Una premessa, innanzitutto: non vado, affatto, pazzo per i
sondaggi, il più delle volte mi infastidiscono, per ragioni molto semplici. In
primo luogo, perché in democrazia contano i voti, non le semplici ricerche
d’opinione. In secondo luogo, perché, in passato, in diverse circostanze, i
sondaggisti hanno preso cantonate madornali, costringendo anche qualche
quotidiano a tornare in stampa per rifare la prima pagina. Infine, perché, ai
giorni nostri, gli uomini politici, da noi come altrove, non prendono più
alcuna decisione se prima non hanno il conforto d’un sondaggio. Berlusconi, per
menzionarne uno, cambia opinione continuamente sulla base degli spostamenti
delle percentuali risultanti da tali ricerche (l’ultimo dietrofront è quello
sulle coppie di fatto e ius soli), prendendo esempio da un uomo politico di
tanti anni fa, che diceva: «Sono il loro capo, quindi li seguo.» Il guaio è che
proprio perché i leaders hanno nella massima considerazione i sondaggi, almeno
uno sguardo a quei numeri dobbiamo darlo anche noi per poter analizzare i fatti
politici. Chiarito questo punto, sarà facile al lettore comprendere perché oggi
riporto alcune cifre pubblicate, giorni fa, dall’istituto Demos & Pi, per
il quotidiano Repubblica, secondo le
quali Matteo Renzi resta l’uomo politico che raccoglie maggiore fiducia in
Italia, ma perde 10 punti, mentre al secondo posto, con il 30%, si piazza
Matteo Salvini, segretario federale della Lega Nord, alla quale viene assegnato
l’11% di consensi. Il divario tra i due, comunque, rimane ampio, circa 20
punti, che non è proprio poca cosa, ma Salvini vede crescere considerevolmente
i suoi estimatori anche al Sud, fino al 30%. Il Pd scende dal 41% al 36%. Un
altro sondaggio della Lorien Consulting,
pubblicato da Italia Oggi, conferma
il calo del Pd, il 50% di popolarità per Matteo Renzi ed assegna alla Lega
l’8,5%, comunque più del doppio di quanto prendesse poco tempo fa. Che siano
attendibili o no tali risultati poco importa, perché sono bastati a mettere in
allarme Berlusconi ed a dare coraggio al segretario federale della Lega Nord,
che ora dice esplicitamente di volere la leadership di tutto il centrodestra.
Un fatto inimmaginabile solo due mesi fa e tale da scompaginare il progetto
dello stesso Berlusconi e riaprire i giochi nello schieramento che per
vent’anni ha conteso il governo nazionale al centrosinistra. Qui, ora interessa
poco quali possano essere gli sviluppi della situazione che ho appena
tratteggiato, è molto più importante analizzare i dati oggettivi. Cosa ha determinato
il successo personale e politico di Salvini? Perché, come riferiscono le
cronache, la Lega, di questi tempi, fa proseliti anche nel meridione? Il
giovane leader leghista sta provando a “nazionalizzare” il suo partito, a
farne, cioè, una forza politica italiana, sta cercando di portarlo al di sotto
della “linea gotica”, operazione che più volte Bossi aveva tentato, ma senza
successo (e, probabilmente, senza neppure crederci). Conquistare i meridionali alla
causa del federalismo si è rivelato molto difficile; si consideri, inoltre, che
la prospettiva dell’autonomia non poteva fare molto presa in una grande regione
come la Sicilia, che ha già uno statuto speciale. Salvini poteva “sbarcare” al
sud solo mostrando di avere una visione nazionale, non più nordista, della
crisi italiana. Ha posto al centro del suo programma due proposte: ritorno alla
valuta nazionale e lotta all’immigrazione clandestina (ma sul concetto di
“clandestino” occorrerebbe intendersi, i siriani, per esempio, in questo
periodo sono da considerare, in realtà, rifugiati). Anche Bossi sosteneva una
politica di contrasto all’immigrazione, ma ciò non gli è mai bastato a prendere
voti da Bologna in giù. La carta vincente di Salvini, dunque, è stata la lotta
all’euro, con la quale ha potuto anche avvicinare alla Lega economisti come
Borghi, Rinaldi e (forse) Bagnai. La Lega non chiede più la secessione del nord
dall’Italia, ma dell’Italia dall’eurozona. Un argomento che può essere compreso
e sostenuto anche da calabresi, campani, siciliani..., dato che al sud
l’austerità imposta dall’Unione europea è stata ancor più devastante che nel
settentrione. Se non è una mutazione genetica della Lega, ci si avvicina. Ma,
come ogni operazione politica che si rispetti, è soggetta a rischi. In alcune
regioni del nord, soprattutto il Veneto, sussistono pulsioni secessionistiche,
una parte consistente dell’elettorato leghista è avversa all’Italia, più che
all’Unione europea. Così, a Salvini toccano due parti in commedia: deve fare il
nazionalista al sud e sostenere i separatisti al nord. Una situazione ambigua
che non può trascinarsi a lungo. Un giorno o l’altro dovrà scegliere. La
politica ha i suoi tempi, questo è vero, ma nessun leader può traccheggiare
all’infinito.
giovedì 20 novembre 2014
giovedì 9 ottobre 2014
Tempi diversi, stessi errori
Abbiamo trascorso gli ultimi mesi a scontrarci sull’articolo
18 dello Statuto dei lavoratori ed il Jobs Act proposto dal governo Renzi, ora
in via d’approvazione del Parlamento (è appena passato al Senato, ma il governo
si è visto costretto a ricorrere al voto di fiducia, per evitare brutte
sorprese). La riforma della legislazione sul lavoro ha lacerato il
centrosinistra, il Pd ed il sindacato, ma il Presidente del Consiglio ne ha
fatto la linea del Piave del suo programma di governo, sostenendo che tale
misura sia necessaria non solo per combattere la disoccupazione
(pericolosamente intorno al 13%), ma anche a far ripartire l’economia e
restituire credibilità all’Italia. Ancora prima di assumere la carica di premier,
Renzi ha saputo accreditarsi presso l’opinione pubblica nazionale ed
internazionale come l’uomo delle riforme, del rinnovamento, della
discontinuità, l’unico che abbia le qualità e la determinazione per rimettere
in piedi un Paese in ginocchio (un dato di sole 48 ore fa: quasi 100.000 italiani,
nel 2013, si sono trasferiti all’estero). L’immagine di leader risoluto e
pragmatico con cui ha saputo presentarsi all’elettorato gli è valsa l’etichetta
di «Berlusconi di sinistra», in effetti questo giovane fiorentino che ripete di
avere l’ambizione di «cambiare l’Italia»
ricorda tantissimo l’imprenditore milanese che, vent’anni fa, voleva
fare «la rivoluzione liberale». Gli slogan sono diversi, perché i tempi sono
diversi e richiedono linguaggi diversi, ma la sostanza è la stessa. In questi
giorni, gira una vignetta sui social network, in cui Berlusconi sorridente e
soddisfatto dice: «Non sono riuscito a fare le riforme con il mio partito, così
mi sono fatto un governo di sinistra.» Come spesso avviene, anche stavolta,
attraverso apparenti paradossi, la satira politica ha spiegato la realtà meglio
di mille editoriali. Berlusconi oggi è un leader in declino, difficile che gli
riesca l’ennesima stupefacente ripresa, quando parla della sua esperienza di
Capo di governo insiste sempre sul medesimo argomento: «Non mi hanno fatto
governare, ho avuto sempre alleati inaffidabili, come Bossi, Casini, Follini,
Fini...» Onestamente, va riconosciuto che quando il centrodestra aveva una
forte maggioranza in Parlamento, il governo la vera opposizione l’aveva dentro casa
ed era costretto a mediare e negoziare su tutto. Ricordo che, tempo fa, un
giornalista di centrodestra scrisse che il vero errore di Berlusconi era stato
quello di affidare il ministero dell’Economia e la realizzazione di riforme
liberali a Giulio Tremonti, un fiscalista che non si era mai definito liberale,
ma «colbertista», per usare un termine più semplice, un dirigista. Renzi non ha
compiuto gli stessi sbagli, si è sbarazzato subito d’una potenziale spina nel
fianco come D’Alema, ha tenuto fuori dal governo Bersani, ha scelto come
ministro dell’Economia un ex funzionario dell’Ocse, Padoan (si dice che
gliel’abbia suggerito Mario Draghi), uno che considera il liberismo una
divinità, in più si è circondato di «ministri ragazzini» (definizione dell’imprenditore
Diego Della Valle, un suo ex sostenitore) come la Madia e la Boschi. Nel Pd è
criticato da una minoranza, ma aveva ben altri guai Berlusconi quando doveva
vedersela con le bizze di Casini e Fini. Tra le due situazioni, non c’è
paragone. Il punto è che le riforme di Renzi non sono quelle che servono
all’Italia, non sarebbero servite neppure se le avesse fatte Berlusconi. Per
fare un esempio, quell’articolo 18 che i governi di centrodestra non sono mai
riusciti ad abolire, è solo un feticcio ideologico. Quando l’economia italiana
tirava, mai nessun imprenditore ha rinunciato a produrre i beni richiesti dal
mercato pur di non assumere. Le riforme liberali di Renzi, che piacciono tanto
a Berlusconi, avrebbero un senso se gli italiani andassero dal supermercato e
non trovassero le merci che cercano. Il vecchio ed il nuovo Berlusconi
dall’accento fiorentino sono convinti che il nostro sistema economico non
esprima tutto il suo enorme potenziale a causa della burocrazia, la spesa
pubblica improduttiva, il sistema giudiziario inefficiente, la legislazione del
lavoro troppo rigida e che, quindi, sia necessaria una robusta dose di
liberismo. Ora, non ci crederete, ma, appena due giorni fa, il Fondo monetario
internazionale, il custode dell’ortodossia liberista, ha pubblicato un
documento in cui dice che il modo migliore per uscire dalla recessione è
investire in infrastrutture, spendendo a deficit, perché in tempi di deflazione,
come questi, le grandi opere pubbliche sono a costo zero. Per favore, andate a
spiegarlo ai due Berlusconi. Quello mancato e quello aspirante.
Mauro Ammirati
venerdì 12 settembre 2014
Un'altra illusione
La notizia più importante delle ultime settimane (o,
comunque, una delle più importanti), almeno per l’Italia, è arrivata da
Francoforte: la Bce ha tagliato i tassi di interesse di 10 punti base, ha
annunciato che acquisterà titoli sul mercato ed aumentato i tassi di interessi
negativi sulle riserve bancarie. Nessuno si spaventi, mi spiego subito:
l’istituto d’emissione sta semplicemente cercando di mettere più denaro in
circolazione, aumentando la quantità di moneta a disposizione delle banche. La notizia è stata accolta con favore nel
nostro Paese ed in Francia, mentre ha accresciuto la diffidenza dei tedeschi
verso l’italiano Mario Draghi. La Germania, come si sa, esige, principalmente
da noi e dai nostri cugini transalpini, rigore nel contenimento dei debiti e
dei deficit pubblici, mentre la Bce taglia il costo del denaro, provocando un
deprezzamento dell’euro sul dollaro. Proprio ciò che fa, tradizionalmente,
imbestialire i tedeschi, che hanno la fissazione della moneta forte e la fobia
delle svalutazioni. Il punto più importante, però, è un altro ed
autorevolissimi economisti, compreso qualche premio Nobel, non hanno mancato di
farlo notare: la manovra in questione è inefficace, non aiuterà l’economia
dell’eurozona a riprendersi, non faciliterà la ripresa né la creazione di posti
di lavoro. L’errore della Bce e di tanti statisti è quello di pensare che più
soldi vengono dati alle banche, più queste saranno propense a concedere
prestiti alle aziende. Ahinoi, non è
così. E non lo dico io, ma la Bank of England. Recentemente nel suo bollettino
la banca centrale inglese ha spiegato che le banche negano o concedono prestiti
non sulla base della quantità di denaro di cui dispongono, ma valutando quanto
renderebbe il prestito nel caso venisse concesso (e, ovviamente, la solvibilità
di chi lo chiede). Ora, si dà il caso che, statistiche alla mano, le imprese francesi
ed italiane non investano perché non riescono a vendere i loro prodotti
all’estero (l’euro è una moneta troppo forte e le mette fuori mercato) né in
casa loro (dove la domanda di beni e servizi è troppo debole, cioè le famiglie
sono rimaste senza soldi). Dunque, perché mai un’azienda di Bologna o Nizza
dovrebbero investire? Se anche queste imprese volessero approfittare del basso
tasso di interesse e si mettessero ad investire e produrre, i loro prodotti
resterebbero sugli scaffali o in magazzino. Lo sanno gli imprenditori e lo
sanno anche le banche. La crisi dell’eurozona è dovuta a questo, è crisi di
domanda. Per la medesima ragione non serve neppure modificare le norme vigenti
per facilitare i licenziamenti o favorire le assunzioni. Ve lo dico con le
parole d’un imprenditore con cui parlavo tempo fa, uno che ha un centinaio di lavoratori
alle sue dipendenze: «Che me ne faccio degli incentivi ad assumere se non ho
gli ordinativi? Prendo un ragazzo e poi lo faccio stare con le mani in mano?» Renzi
e Berlusconi sembra che non abbiano ancora compreso la vera natura del
problema. L’uno e l’altro sono convinti che per far ripartire l’Italia
occorrano una burocrazia più snella, una riforma della giustizia per abbreviare
i tempi di processi e cause civili, insieme con una riforma del Parlamento e
della legge elettorale. Intendiamoci, a queste materie si deve mettere mano, lo
abbiamo scritto più volte e lo ribadiamo. Ma non saranno tali riforme a ridare
vigore alla nostra economia. Abbiamo sentito tante volte dire che una
recessione così devastante non si vedeva dal 1929. Il Presidente americano F. D.
Roosvelt affrontò quella crisi drammatica con il New Deal, un vasto programma
di opere pubbliche. Poi ci fu l’attacco giapponese a Pearl Harbor e, per quanto
sia rivoltante dirlo, la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra diede
un’ulteriore spinta alla loro economia. Al punto che, terminato il conflitto,
aiutarono anche noi a rimetterci in piedi, staccando un assegno per il nostro
Alcide De Gasperi (ve lo ricordate il Piano Marshall?). Non si esce dalle
recessioni, purtroppo, se lo Stato non fa da traino all’economia (cominciando con
il rilancio dell’edilizia pubblica). Ma di investimenti pubblici, in Italia ed
in Francia, di questi tempi, non si può neanche parlare. I parametri comunitari
ci impongono tagli al bilancio, i quali comprimono ulteriormente la domanda. È
un circolo vizioso, se non l’avete capito. Nell’ultimo numero vi parlai del
successo alle elezioni europee di Marine Le Pen in Francia e
dell’antieuropeismo crescente. Da allora, dicono i sondaggi, i consensi ai
partiti antieuropeisti sono andati aumentando. Non so voi, ma io non ne sono
sorpreso.
Mauro Ammirati
martedì 27 maggio 2014
Il nuovo bipolarismo
Il voto del 25 maggio non ha semplicemente modificato i
rapporti di forza tra i vari gruppi che compongono l’Europarlamento. Questo può dirsi d’ogni elezione. No, ha
fatto molto di più: ha cancellato un mondo ed una storia, dando inizio ad una
nuova epoca. Nell’assemblea che rappresenta i popoli dell’Europa comunitaria,
sia i partiti d’area socialista, che quelli che aderiscono al Ppe avranno meno
seggi rispetto alla legislatura precedente, mentre sale a circa 150 il numero
dei parlamentari cosiddetti euroscettici o antieuropeisti o anche sovranisti.
Mai accaduto prima un fatto del genere, un dato sconcertante per chi ha fede
nella causa dell’europeismo. Il Fn di Marine Le Pen, in Francia, ottiene il 25%
ed è, ora, la prima forza politica del Paese; dilaga l’Ukip in Gran Bretagna,
cresce il fronte antieuropeista anche in Ungheria, Danimarca, Austria ed
Olanda. Almeno due generazioni di studiosi di scienza della politica si sono
formati su testi universitari che parlavano d’un mondo, tutto sommato, semplice,
facile da capire. Nelle democrazie occidentali, leggevamo su questi libri, il
governo è conteso da socialdemocratici e conservatori, centrosinistra contro
centrodestra, gli uni chiedono una maggiore presenza dello Stato in economia e
più solidarietà sociale, gli altri più libertà economica, meno intralci
all’imprenditoria. Quale che fosse il sistema istituzionale (parlamentare o
presidenziale) ed il sistema elettorale, la dialettica democratica funzionava,
più o meno, dappertutto così. Nella bipartitica Gran Bretagna, come nelle
bipolari Francia e Germania. Poi c’erano Paesi, come le democrazia
scandinave, dove la situazione era un
po’ più confusa, ma le famiglie politiche principali erano le stesse che
primeggiavano altrove, si dicevano tutti o socialisti o moderati. Nel 1994
diventò bipolare anche l’Italia. Ebbene, quel mondo non c’è più, è finito, è
stato consegnato alla storia. Se oggi si votasse per le politiche in Francia,
socialisti e gollisti, i nemici di sempre, dovrebbero allearsi per sbarrare il
passo al Front National. I Tories in Inghilterra oggi sono il terzo partito, i
laburisti il secondo, il mondo sottosopra. Il punto è che pensavamo di aver
capito tutto di questa novità che chiamiamo “globalizzazione”, in realtà, non
abbiamo ancora imparato a conoscerla. «Il vero bipolarismo oggi non è più tra
sinistra e destra, ma tra mondialismo e nazionalismo», ha dichiarato Marine Le
Pen, che fa il pieno di voti nei collegi una volta di tradizione socialista e
dove ora ci sono le rovine di distretti industriali smantellati dalle
delocalizzazioni. Sì, è questo il nuovo bipolarismo: da una parte, chi vuole il
ritorno alle sovranità nazionali, quando è necessario anche a politiche
protezionistiche; dall’altro, chi vuole un mondo senza frontiere e mercati
senza dogane. Rigiratela come volete, usate pure un lessico diverso, ma la
sostanza non cambia. I mondialisti affermano che la globalizzazione è
irreversibile, perché ormai l’interdipendenza tra le varie economie è tale che
non si può tornare indietro. Il disoccupato cinquantaquattrenne, che è
considerato troppo anziano anche per essere riqualificato, non può fare altro
che lottare perché non sia consentito ad alcuna azienda di chiudere a Bordeaux
ed aprire uno stabilimento in Bangladesh (magari investendo capitali ottenuti
da una banca che poi nega il mutuo sulla prima casa alle giovani coppie). I
mondialisti accusano i sovranisti di xenofobia, fascismo e populismo. Ed è
questo, per i primi, il modo più sicuro per andare incontro a nuove
sconfitte.
Mauro Ammirati
venerdì 14 marzo 2014
L'ultima carta
Un’operazione improvvisa e spregiudicata come quella che ha
rovesciato il governo Letta ed insediato quello di Matteo Renzi può avvenire
solo nel segno della paura. Un sentimento che è meno del panico, ma più del
semplice timore. Paura che pervade le due grandi coalizioni nazionali ed è
dovuta a fattori politici ed economici, interni ed internazionali. Paura che la
situazione sfugga di mano a quelle forze politiche che hanno retto il Paese dal
1994 ad oggi e che, per buona parte degli italiani, sono i principali
responsabili del momento drammatico che la nazione sta vivendo. Matteo Renzi è
la carta della disperazione, è stato lui stesso ad affermarlo, implicitamente,
in occasione della presentazione del suo governo alle Camere, facendo capire
che il suo fallimento sarebbe la bancarotta di tutto il sistema politico. Ha
ottenuto la fiducia del centrosinistra e dei centristi, non quella di Forza
Italia, che però, in cambio d’un accordo concluso sul sistema elettorale, gli
ha concesso un’apertura di credito, se preferite, la promessa di un’opposizione
morbida. La domanda da porsi è: cos’è stato a forzare la mano ai partiti, cosa
ha fatto precipitare la situazione così da indurre la Presidenza della
Repubblica e la coalizione che sosteneva il governo Letta ad una manovra tanto
azzardata, quanto insolita? Paura, come accennavamo, ma di cosa? A maggio si
terranno le elezioni europee (per inciso, verrà eletto anche il Consiglio regionale
nel nostro Abruzzo) ed il voto in questione potrebbe diventare una pietra
sepolcrale sul sistema politico costruito sulle macerie di Tangentopoli. I
sondaggi, lo scorso anno, poche settimane prima delle elezioni politiche,
attribuivano al M5s il 17%. Prese il 25% (neanche le prime proiezioni post voto
facevano pensare ad un simile successo). Oggi, i sondaggi danno allo stesso M5s
il 24%. Dunque, non si può escludere che il movimento di Beppe Grillo superi il
30%. Parliamo d’una forza politica radicalmente avversa al centrosinistra ed al
centrodestra, dichiaratamente euroscettica e sostenitrice della democrazia
diretta integrale (in passato, Grillo ha proposto l’abrogazione del cosiddetto
“divieto di mandato imperativo). Non basterà a Pd, Ncd e Fi confidare nella ripresa economica, perché (ammesso che
l’economia sia davvero in ripresa) non si concretizzerà in posti di lavoro nei
prossimi mesi. Inoltre, quale che sia la congiuntura, i vincoli comunitari
impongono all’Italia di continuare a praticare la politica dell’austerità
ancora per molti anni. Infine, i fattori internazionali. Quando, nei primi anni
’90, la Lega nord cominciò a raccogliere una discreta messe di voti, il
compianto Indro Montanelli scriveva: «Finché il separatismo lo fanno i
siciliani è un conto. Ma se lo fanno i lombardi la situazione cambia.» Ora
potremmo dire che finché, nella piccola Grecia, Alba dorata prende il 7%
possiamo anche reagire con la semplice indignazione e poi fare spallucce. Ma se
l’elettorato antieuropeista cresce in Francia, Olanda ed Austria, se in Italia avanza
il M5s che chiede di abolire il Fiscal compact ed un referendum per la
permanenza nella moneta unica, se la Gran Bretagna annuncia un referendum sulla
sua permanenza nell’Unione europea, allora si capisce che la posta in palio è
di portata storica ed il discorso cambia. In questo quadro, il rischio che
corre la classe politica italiana è duplice: può venire travolta dal
malcontento popolare in Italia o dal crollo dell’Europa comunitaria. Si
consideri, infatti, che tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi
vent’anni, tecnici, di centrosinistra e di centrodestra, hanno tagliato spesa
pubblica e servizi sociali, liberalizzato e privatizzato in applicazione delle
direttive di Bruxelles e Francoforte, provocando l’ondata di protesta che ora
può riversarsi nelle urne elettorali. Il governo Letta era manifestamente
inadeguato al compito di salvare una classe politica che sembra un’oligarchia assediata
nella cittadella del potere, mentre fuori il mondo è già cambiato e comincia
una nuova storia. Occorreva mandare un messaggio forte al Paese, dare almeno
l’impressione che ci fosse ai vertici delle istituzioni un ricambio
generazionale, che finalmente si stesse facendo sul serio. Soprattutto,
occorreva fare in fretta. Perciò è stato chiamato il trentottenne Matteo Renzi.
L’ultima carta da giocare. Quella della disperazione.
Mauro Ammirati
venerdì 14 febbraio 2014
Convegno a Scafa sulla ME-MMT. Le origini della crisi
Mauro Ammirati
lunedì 3 febbraio 2014
Vent'anni dopo
Il contesto è completamente diverso, ma la sensazione è la
stessa e, in buona parte, anche la diagnosi. L’impressione è chi si sia tornati
al biennio 1992-1993, quello del ciclone di Tangentopoli e, nonostante da
allora l’Italia sia molto cambiata (in peggio, verrebbe da aggiungere), una
riflessione su quanto accade ai giorni nostri induce a pensare che non si
tratti solo di un’impressione. Come già accennato, viviamo sotto un altro cielo
rispetto a vent’anni fa, in quel periodo l’Italia si liberava della Guerra
fredda che, sin dal 1945, aveva avuto un’influenza di primaria importanza sugli
equilibri politici interni; i partiti storici, popolari, di massa e strutturati
si liquefacevano sotto i colpi letali delle inchieste giudiziarie (Dc e Psi) o
subivano una mutazione genetica a causa del crollo del bipolarismo mondiale
(Pci). Nascevano nuove forze politiche la cui avanzata, in termini elettorali,
era in apparenza inarrestabile (Lega Nord, An e Forza Italia). Con un
referendum, gli italiani scelsero di darsi nuove regole che (si presumeva)
assicurassero maggiore governabilità, possibilmente governi di legislatura,
come accade ordinariamente nelle grandi democrazie e che, invece, da noi era
accaduto eccezionalmente. Dunque, avevamo nuove forze politiche e cercavamo
anche di costruire un nuovo sistema politico. Sembrava un mutamento
incoraggiante (del senno di poi sono piene le fosse, facile dire oggi che fu
solo un’illusione). Infine, l’Italia usciva dallo Sme ed entrava in un periodo
di crescita economica (grazie ai cambi flessibili). Cosa avviene in queste
primi mesi del 2014? Due leaders, Renzi e Berlusconi, concludono un accordo
(ancora da perfezionare, pare) su una riforma elettorale, per salvare il bipolarismo,
che scricchiola a causa della crescita di consensi d’un outsider, il M5s; le
inchieste giudiziarie ed i processi falcidiano giunte regionali (i cui poteri,
con la riforma del Titolo V della Costituzione, si sono notevolmente
accresciuti) e trascinano ai minimi storici la credibilità della classe politica;
lo stato dell’economia è disastroso, le prospettive non sono affatto
incoraggianti. Abbiamo semplificato fino alla brutalità, ma disponiamo di
quanto basta per rispondere alla domanda: cosa ha in comune con Tangentopoli la situazione attuale e in cosa
differisce? Direi che oggi come allora, i leaders commettono l’errore di
pensare che si possa salvare un sistema agonizzante semplicemente imponendo
delle regole elettorali. Craxi, Andreotti e Forlani fecero di tutto per
preservare il sistema elettorale proporzionale, su cui si reggeva il sistema di
alleanze nazionali e locali. L’introduzione dell’elezione diretta delle giunte
provinciali e comunali ed un sistema elettorale prevalentemente maggioritario
per Camera e Senato spazzarono via la resistenza di socialisti e democristiani.
Berlusconi e Renzi, oggi, disegnano l’Italicum, ricalcato sulla legge
Calderoli, dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Anche questa convergenza
sembra dettata più dalla disperazione e dalla volontà di salvare il salvabile,
che da un autentico spirito riformatore. Ripetiamolo ancora una volta:
l’ingegneria elettorale è importante e può aiutare a risolvere tanti problemi,
ma non può fare miracoli. Se i partiti stipulano alleanze e si separano dopo le
elezioni, se i parlamentari passano da un gruppo all’altro, il problema non è
costituito dalle regole, ma dagli uomini e, soprattutto, dai leaders. Un altro
elemento in comune con la situazione di vent’anni fa è la pressione di fattori
internazionali. Nel 1992, un’intera classe dirigente si rivelò incapace di
capire cosa rappresentasse il crollo del Muro di Berlino. Lo capì quando era
troppo tardi. Oggi, la classe politica italiana ignora (o finge di ignorare)
cosa sta accadendo nell’economia mondiale e negli altri Paesi dell’Unione
europea. Più precisamente, autorevoli economisti parlano di rischio break-up
dell’euro, in Francia i sondaggi danno il primato dei consensi al Front
National, di Marine Le Pen, il cui programma, al primo punto, stabilisce il
ritorno alla sovranità monetaria ed al franco. La fine della moneta unica
europea potrebbe essere per questa classe politica ciò che il crollo del Muro
di Berlino fu per democristiani, socialisti e comunisti vent’anni fa.
Mauro Ammirati
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