C’era da aspettarselo. Non poteva durare, infatti non è durato. Il dialogo tra Veltroni e Berlusconi è stato accantonato non appena la politica italiana ha toccato uno dei suoi nervi scoperti: la cosiddetta questione giustizia. Il decreto sulla sicurezza, la sospensione dei processi per i reati meno gravi, quindi il proposito dichiarato dal governo di tutelare con uno «scudo» i rappresentanti delle prime quattro cariche dello Stato dalle indagini giudiziarie durante l’esercizio del loro mandato sono stati più che sufficienti per disfare in pochi giorni la tela che Veltroni aveva pazientemente tessuto sin da quando aveva preso le redini del neonato Partito Democratico. Punto ed a capo, si torna alla conflittualità ad oltranza ed all’incomunicabilità che avevano caratterizzato la politica nazionale dal 1994 agli inizi di quest’anno. Le elezioni politiche del 2008 ed i primi mesi della nuova legislatura parlamentare avevano destato la speranza (o il timore, punti di vista) che si fosse ad una svolta nei rapporti tra centrodestra e centrosinistra. D’altra parte c’erano tutte le condizioni per ritenere che la politica italiana vivesse sotto un’altra temperie: ambedue i poli avevano rinunciato ad allearsi con le ali estreme del rispettivo schieramento, il più grande partito del centrosinistra aveva scelto come propria guida il kennediano Veltroni e Berlusconi aveva concesso un’apertura di credito al candidato antagonista che sembrava preludere ad una nuova stagione. Invece, oggi ci tocca constatare che Pdl e Pd scelgono lo scontro, in luogo del confronto. Ma – ed è questo il punto – sarebbe un errore pensare che il ritorno al muro contro muro sia dovuto alle misure che il governo ha preso ed a quelle che intende prendere in materia di giustizia (per quanto detta questione sia importante, parliamo pur sempre del principio della separazione dei poteri dello Stato). La linea del governo sulle toghe ha fatto solo da detonatore ad una situazione che era già esplosiva all’interno del Pd. La fiducia accordata da Veltroni a Berlusconi nei mesi passati ha suscitato più malumori e mugugni che consensi nel partito nato dalla fusione tra Ds e Margherita. Per buona parte del Pd il centrodestra italiano restava e resta un’anomalia nel novero delle democrazie occidentali, per molteplici ragioni: il conflitto d’interessi che Berlusconi non ha mai voluto risolvere, la convinzione che il leader del Pdl abbia scelto di far politica in prima persona per evitare di farsi processare in Tribunale e per difendere le sue aziende che operano nel settore televisivo da una nuova legge antitrust, infine la convinzione che Pdl e Lega in realtà rappresentino una destra populista e demagoga, più sudamericana che europea. Tenere a bada questa parte (cospicua) del suo partito per Veltroni è stato sempre più difficile dopo la disfatta nelle urne del 14 aprile e la capitolazione alle elezioni comunali di Roma. Quando alle due sconfitte predette si è aggiunto il “cappotto” alle elezioni amministrative in Sicilia, il segretario del Pd ha capito che la linea del dialogo avrebbe portato il suo partito sull’orlo d’una scissione o ad un travaso di voti verso l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, acerrimo avversario del Cavaliere. In altri termini, Veltroni ora deve seguire il suo partito, il contrario non è più possibile. Con o senza decreti e disegni di legge sulla sicurezza, sospensione dei processi e «scudo» contro le inchieste della magistratura, alla rottura tra centrodestra e centrosinistra saremmo arrivati comunque. Troppa radicata la reciproca diffidenza tra i due poli, troppo scarsa la fiducia vicendevole perché questo dialogo reggesse ancora di più. Non poteva durare, infatti non è durato.
Mauro Ammirati
Mauro Ammirati
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