giovedì 20 novembre 2014

Il fattore Salvini.


         Una premessa, innanzitutto: non vado, affatto, pazzo per i sondaggi, il più delle volte mi infastidiscono, per ragioni molto semplici. In primo luogo, perché in democrazia contano i voti, non le semplici ricerche d’opinione. In secondo luogo, perché, in passato, in diverse circostanze, i sondaggisti hanno preso cantonate madornali, costringendo anche qualche quotidiano a tornare in stampa per rifare la prima pagina. Infine, perché, ai giorni nostri, gli uomini politici, da noi come altrove, non prendono più alcuna decisione se prima non hanno il conforto d’un sondaggio. Berlusconi, per menzionarne uno, cambia opinione continuamente sulla base degli spostamenti delle percentuali risultanti da tali ricerche (l’ultimo dietrofront è quello sulle coppie di fatto e ius soli), prendendo esempio da un uomo politico di tanti anni fa, che diceva: «Sono il loro capo, quindi li seguo.» Il guaio è che proprio perché i leaders hanno nella massima considerazione i sondaggi, almeno uno sguardo a quei numeri dobbiamo darlo anche noi per poter analizzare i fatti politici. Chiarito questo punto, sarà facile al lettore comprendere perché oggi riporto alcune cifre pubblicate, giorni fa, dall’istituto Demos & Pi, per il quotidiano Repubblica, secondo le quali Matteo Renzi resta l’uomo politico che raccoglie maggiore fiducia in Italia, ma perde 10 punti, mentre al secondo posto, con il 30%, si piazza Matteo Salvini, segretario federale della Lega Nord, alla quale viene assegnato l’11% di consensi. Il divario tra i due, comunque, rimane ampio, circa 20 punti, che non è proprio poca cosa, ma Salvini vede crescere considerevolmente i suoi estimatori anche al Sud, fino al 30%. Il Pd scende dal 41% al 36%. Un altro sondaggio della Lorien Consulting, pubblicato da Italia Oggi, conferma il calo del Pd, il 50% di popolarità per Matteo Renzi ed assegna alla Lega l’8,5%, comunque più del doppio di quanto prendesse poco tempo fa. Che siano attendibili o no tali risultati poco importa, perché sono bastati a mettere in allarme Berlusconi ed a dare coraggio al segretario federale della Lega Nord, che ora dice esplicitamente di volere la leadership di tutto il centrodestra. Un fatto inimmaginabile solo due mesi fa e tale da scompaginare il progetto dello stesso Berlusconi e riaprire i giochi nello schieramento che per vent’anni ha conteso il governo nazionale al centrosinistra. Qui, ora interessa poco quali possano essere gli sviluppi della situazione che ho appena tratteggiato, è molto più importante analizzare i dati oggettivi. Cosa ha determinato il successo personale e politico di Salvini? Perché, come riferiscono le cronache, la Lega, di questi tempi, fa proseliti anche nel meridione? Il giovane leader leghista sta provando a “nazionalizzare” il suo partito, a farne, cioè, una forza politica italiana, sta cercando di portarlo al di sotto della “linea gotica”, operazione che più volte Bossi aveva tentato, ma senza successo (e, probabilmente, senza neppure crederci). Conquistare i meridionali alla causa del federalismo si è rivelato molto difficile; si consideri, inoltre, che la prospettiva dell’autonomia non poteva fare molto presa in una grande regione come la Sicilia, che ha già uno statuto speciale. Salvini poteva “sbarcare” al sud solo mostrando di avere una visione nazionale, non più nordista, della crisi italiana. Ha posto al centro del suo programma due proposte: ritorno alla valuta nazionale e lotta all’immigrazione clandestina (ma sul concetto di “clandestino” occorrerebbe intendersi, i siriani, per esempio, in questo periodo sono da considerare, in realtà, rifugiati). Anche Bossi sosteneva una politica di contrasto all’immigrazione, ma ciò non gli è mai bastato a prendere voti da Bologna in giù. La carta vincente di Salvini, dunque, è stata la lotta all’euro, con la quale ha potuto anche avvicinare alla Lega economisti come Borghi, Rinaldi e (forse) Bagnai. La Lega non chiede più la secessione del nord dall’Italia, ma dell’Italia dall’eurozona. Un argomento che può essere compreso e sostenuto anche da calabresi, campani, siciliani..., dato che al sud l’austerità imposta dall’Unione europea è stata ancor più devastante che nel settentrione. Se non è una mutazione genetica della Lega, ci si avvicina. Ma, come ogni operazione politica che si rispetti, è soggetta a rischi. In alcune regioni del nord, soprattutto il Veneto, sussistono pulsioni secessionistiche, una parte consistente dell’elettorato leghista è avversa all’Italia, più che all’Unione europea. Così, a Salvini toccano due parti in commedia: deve fare il nazionalista al sud e sostenere i separatisti al nord. Una situazione ambigua che non può trascinarsi a lungo. Un giorno o l’altro dovrà scegliere. La politica ha i suoi tempi, questo è vero, ma nessun leader può traccheggiare all’infinito.     
              

giovedì 9 ottobre 2014

Tempi diversi, stessi errori


         Abbiamo trascorso gli ultimi mesi a scontrarci sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ed il Jobs Act proposto dal governo Renzi, ora in via d’approvazione del Parlamento (è appena passato al Senato, ma il governo si è visto costretto a ricorrere al voto di fiducia, per evitare brutte sorprese). La riforma della legislazione sul lavoro ha lacerato il centrosinistra, il Pd ed il sindacato, ma il Presidente del Consiglio ne ha fatto la linea del Piave del suo programma di governo, sostenendo che tale misura sia necessaria non solo per combattere la disoccupazione (pericolosamente intorno al 13%), ma anche a far ripartire l’economia e restituire credibilità all’Italia. Ancora prima di assumere la carica di premier, Renzi ha saputo accreditarsi presso l’opinione pubblica nazionale ed internazionale come l’uomo delle riforme, del rinnovamento, della discontinuità, l’unico che abbia le qualità e la determinazione per rimettere in piedi un Paese in ginocchio (un dato di sole 48 ore fa: quasi 100.000 italiani, nel 2013, si sono trasferiti all’estero). L’immagine di leader risoluto e pragmatico con cui ha saputo presentarsi all’elettorato gli è valsa l’etichetta di «Berlusconi di sinistra», in effetti questo giovane fiorentino che ripete di avere l’ambizione di «cambiare l’Italia»  ricorda tantissimo l’imprenditore milanese che, vent’anni fa, voleva fare «la rivoluzione liberale». Gli slogan sono diversi, perché i tempi sono diversi e richiedono linguaggi diversi, ma la sostanza è la stessa. In questi giorni, gira una vignetta sui social network, in cui Berlusconi sorridente e soddisfatto dice: «Non sono riuscito a fare le riforme con il mio partito, così mi sono fatto un governo di sinistra.» Come spesso avviene, anche stavolta, attraverso apparenti paradossi, la satira politica ha spiegato la realtà meglio di mille editoriali. Berlusconi oggi è un leader in declino, difficile che gli riesca l’ennesima stupefacente ripresa, quando parla della sua esperienza di Capo di governo insiste sempre sul medesimo argomento: «Non mi hanno fatto governare, ho avuto sempre alleati inaffidabili, come Bossi, Casini, Follini, Fini...» Onestamente, va riconosciuto che quando il centrodestra aveva una forte maggioranza in Parlamento, il governo la vera opposizione l’aveva dentro casa ed era costretto a mediare e negoziare su tutto. Ricordo che, tempo fa, un giornalista di centrodestra scrisse che il vero errore di Berlusconi era stato quello di affidare il ministero dell’Economia e la realizzazione di riforme liberali a Giulio Tremonti, un fiscalista che non si era mai definito liberale, ma «colbertista», per usare un termine più semplice, un dirigista. Renzi non ha compiuto gli stessi sbagli, si è sbarazzato subito d’una potenziale spina nel fianco come D’Alema, ha tenuto fuori dal governo Bersani, ha scelto come ministro dell’Economia un ex funzionario dell’Ocse, Padoan (si dice che gliel’abbia suggerito Mario Draghi), uno che considera il liberismo una divinità, in più si è circondato di «ministri ragazzini» (definizione dell’imprenditore Diego Della Valle, un suo ex sostenitore) come la Madia e la Boschi. Nel Pd è criticato da una minoranza, ma aveva ben altri guai Berlusconi quando doveva vedersela con le bizze di Casini e Fini. Tra le due situazioni, non c’è paragone. Il punto è che le riforme di Renzi non sono quelle che servono all’Italia, non sarebbero servite neppure se le avesse fatte Berlusconi. Per fare un esempio, quell’articolo 18 che i governi di centrodestra non sono mai riusciti ad abolire, è solo un feticcio ideologico. Quando l’economia italiana tirava, mai nessun imprenditore ha rinunciato a produrre i beni richiesti dal mercato pur di non assumere. Le riforme liberali di Renzi, che piacciono tanto a Berlusconi, avrebbero un senso se gli italiani andassero dal supermercato e non trovassero le merci che cercano. Il vecchio ed il nuovo Berlusconi dall’accento fiorentino sono convinti che il nostro sistema economico non esprima tutto il suo enorme potenziale a causa della burocrazia, la spesa pubblica improduttiva, il sistema giudiziario inefficiente, la legislazione del lavoro troppo rigida e che, quindi, sia necessaria una robusta dose di liberismo. Ora, non ci crederete, ma, appena due giorni fa, il Fondo monetario internazionale, il custode dell’ortodossia liberista, ha pubblicato un documento in cui dice che il modo migliore per uscire dalla recessione è investire in infrastrutture, spendendo a deficit, perché in tempi di deflazione, come questi, le grandi opere pubbliche sono a costo zero. Per favore, andate a spiegarlo ai due Berlusconi. Quello mancato e quello aspirante.

         Mauro Ammirati                       

venerdì 12 settembre 2014

Un'altra illusione


         La notizia più importante delle ultime settimane (o, comunque, una delle più importanti), almeno per l’Italia, è arrivata da Francoforte: la Bce ha tagliato i tassi di interesse di 10 punti base, ha annunciato che acquisterà titoli sul mercato ed aumentato i tassi di interessi negativi sulle riserve bancarie. Nessuno si spaventi, mi spiego subito: l’istituto d’emissione sta semplicemente cercando di mettere più denaro in circolazione, aumentando la quantità di moneta a disposizione delle banche.  La notizia è stata accolta con favore nel nostro Paese ed in Francia, mentre ha accresciuto la diffidenza dei tedeschi verso l’italiano Mario Draghi. La Germania, come si sa, esige, principalmente da noi e dai nostri cugini transalpini, rigore nel contenimento dei debiti e dei deficit pubblici, mentre la Bce taglia il costo del denaro, provocando un deprezzamento dell’euro sul dollaro. Proprio ciò che fa, tradizionalmente, imbestialire i tedeschi, che hanno la fissazione della moneta forte e la fobia delle svalutazioni. Il punto più importante, però, è un altro ed autorevolissimi economisti, compreso qualche premio Nobel, non hanno mancato di farlo notare: la manovra in questione è inefficace, non aiuterà l’economia dell’eurozona a riprendersi, non faciliterà la ripresa né la creazione di posti di lavoro. L’errore della Bce e di tanti statisti è quello di pensare che più soldi vengono dati alle banche, più queste saranno propense a concedere prestiti alle aziende. Ahinoi, non è così. E non lo dico io, ma la Bank of England. Recentemente nel suo bollettino la banca centrale inglese ha spiegato che le banche negano o concedono prestiti non sulla base della quantità di denaro di cui dispongono, ma valutando quanto renderebbe il prestito nel caso venisse concesso (e, ovviamente, la solvibilità di chi lo chiede). Ora, si dà il caso che, statistiche alla mano, le imprese francesi ed italiane non investano perché non riescono a vendere i loro prodotti all’estero (l’euro è una moneta troppo forte e le mette fuori mercato) né in casa loro (dove la domanda di beni e servizi è troppo debole, cioè le famiglie sono rimaste senza soldi). Dunque, perché mai un’azienda di Bologna o Nizza dovrebbero investire? Se anche queste imprese volessero approfittare del basso tasso di interesse e si mettessero ad investire e produrre, i loro prodotti resterebbero sugli scaffali o in magazzino. Lo sanno gli imprenditori e lo sanno anche le banche. La crisi dell’eurozona è dovuta a questo, è crisi di domanda. Per la medesima ragione non serve neppure modificare le norme vigenti per facilitare i licenziamenti o favorire le assunzioni. Ve lo dico con le parole d’un imprenditore con cui parlavo tempo fa, uno che ha un centinaio di lavoratori alle sue dipendenze: «Che me ne faccio degli incentivi ad assumere se non ho gli ordinativi? Prendo un ragazzo e poi lo faccio stare con le mani in mano?» Renzi e Berlusconi sembra che non abbiano ancora compreso la vera natura del problema. L’uno e l’altro sono convinti che per far ripartire l’Italia occorrano una burocrazia più snella, una riforma della giustizia per abbreviare i tempi di processi e cause civili, insieme con una riforma del Parlamento e della legge elettorale. Intendiamoci, a queste materie si deve mettere mano, lo abbiamo scritto più volte e lo ribadiamo. Ma non saranno tali riforme a ridare vigore alla nostra economia. Abbiamo sentito tante volte dire che una recessione così devastante non si vedeva dal 1929. Il Presidente americano F. D. Roosvelt affrontò quella crisi drammatica con il New Deal, un vasto programma di opere pubbliche. Poi ci fu l’attacco giapponese a Pearl Harbor e, per quanto sia rivoltante dirlo, la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra diede un’ulteriore spinta alla loro economia. Al punto che, terminato il conflitto, aiutarono anche noi a rimetterci in piedi, staccando un assegno per il nostro Alcide De Gasperi (ve lo ricordate il Piano Marshall?). Non si esce dalle recessioni, purtroppo, se lo Stato non fa da traino all’economia (cominciando con il rilancio dell’edilizia pubblica). Ma di investimenti pubblici, in Italia ed in Francia, di questi tempi, non si può neanche parlare. I parametri comunitari ci impongono tagli al bilancio, i quali comprimono ulteriormente la domanda. È un circolo vizioso, se non l’avete capito. Nell’ultimo numero vi parlai del successo alle elezioni europee di Marine Le Pen in Francia e dell’antieuropeismo crescente. Da allora, dicono i sondaggi, i consensi ai partiti antieuropeisti sono andati aumentando. Non so voi, ma io non ne sono sorpreso.

         Mauro Ammirati

martedì 27 maggio 2014

Il nuovo bipolarismo


         Il voto del 25 maggio non ha semplicemente modificato i rapporti di forza tra i vari gruppi che compongono l’Europarlamento.  Questo può dirsi d’ogni elezione. No, ha fatto molto di più: ha cancellato un mondo ed una storia, dando inizio ad una nuova epoca. Nell’assemblea che rappresenta i popoli dell’Europa comunitaria, sia i partiti d’area socialista, che quelli che aderiscono al Ppe avranno meno seggi rispetto alla legislatura precedente, mentre sale a circa 150 il numero dei parlamentari cosiddetti euroscettici o antieuropeisti o anche sovranisti. Mai accaduto prima un fatto del genere, un dato sconcertante per chi ha fede nella causa dell’europeismo. Il Fn di Marine Le Pen, in Francia, ottiene il 25% ed è, ora, la prima forza politica del Paese; dilaga l’Ukip in Gran Bretagna, cresce il fronte antieuropeista anche in Ungheria, Danimarca, Austria ed Olanda. Almeno due generazioni di studiosi di scienza della politica si sono formati su testi universitari che parlavano d’un mondo, tutto sommato, semplice, facile da capire. Nelle democrazie occidentali, leggevamo su questi libri, il governo è conteso da socialdemocratici e conservatori, centrosinistra contro centrodestra, gli uni chiedono una maggiore presenza dello Stato in economia e più solidarietà sociale, gli altri più libertà economica, meno intralci all’imprenditoria. Quale che fosse il sistema istituzionale (parlamentare o presidenziale) ed il sistema elettorale, la dialettica democratica funzionava, più o meno, dappertutto così. Nella bipartitica Gran Bretagna, come nelle bipolari Francia e Germania. Poi c’erano Paesi, come le democrazia scandinave,  dove la situazione era un po’ più confusa, ma le famiglie politiche principali erano le stesse che primeggiavano altrove, si dicevano tutti o socialisti o moderati. Nel 1994 diventò bipolare anche l’Italia. Ebbene, quel mondo non c’è più, è finito, è stato consegnato alla storia. Se oggi si votasse per le politiche in Francia, socialisti e gollisti, i nemici di sempre, dovrebbero allearsi per sbarrare il passo al Front National. I Tories in Inghilterra oggi sono il terzo partito, i laburisti il secondo, il mondo sottosopra. Il punto è che pensavamo di aver capito tutto di questa novità che chiamiamo “globalizzazione”, in realtà, non abbiamo ancora imparato a conoscerla. «Il vero bipolarismo oggi non è più tra sinistra e destra, ma tra mondialismo e nazionalismo», ha dichiarato Marine Le Pen, che fa il pieno di voti nei collegi una volta di tradizione socialista e dove ora ci sono le rovine di distretti industriali smantellati dalle delocalizzazioni. Sì, è questo il nuovo bipolarismo: da una parte, chi vuole il ritorno alle sovranità nazionali, quando è necessario anche a politiche protezionistiche; dall’altro, chi vuole un mondo senza frontiere e mercati senza dogane. Rigiratela come volete, usate pure un lessico diverso, ma la sostanza non cambia. I mondialisti affermano che la globalizzazione è irreversibile, perché ormai l’interdipendenza tra le varie economie è tale che non si può tornare indietro. Il disoccupato cinquantaquattrenne, che è considerato troppo anziano anche per essere riqualificato, non può fare altro che lottare perché non sia consentito ad alcuna azienda di chiudere a Bordeaux ed aprire uno stabilimento in Bangladesh (magari investendo capitali ottenuti da una banca che poi nega il mutuo sulla prima casa alle giovani coppie). I mondialisti accusano i sovranisti di xenofobia, fascismo e populismo. Ed è questo, per i primi, il modo più sicuro per andare incontro a nuove sconfitte. 

         Mauro Ammirati

venerdì 14 marzo 2014

L'ultima carta


         Un’operazione improvvisa e spregiudicata come quella che ha rovesciato il governo Letta ed insediato quello di Matteo Renzi può avvenire solo nel segno della paura. Un sentimento che è meno del panico, ma più del semplice timore. Paura che pervade le due grandi coalizioni nazionali ed è dovuta a fattori politici ed economici, interni ed internazionali. Paura che la situazione sfugga di mano a quelle forze politiche che hanno retto il Paese dal 1994 ad oggi e che, per buona parte degli italiani, sono i principali responsabili del momento drammatico che la nazione sta vivendo. Matteo Renzi è la carta della disperazione, è stato lui stesso ad affermarlo, implicitamente, in occasione della presentazione del suo governo alle Camere, facendo capire che il suo fallimento sarebbe la bancarotta di tutto il sistema politico. Ha ottenuto la fiducia del centrosinistra e dei centristi, non quella di Forza Italia, che però, in cambio d’un accordo concluso sul sistema elettorale, gli ha concesso un’apertura di credito, se preferite, la promessa di un’opposizione morbida. La domanda da porsi è: cos’è stato a forzare la mano ai partiti, cosa ha fatto precipitare la situazione così da indurre la Presidenza della Repubblica e la coalizione che sosteneva il governo Letta ad una manovra tanto azzardata, quanto insolita? Paura, come accennavamo, ma di cosa? A maggio si terranno le elezioni europee (per inciso, verrà eletto anche il Consiglio regionale nel nostro Abruzzo) ed il voto in questione potrebbe diventare una pietra sepolcrale sul sistema politico costruito sulle macerie di Tangentopoli. I sondaggi, lo scorso anno, poche settimane prima delle elezioni politiche, attribuivano al M5s il 17%. Prese il 25% (neanche le prime proiezioni post voto facevano pensare ad un simile successo). Oggi, i sondaggi danno allo stesso M5s il 24%. Dunque, non si può escludere che il movimento di Beppe Grillo superi il 30%. Parliamo d’una forza politica radicalmente avversa al centrosinistra ed al centrodestra, dichiaratamente euroscettica e sostenitrice della democrazia diretta integrale (in passato, Grillo ha proposto l’abrogazione del cosiddetto “divieto di mandato imperativo). Non basterà a Pd, Ncd e Fi confidare  nella ripresa economica, perché (ammesso che l’economia sia davvero in ripresa) non si concretizzerà in posti di lavoro nei prossimi mesi. Inoltre, quale che sia la congiuntura, i vincoli comunitari impongono all’Italia di continuare a praticare la politica dell’austerità ancora per molti anni. Infine, i fattori internazionali. Quando, nei primi anni ’90, la Lega nord cominciò a raccogliere una discreta messe di voti, il compianto Indro Montanelli scriveva: «Finché il separatismo lo fanno i siciliani è un conto. Ma se lo fanno i lombardi la situazione cambia.» Ora potremmo dire che finché, nella piccola Grecia, Alba dorata prende il 7% possiamo anche reagire con la semplice indignazione e poi fare spallucce. Ma se l’elettorato antieuropeista cresce in Francia, Olanda ed Austria, se in Italia avanza il M5s che chiede di abolire il Fiscal compact ed un referendum per la permanenza nella moneta unica, se la Gran Bretagna annuncia un referendum sulla sua permanenza nell’Unione europea, allora si capisce che la posta in palio è di portata storica ed il discorso cambia. In questo quadro, il rischio che corre la classe politica italiana è duplice: può venire travolta dal malcontento popolare in Italia o dal crollo dell’Europa comunitaria. Si consideri, infatti, che tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni, tecnici, di centrosinistra e di centrodestra, hanno tagliato spesa pubblica e servizi sociali, liberalizzato e privatizzato in applicazione delle direttive di Bruxelles e Francoforte, provocando l’ondata di protesta che ora può riversarsi nelle urne elettorali. Il governo Letta era manifestamente inadeguato al compito di salvare una classe politica che sembra un’oligarchia assediata nella cittadella del potere, mentre fuori il mondo è già cambiato e comincia una nuova storia. Occorreva mandare un messaggio forte al Paese, dare almeno l’impressione che ci fosse ai vertici delle istituzioni un ricambio generazionale, che finalmente si stesse facendo sul serio. Soprattutto, occorreva fare in fretta. Perciò è stato chiamato il trentottenne Matteo Renzi. L’ultima carta da giocare. Quella della disperazione.

         Mauro Ammirati    

venerdì 14 febbraio 2014

Convegno a Scafa sulla ME-MMT. Le origini della crisi


 
Si può comprendere lo stupore d’una persona a cui per la prima volta venga spiegata cos’è la ME-MMT. Inevitabilmente, la reazione di chi ascolta è sempre la stessa:  spalanca gli occhi e chiede: ma allora perché tutti i giorni politici, giornalisti e studiosi ci dicono che il debito pubblico è un grande problema? È accaduto anche a Scafa, sabato 18 gennaio, nella Sala polivalente. Increduli i presenti – invero, molto pochi – interrompevano ripetutamente il relatore, per avere chiarimenti e girando sempre intorno al solito punto: davvero volete farci credere che il debito pubblico non sia quella zavorra di cui tutti parlano? Si trattava d’un incontro, aperto al pubblico, tra ME-MMT Abruzzo e, come si leggeva nella locandina dell’evento, attivisti del M5s. “Il disastro dell’eurozona e come uscirne”, questo l’argomento di cui discutere. La ME-MMT (Mosler Economics - Modern Money theory, Teoria della moneta moderna), spiega uno dei due relatori Riccardo Tomassetti, «viene divulgata nel mondo dal 1993 da Warren Mosler, l’economista americano che l’ha elaborata, ma, in realtà, ha più di cento anni di storia, dato che le sue radici sono nel pensiero di grandi economisti del secolo scorso, come John Maynard Keynes, Abba Lerner e Friedrich Knapp.» Per capire la Mosler economics è fondamentale avere chiaro in mente in cosa consista la distinzione tra Paesi dell’eurozona (quelli che, come l’Italia e la Francia, hanno adottato l’euro come valuta comune) ed i cosiddetti Paesi a moneta sovrana (come Stati Uniti e Giappone, che hanno una propria moneta). «In un Paese a moneta sovrana», dice Tomassetti, «lo Stato crea moneta dal nulla, si chiama “moneta fiat”, fornendo titoli di Stato, cioè obbligazioni, alla Banca centrale, in cambio di liquidità. Così, il governo americano cede i suoi titoli alla Fed e quello giapponese alla Bank of Japan. La banca centrale entra in possesso di questi titoli ed accredita la somma equivalente al conto corrente che il governo ha presso di essa. Il governo prende questo denaro e lo utilizza per costruire scuole, ospedali e quanto occorre alla collettività. Ma, dal momento che il governo può emettere dal nulla tutti i titoli di Stato che vuole e fare così all’infinito, il debito si rivela un falso debito. Praticamente, lo Stato si indebita con se stesso.» Per dirla in termini ancora più semplici: lo Stato può stampare tutta la moneta che gli occorre. Questo fa capire, dice Tomassetti, che lo Stato stesso «non ha bisogno neanche delle tasse per finanziare la spesa pubblica. Potendo stampare moneta, il governo non ha necessità di tassare i cittadini e non può neanche dichiarare default (cioè, bancarotta, n.d.r.).» Lo scopo delle tasse, in realtà, è un altro: «Tasse ed imposte servono a creare domanda di moneta. Dovendo pagare le tasse in dollari, il cittadino americano ha bisogno di procurarsi i dollari, cioè la moneta emessa dal suo Stato. È questo a dare valore alla moneta. Contrariamente a quanto comunemente si crede, il valore della moneta non è dovuto all’oro né ad altro metallo. Per pagare le tasse in Italia devi avere gli euro, per pagarle in Giappone gli yen… indipendente dal rapporto di queste monete con l’oro. La convertibilità della banconota in oro non è più possibile dal 15 agosto 1971.» Se questo avviene in un Paese a moneta sovrana, nell’eurozona, dunque in Italia, è tutto un altro discorso: «L’euro non è la moneta d’uno Stato, ma della Banca centrale europea che presta denaro, non agli Stati, ma al mercato dei capitali, cioè principalmente alle banche, attualmente al tasso d’interesse dello 0,25%. Per avere denaro, i governi dell’eurozona devono rivolgersi alle banche, contraendo un vero debito ad un tasso stabilito dal mercato. Questo meccanismo è all’origine della catastrofe europea.» Infatti, «nei Paesi a moneta sovrana, lo Stato potendo stampare moneta, prima spende, poi tassa. Nei Paesi dell’euro, invece, lo Stato, non potendo stampare moneta, deve prenderla a prestito dalle banche e procurarsela con le tasse. Quindi, nell’eurozona, lo Stato prima tassa, poi spende.» L’altro relatore, Gianluca Gandini, accompagnato dal Presidente della ME-MMT Abruzzo, Alessio Scalzini, ha spiegato che in un Paese a moneta sovrana «compito dello Stato è quello di creare moneta dal nulla per il raggiungimento della piena occupazione e per garantire i servizi pubblici essenziali. La ME-MMT propone il PLG (Programma di lavoro garantito, n.d.r.), con il quale lo Stato assume, provvisoriamente, disoccupati per impiegarli in settori dove non c’è concorrenza con il privato, come l’assistenza agli anziani ed ai disabili, la ricerca scientifica, la tutela dell’ambiente ed altri ancora.»

Mauro Ammirati   

lunedì 3 febbraio 2014

Vent'anni dopo


         Il contesto è completamente diverso, ma la sensazione è la stessa e, in buona parte, anche la diagnosi. L’impressione è chi si sia tornati al biennio 1992-1993, quello del ciclone di Tangentopoli e, nonostante da allora l’Italia sia molto cambiata (in peggio, verrebbe da aggiungere), una riflessione su quanto accade ai giorni nostri induce a pensare che non si tratti solo di un’impressione. Come già accennato, viviamo sotto un altro cielo rispetto a vent’anni fa, in quel periodo l’Italia si liberava della Guerra fredda che, sin dal 1945, aveva avuto un’influenza di primaria importanza sugli equilibri politici interni; i partiti storici, popolari, di massa e strutturati si liquefacevano sotto i colpi letali delle inchieste giudiziarie (Dc e Psi) o subivano una mutazione genetica a causa del crollo del bipolarismo mondiale (Pci). Nascevano nuove forze politiche la cui avanzata, in termini elettorali, era in apparenza inarrestabile (Lega Nord, An e Forza Italia). Con un referendum, gli italiani scelsero di darsi nuove regole che (si presumeva) assicurassero maggiore governabilità, possibilmente governi di legislatura, come accade ordinariamente nelle grandi democrazie e che, invece, da noi era accaduto eccezionalmente. Dunque, avevamo nuove forze politiche e cercavamo anche di costruire un nuovo sistema politico. Sembrava un mutamento incoraggiante (del senno di poi sono piene le fosse, facile dire oggi che fu solo un’illusione). Infine, l’Italia usciva dallo Sme ed entrava in un periodo di crescita economica (grazie ai cambi flessibili). Cosa avviene in queste primi mesi del 2014? Due leaders, Renzi e Berlusconi, concludono un accordo (ancora da perfezionare, pare) su una riforma elettorale, per salvare il bipolarismo, che scricchiola a causa della crescita di consensi d’un outsider, il M5s; le inchieste giudiziarie ed i processi falcidiano giunte regionali (i cui poteri, con la riforma del Titolo V della Costituzione, si sono notevolmente accresciuti) e trascinano ai minimi storici la credibilità della classe politica; lo stato dell’economia è disastroso, le prospettive non sono affatto incoraggianti. Abbiamo semplificato fino alla brutalità, ma disponiamo di quanto basta per rispondere alla domanda: cosa ha in comune  con Tangentopoli la situazione attuale e in cosa differisce? Direi che oggi come allora, i leaders commettono l’errore di pensare che si possa salvare un sistema agonizzante semplicemente imponendo delle regole elettorali. Craxi, Andreotti e Forlani fecero di tutto per preservare il sistema elettorale proporzionale, su cui si reggeva il sistema di alleanze nazionali e locali. L’introduzione dell’elezione diretta delle giunte provinciali e comunali ed un sistema elettorale prevalentemente maggioritario per Camera e Senato spazzarono via la resistenza di socialisti e democristiani. Berlusconi e Renzi, oggi, disegnano l’Italicum, ricalcato sulla legge Calderoli, dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Anche questa convergenza sembra dettata più dalla disperazione e dalla volontà di salvare il salvabile, che da un autentico spirito riformatore. Ripetiamolo ancora una volta: l’ingegneria elettorale è importante e può aiutare a risolvere tanti problemi, ma non può fare miracoli. Se i partiti stipulano alleanze e si separano dopo le elezioni, se i parlamentari passano da un gruppo all’altro, il problema non è costituito dalle regole, ma dagli uomini e, soprattutto, dai leaders. Un altro elemento in comune con la situazione di vent’anni fa è la pressione di fattori internazionali. Nel 1992, un’intera classe dirigente si rivelò incapace di capire cosa rappresentasse il crollo del Muro di Berlino. Lo capì quando era troppo tardi. Oggi, la classe politica italiana ignora (o finge di ignorare) cosa sta accadendo nell’economia mondiale e negli altri Paesi dell’Unione europea. Più precisamente, autorevoli economisti parlano di rischio break-up dell’euro, in Francia i sondaggi danno il primato dei consensi al Front National, di Marine Le Pen, il cui programma, al primo punto, stabilisce il ritorno alla sovranità monetaria ed al franco. La fine della moneta unica europea potrebbe essere per questa classe politica ciò che il crollo del Muro di Berlino fu per democristiani, socialisti e comunisti vent’anni fa.

         Mauro Ammirati