1978, Mundial argentino, ero un bambino ma già avvezzo a patire per la nostra Nazionale di calcio (in Italia l’amore per il colore azzurro lo succhi con il latte materno). Grazie anche alla lealtà ed alla professionalità della rappresentativa olandese (gli Oranges potevano disinteressarsi alla partita con la Romania e, come suol dirsi, “tirare il piede indietro” nei contrasti, lasciando vincere l’avversario, ma hanno fatto esemplarmente il loro dovere), ora ci apprestiamo ad affrontare la fortissima Spagna, dopo aver ritrovato entusiasmo ed orgoglio. Tutto bene, siamo felicissimi. Anzi, no. Una cosa ci sarebbe da dire, nella consapevolezza che a molti miei connazionali non farà affatto piacere (forse qualcuno mi manderà anche a quel paese). Perché, ecco, abbiamo ottenuto un risultato importante e, per come eravamo messi, quasi miracoloso, ma ora… Ora sarebbe bene farla finita, una volta per tutte, con questa rivalità con i francesi. Nei giorni immediatamente precedenti l’inizio degli Europei ho sentito troppi parenti, amici e conoscenti dire: «Sono disposto a scambiare la qualificazione con una vittoria con la Francia.» No, cari compatrioti, così non va bene. Questa rivalità non fa onore a noi né a loro. Come disse, tempo fa, l’allora Presidente francese Chirac: «Italia e Francia sono sorelle latine.» Può capitare tra parenti stretti che vi siano incomprensioni, momenti difficili, litigi… ma l’antagonismo aspro, l’avversione e l’antipatia sono un’altra cosa. Personalmente non riesco a provare acredine per la “sorella latina”, perché essere latini è bello ed a Parigi come a Roma un latino – fosse pure sudamericano - si sente a casa sua. D’accordo, sui vini, la moda e la cucina ci pestiamo i piedi, ma può succedere solo – appunto – a noi latini, cioè a gente che ha i gusti raffinati, ama le frivolezze che allietano la vita e la buona tavola. Dicono che, in realtà, a mettere zizzania nella nostra parentela sia stato il ct francese Domenech. Ma via, siamo seri. Se basta qualche frase pronunciata da un allenatore per suscitare antipatia per un intero popolo, cosa dovremmo fare con la Germania, nella quale viene mandato in onda, in queste settimane, uno spot televisivo pubblicitario in cui l’italiano viene rappresentato come truffatore, inaffidabile e, sotto sotto, anche mafioso? Dovremmo forse consegnare al governo di Berlino la dichiarazione di guerra? Quanto alla grandeur, di cui i transalpini sono imbevuti e che irrita un po’ noi italiani, direi che, tutto sommato, è un peccatuccio veniale, nessuno è perfetto. Per i francesi, in fondo, è un modo come un altro di dimostrare che hanno rispetto di se stessi e, soprattutto, della loro storia. Una caratteristica che, però, non impedisce loro di rispettare le patrie altrui. Pochi mesi dopo che li avevamo sconfitti in finale all’ultimo mondiale, con tutte le polemiche che erano seguite alla testata di Zidane a Materazzi, i francesi ci accolsero a Parigi con molta civiltà. Noi ricambiammo nell’incontro successivo, a Milano, fischiando la Marsigliese. Vorrei soltanto che fatti così esecrabili non avessero più a succedere. Perché è bello sapere di appartenere al popolo di Dante, Petrarca e Manzoni. Ma è giusto anche inorgoglirsi di essere latini.
Mauro Ammirati

venerdì 13 giugno 2008

Il dibattito nel Pd

Dalle “notti bianche”, che erano il suo fiore all’occhiello quando era Sindaco di Roma, alla “notte dei lunghi coltelli” o, come direbbe il grande Eduardo, alla “nuttata”, per indicare un momento particolarmente difficile. Era inevitabile che le due sconfitte, quella del 14 aprile e quella delle elezioni municipali della Capitale, portassero ad una resa dei conti in casa Pd, com’era altrettanto inevitabile che le accuse più pesanti venissero rivolte al leader, Walter Veltroni. È così da sempre e dovunque, è una legge della politica che non risparmia nessuno. Così ora nello stesso partito c’è chi chiede un congresso straordinario, mentre si discute e ci si divide su un’altra importante questione: il gruppo in cui confluire tra un anno nel Parlamento europeo. Due grandi problemi per Veltroni, al punto che il medesimo leader in un suo intervento, di qualche giorno fa, ha parlato esplicitamente, allo scopo di scongiurarlo, di rischio di «scissione». Andiamo con ordine.
Il congresso straordinario non avrebbe alcun senso se il fine perseguito non fosse quello di rimettere in discussione la leadership, cioè la linea da questa adottata. Non sono pochi nel Pd a ritenere che sia stato un grave errore la decisione di «correre da soli», ossia di rinunciare all’alleanza con l’estrema sinistra. E rilevante è anche il numero di coloro che rimproverano a Veltroni di aver scelto la strada del dialogo con Berlusconi, in luogo di un’opposizione dura ed intransigente, la strategia scelta da Di Pietro, il quale potrebbe trarre enormi benefici in termini elettorali dalla nuova fase di rapporti tra Pd e centrodestra. Qui occorre soffermarsi, perché talune accuse verso l’ex Sindaco di Roma, sono probabilmente ingenerose. Una volta ottenuta l’investitura a segretario del neonato partito, Veltroni non poté fare altro che constatare il fallimento del disegno politico di Prodi e dei suoi seguaci. «Sbagliare è umano, perseverare è diabolico», dice un vecchio adagio. Perseverare nell’alleanza con la sinistra antagonista, dopo due esperienze di governo conclusesi come sappiamo, sarebbe stato semplicemente «diabolico». Forse, se il 14 aprile ai voti della sinistra verde e neocomunista si fossero aggiunti quelli del Pd, oggi Berlusconi non sarebbe Capo di governo, ma probabilmente l’esecutivo starebbe discutendo su come trovare un accordo su termovalorizzatori, centrali nucleari, legge Biagi… ed altre questioni sulle quali il governo Prodi s’impantanò senza riuscire in alcun modo a venirne fuori.
La scelta del gruppo cui aderire nel Parlamento di Strasburgo è questione terribilmente seria. Veltroni l’ha resa ancora più complicata accettando candidature di alcuni radicali nelle liste del suo partito. In Europa il bipolarismo è tra socialisti e popolari (o se preferite conservatori), non esiste nelle grandi democrazie occidentali, fatta eccezione per gli Stati Uniti, una grande forza politica di massa come il Pd, che non è socialista ma le cui radici non sono neppure nel popolarismo. Problema spinoso, ma anche qui puntare l’indice sulla leadership serve a poco. Nel caso qualcuno l’abbia dimenticato, milioni di militanti e simpatizzanti, mesi fa, parteciparono alle elezioni primarie per scegliere il gruppo dirigente, stilando l’atto di nascita di questo nuovo soggetto politico. Se un progetto così ambizioso rischia di essere accantonato dopo la prima sconfitta o perché non si quali compagni di strada scegliere in Europa, allora significa che i suoi stessi fondatori nel Pd non hanno mai creduto.
Mauro Ammirati

giovedì 5 giugno 2008

Un po' meno yankee


La speranza di molti filoamericani italiani, ora, è che il futuro Presidente degli States si chiami Barak Obama. Non vivono un momento felice gli amici degli States in Italia, l’antiamericanismo in Europa non è mai stato così diffuso e palpabile come oggi – è doloroso scriverlo, ma serve a poco nascondersi la verità – e, contrariamente a quanto molti credono, la guerra in Irak può spiegare solo fino ad un certo punto il fenomeno in questione. Il conflitto armato in Medio Oriente per rovesciare il regime di Saddam, semmai, ha solo alimentato un sentimento che su questa sponda dell’Atlantico c’era già da tempo, l’avversione agli yankees (un termine che dalle nostre parti non è proprio un complimento) era già profondamente radicata da noi quando i marines entrarono a Bagdad. Credo sia molto difficile spiegare ad un cittadino statunitense l’antiamericanismo del Vecchio continente, ma è necessario perché egli capisca le ragioni dello schieramento che a Roma, a Parigi, a Berlino… ora sostiene Obama e, particolarmente, con quanta attenzione verranno seguite anche da noi le imminenti elezioni presidenziali. La causa di tante tensioni e, soprattutto, incomprensioni che caratterizzano da decenni le relazioni tra il popolo statunitense e quelli europei – e talvolta tra i rispettivi governi - è d’ordine culturale, qualcosa che attiene alla scala di valori, alla concezione del mondo e dei rapporti tra gli uomini, alla Weltanschauung, come dicono tanti nostri intellettuali. Agli occhi d’un europeo gli americani sono eccessivamente individualisti, in ultima analisi egoisti, interessati unicamente all’arricchimento personale, alla competizione, al perseguimento del successo, indifferenti ai bisogni materiali e morali dei propri simili, gente assai poco incline a praticare la solidarietà. L’opinione dominante in Europa è che è inaccettabile che lo Stato neghi ad un cittadino l’assistenza sanitaria, che permetta di vendere armi come fossero un bene di consumo e che condanni a morte uomini e donne che non hanno sufficiente denaro per pagarsi un buon avvocato. E se tutto ciò avviene in America si ritiene comunemente sia dovuto al fatto che il sistema politico-economico americano rifletta e sia diretta espressione della cultura del suo popolo, estremamente individualista, fino ad essere aggressiva. La guerra in Vietnam, ieri ed in Irak, oggi, sono considerate semplicemente connaturali ad uno Stato intrinsecamente aggressivo. Perciò, in Italia, può bastare che si provi ad ampliare la base Nato di Vicenza perché il governo rischi di cadere e che decina di migliaia di persone si mobilitino al solito grido, oggi come quarant’anni fa: yankee, go home! Può capitare, altresì, che dalla Grecia a Stoccolma si accusi l’America di negare pari opportunità agli afroamericani, fingendo d’ignorare le origini di Condoleeza Rice e Colin Powell (solo per fare due nomi). E di certo, non ha aiutato ad abbattere questi luoghi comuni la presidenza a Washington, negli ultimi otto anni, d’un texano che cita la Bibbia ad ogni occasione, è figlio di petrolieri ed in politica non si spinge oltre il “conservatorismo compassionevole”. Bush jr. è visto come il tipico wasp, agiato ed ipocrita, che ostenta la sua religiosità, ma si guarda bene dal praticare le virtù evangeliche (qui nessuno ha dimenticato che da Governatore negò la grazia ad una condannata alla pena capitale). Obama, invece, è un nero, a ragione o a torto è ritenuto un figlio dell’altra America, quella dei ghetti e dei diseredati, pertanto, quantunque il suo programma sia fumoso, molti europei ritengono che con lui alla Casa Bianca le due sponde dell’oceano si riavvicinerebbero e le due costole dell’Occidente tornerebbero almeno a parlarsi, superando l’incomunicabilità degli ultimi anni. Difficile dire fino a che punto sia condivisibile tale congettura, ma, di certo, la nomination del giovane candidato democratico ha accresciuto enormemente l’interesse dell’opinione pubblica europea verso queste elezioni presidenziali.
Mauro Ammirati

mercoledì 4 giugno 2008

Un tema "insolito"


«Il 2 giugno? È la festa della parata delle Forze Armate», «veramente in questo momento non ricordo…», «mi faccia pensare… il 2 giugno è la festa della liberazione…», «cosa accadde il 2 giugno 1946? Non saprei…» Queste sono alcune delle risposte che un giornalista ha raccolto chiedendo alle numerose persone ieri presenti a Roma alla Festa della Repubblica (era la Festa della Repubblica, sveliamo l’arcano) se sapessero cosa si stesse celebrando. Di quel referendum in cui i nostri genitori, nonni e bisnonni scelsero la forma di Stato da dare al loro Paese moltissimi italiani (chissà, forse la maggioranza) sanno poco o niente. Non che io ci prenda gusto ad affliggere coloro che, come, si ostinano ad amare l’Italia, ma devo aggiungere che parlando con studenti universitari spesso mi è capitato di ascoltare frasi come questa: «Garibaldi? Sì, ne ho sentito parlare, a scuola… qualche volta…» Non c’è affatto bisogno che la Lega si affanni a screditare il nostro Risorgimento, ci hanno già pensato tanti italiani da sé, con la loro indifferenza. Non c’è bisogno che si vada a parlar male dell’Eroe dei due mondi a chi ignora che egli sia mai esistito o cos’abbia fatto di storicamente importante. Ma c’è dell’altro. Non molto tempo fa, gli inviati d’una trasmissione televisiva («Le iene», se non ricordo male, ma potrei anche sbagliarmi) si misero con una telecamera ed un microfono, una domenica mattina, davanti una chiesa cattolica. Terminata la funzione, cominciarono a rivolgere ai praticanti (tali si definivano gli intervistati) domande come: «Chi sono i quattro Evangelisti?» e «Conosce i Dieci comandamenti? Può dirmeli in ordine?» Pochissimi diedero le risposte giuste, i più tirarono ad indovinare (a proposito: contrariamente a quanto pensano tanti praticanti, San Paolo, Apostolo delle genti, non era uno dei Dodici Apostoli). Notoriamente gli italiani sono un popolo che legge poco. Quel “poco” fa riferimento ad una media ponderata, il che significa che un numero straordinariamente elevato di italiani non legge affatto. Secondo alcune indagini statistiche recenti, nel nostro Paese, molti manager e dirigenti d’azienda, persone il cui grado d’istruzione si ritiene sia medio-alto, non legge più di tre libri l’anno. Il dato più importante – vengo al punto – è emerso da un’altra indagine statistica: le nazioni in cui si legge di più, guarda caso, sono le stesse che hanno il più alto tasso di crescita economica. Non sono abituato a prendere numeri e tabelle come fossero oracoli, ma forse è il caso di chiedersi se un Pil così basso come il nostro non sia dovuto anche ad un certa indolenza intellettuale. E, dal momento che si parla tutti i santi giorni di riforma della scuola, sarebbe forse anche opportuno domandarsi se questa scarsa propensione alla lettura non possa essere combattuta con altri metodi e programmi didattici. Magari gioverebbe alla nostra economia ed aiuterebbe – hai visto mai! - a creare qualche posto di lavoro. Nell’ultima campagna elettorale Ferrara ruppe gli schemi, si parlava sempre dei “soliti” temi, così il direttore del Foglio, ad un certo punto, pose un tema “insolito”: sai che c’è, disse, parliamo d’interruzione volontaria della gravidanza. Allo stesso modo, è auspicabile che oggi qualcuno costringa le varie forze politiche ad includere un altro tema insolito nel dibattito di tutti i giorni. Sarebbe bello se uno dicesse: sai che c’è, parliamo di come favorire la crescita economica leggendo di più.
Mauro Ammirati