La speranza di molti filoamericani italiani, ora, è che il futuro Presidente degli States si chiami Barak Obama. Non vivono un momento felice gli amici degli States in Italia, l’antiamericanismo in Europa non è mai stato così diffuso e palpabile come oggi – è doloroso scriverlo, ma serve a poco nascondersi la verità – e, contrariamente a quanto molti credono, la guerra in Irak può spiegare solo fino ad un certo punto il fenomeno in questione. Il conflitto armato in Medio Oriente per rovesciare il regime di Saddam, semmai, ha solo alimentato un sentimento che su questa sponda dell’Atlantico c’era già da tempo, l’avversione agli yankees (un termine che dalle nostre parti non è proprio un complimento) era già profondamente radicata da noi quando i marines entrarono a Bagdad. Credo sia molto difficile spiegare ad un cittadino statunitense l’antiamericanismo del Vecchio continente, ma è necessario perché egli capisca le ragioni dello schieramento che a Roma, a Parigi, a Berlino… ora sostiene Obama e, particolarmente, con quanta attenzione verranno seguite anche da noi le imminenti elezioni presidenziali. La causa di tante tensioni e, soprattutto, incomprensioni che caratterizzano da decenni le relazioni tra il popolo statunitense e quelli europei – e talvolta tra i rispettivi governi - è d’ordine culturale, qualcosa che attiene alla scala di valori, alla concezione del mondo e dei rapporti tra gli uomini, alla Weltanschauung, come dicono tanti nostri intellettuali. Agli occhi d’un europeo gli americani sono eccessivamente individualisti, in ultima analisi egoisti, interessati unicamente all’arricchimento personale, alla competizione, al perseguimento del successo, indifferenti ai bisogni materiali e morali dei propri simili, gente assai poco incline a praticare la solidarietà. L’opinione dominante in Europa è che è inaccettabile che lo Stato neghi ad un cittadino l’assistenza sanitaria, che permetta di vendere armi come fossero un bene di consumo e che condanni a morte uomini e donne che non hanno sufficiente denaro per pagarsi un buon avvocato. E se tutto ciò avviene in America si ritiene comunemente sia dovuto al fatto che il sistema politico-economico americano rifletta e sia diretta espressione della cultura del suo popolo, estremamente individualista, fino ad essere aggressiva. La guerra in Vietnam, ieri ed in Irak, oggi, sono considerate semplicemente connaturali ad uno Stato intrinsecamente aggressivo. Perciò, in Italia, può bastare che si provi ad ampliare la base Nato di Vicenza perché il governo rischi di cadere e che decina di migliaia di persone si mobilitino al solito grido, oggi come quarant’anni fa: yankee, go home! Può capitare, altresì, che dalla Grecia a Stoccolma si accusi l’America di negare pari opportunità agli afroamericani, fingendo d’ignorare le origini di Condoleeza Rice e Colin Powell (solo per fare due nomi). E di certo, non ha aiutato ad abbattere questi luoghi comuni la presidenza a Washington, negli ultimi otto anni, d’un texano che cita la Bibbia ad ogni occasione, è figlio di petrolieri ed in politica non si spinge oltre il “conservatorismo compassionevole”. Bush jr. è visto come il tipico wasp, agiato ed ipocrita, che ostenta la sua religiosità, ma si guarda bene dal praticare le virtù evangeliche (qui nessuno ha dimenticato che da Governatore negò la grazia ad una condannata alla pena capitale). Obama, invece, è un nero, a ragione o a torto è ritenuto un figlio dell’altra America, quella dei ghetti e dei diseredati, pertanto, quantunque il suo programma sia fumoso, molti europei ritengono che con lui alla Casa Bianca le due sponde dell’oceano si riavvicinerebbero e le due costole dell’Occidente tornerebbero almeno a parlarsi, superando l’incomunicabilità degli ultimi anni. Difficile dire fino a che punto sia condivisibile tale congettura, ma, di certo, la nomination del giovane candidato democratico ha accresciuto enormemente l’interesse dell’opinione pubblica europea verso queste elezioni presidenziali.
Mauro Ammirati
Mauro Ammirati
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