giovedì 29 maggio 2008

Un uomo del suo tempo


Il ventennale della morte di Giorgio Almirante è stato l’occasione per tornare a parlare d’una delle figure più discusse e controverse dei primi quarant’anni di storia della Repubblica italiana. Il nuovo Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, vorrebbe intitolargli una via della capitale e siccome la toponomastica è importante la comunità ebraica ha fatto sapere di essere assolutamente contraria. Di Almirante si è discusso ieri anche alla Camera dei Deputati, in particolare dei suoi interventi pubblicati, durante il Ventennio, sulla rivista “La difesa della razza”. «Frasi vergognose», le ha definite il Presidente dell’assemblea, Gianfranco Fini, suo successore alla guida del M.s.i.-D.n., su indicazione proprio del leader dimissionario, sul finire degli anni ’80. Ancora oggi, Almirante divide, suscita polemiche anche aspre, infiamma il dibattito politico e riaccende vecchie passioni. Ma chi era davvero quell’uomo cui anche gli acerrimi avversari, anzi i nemici, riconoscevano una grande capacità di comunicazione ed un ascendente fuori dal comune non solo sugli elettori missini? Diciamolo subito: era un leader che rifletteva e personificava la doppiezza del suo stesso partito. Esistevano due Almirante, perché il M.s.i. aveva due anime, era un partito combattuto tra il cuore e la ragione, con un piede nel “sistema” ed uno fuori, restando per mezzo secolo nel guado, sul crinale che divide la liberaldemocrazia e l’ideologia della destra radicale e rivoluzionaria. Era una forza politica che indossava la camicia nera e la giacca in doppiopetto, che si sforzava di guardare avanti ma non riusciva a liberarsi della nostalgia, che voleva essere borghese e rassicurante per la cosiddetta maggioranza silenziosa, ma nel contempo proponeva la socializzazione e la partecipazione agli utili nelle imprese, che chiedeva il presidenzialismo insieme ad una versione aggiornata della Camera delle corporazioni. Era una destra che voleva essere filoccidentale, ma era prigioniera dei riflessi condizionati tipici degli ex repubblichini che la rendevano ostile agli U.s.a., Non deve sorprendere che Almirante parlasse d’un Europa unita «dall’Atlantico agli Urali», che predicasse la «pacificazione nazionale», la fine della guerra civile italiana, nemmeno che andasse a rendere omaggio alla salma del segretario del P.c.i. Enrico Berlinguer, passando da solo tra due ali di folla e numerose bandiere al vento con falce e martello e che poi chiedesse che qualcuno dei suoi nemici facesse un gesto di buona volontà, portando un mazzo di fiori a piazzale Loreto, dove tanti anni primi anni il Duce, Claretta Petacci ed alcuni gerarchi fascisti erano stati appesi per i piedi. Non deve sorprendere neppure che dicesse che il M.s.i. era una forza politica sinceramente democratica, aggiungendo però che le sue radici ideologiche erano non nel «fascismo regime», ma nel «fascismo movimento», cioè, storicamente, nel primo e nell’ultimo fascismo. Almirante era tutto questo perché conosceva bene il suo partito, essendone stato uno dei fondatori. Sapeva che le contraddizioni del M.s.i. erano costituzionali, genetiche, erano nel Dna. «Né rinnegare, né rinnegare», era il motto dei missini, consapevoli che era impossibile ricostruire lo Stato etico gentiliano, ma ciononostante diffidavano del modello di democrazia parlamentare. Era impossibile anche per un leader amato come lui prendere il M.s.i. ed aiutarlo a superare la soglia oltre la quale avrebbe potuto integrarsi nella democrazia occidentale. La svolta di Fiuggi arrivò nel 1994, cinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino, la fine delle ideologie e della Guerra fredda. In Italia eravamo sotto un altro cielo. Il cielo sotto cui era vissuto Almirante certe scelte non le avrebbe mai consentite. Almirante non era un santo, né un diavolo. È stato solo un uomo del suo tempo.
Mauro Ammirati

martedì 27 maggio 2008

Ci si aspetta di meglio


Dall’opposizione ci si aspetta e si esige non solo che faccia il suo mestiere, ma che lo faccia anche bene, nell’interesse di tutti, governo compreso. L’opposizione deve essere l’avvocato del diavolo, la coscienza critica d’un Paese, il rappresentante delle minoranze e, soprattutto, la voce di chi non ha voce, solo così riesce ad essere un baluardo contro il rischio della «dittatura della maggioranza», come insegnava due secoli fa de Tocqueville. Se si pensa a quanto sia importante tale ruolo, è avvilente – dispiace scriverlo - la polemica di questi giorni su alcuni gravissimi fatti avvenuti di recente. Ci riferiamo ai raid a Roma contro i negozi di proprietà di extracomunitari, all’incendio d’un campo nomadi nei pressi di Napoli, nonché all’uccisione, in Toscana, d’un uomo per mano del padrone dell’abitazione in cui era stato sorpreso a rubare. Cosa legherebbe i casi poc’anzi menzionati? Secondo l’opposizione, il «clima» instaurato in Italia dal Pdl, prima con la campagna elettorale, poi con i provvedimenti adottati nel Consiglio dei ministri di Napoli. Il nuovo governo ha voltato pagina scegliendo la linea della fermezza contro il crimine e l’immigrazione clandestina, ma in tal modo, sostiene buona parte della sinistra, ha incoraggiato le aggressione xenofobe e gli aspiranti “giustizieri della notte”. Sembra che molti privati cittadini non aspettassero altro che un esecutivo come quello appena insediato per mettersi, finalmente, a sparare ai ladri, a terrorizzare i rom e devastare esercizi commerciali gestiti da stranieri. Il «clima» spiegherebbe anche la tragedia di Verona, dove la politica del Sindaco leghista Tosi avrebbe una qualche relazione con il pestaggio a morte d’un povero ragazzo da parte di cinque giovani con simpatie nazi. Non è un caso che sia avvenuto proprio a Verona e non in un’altra città, è opinione diffusa in certi ambenti. Dunque, il «clima», il vento che tira, i nuovi equilibri politici, espressione dell’Italia uscita allo scoperto il 14 aprile, un Paese razzista ed incapace di controllare le sue pulsioni omicide, che nel centrodestra ha trovato la sponda che cercava. Non c’è altra spiegazione per pestaggi, massacri, spedizioni punitive e perfino le troppe svastiche disegnate sui muri che rattristano l’Italia dei giorni nostri. Francamente, non mi sembra che simili teorie siano indice d’acutezza e profonda capacità d’analisi. Prendendo il «clima» come indizio si può accusare chiunque di qualsiasi cosa. In piena campagna elettorale una donna che aveva appena abortito fu interrogata dalla Polizia. Il fatto suscitò molto clamore, si parlò d’un «clima contro i diritti delle donne» ed il dito accusatorio fu puntato su Giuliano Ferrara ed i candidati della lista «Aborto? No grazie». Questo avviene quando i fatti vengono letti attraverso le lenti dell’ideologia. Il medesimo errore che oggi commette l’opposizione, il cui ruolo, lo ripetiamo, è fondamentale per la vita democratica. Perciò ci cadono le braccia quando si lascia intendere che la sinistra ha perso le elezioni perché gli italiani sono imbevuti di xenofobia e hanno visto troppi film di Charles Bronson. Da chi dovrebbe disturbare il manovratore ci si aspetta che faccia di meglio.
Mauro Ammirati

lunedì 26 maggio 2008

Il prezzo dell'ingovernabilità


In sessant’anni di storia della Repubblica, la caratteristica principale dei governi nazionali italiani è sempre stata la debolezza, da intendersi come incapacità di decidere, di assumersi responsabilità e di prendere problemi di petto sfidando, se del caso, l’impopolarità. In Italia i governi non hanno mai deciso, hanno concertato, concordato, cioè si sono seduti ad un tavolo con – a seconda della situazione da affrontare – sindacati, enti locali, associazioni di categoria, comitato spontanei di cittadini… trattando ad oltranza, fino a che non venisse raggiunto un accordo con un ampio consenso e se l’accordo era irraggiungibile allora veniva tutto rinviato a tempi migliori, lasciando che i problemi degenerassero fino ad incancrenire (vedi l’immondizia di Napoli, solo per restare ai giorni nostri). Come hanno spiegato in qualche migliaio di saggi e volumi autorevoli studiosi di diritto costituzionale, all’indomani della Seconda guerra mondiale, dopo un ventennio di regime fascista, i costituenti ebbero timore di disegnare un sistema politico che garantisse un governo “forte”, un esecutivo che avesse il potere di decidere ricordava troppo quello che aveva portato l’Italia prima alla dittatura, poi alla disfatta militare, lasciando un Paese in macerie. Alle imperfezioni della Carta costituzionale e delle varie leggi elettorali sperimentate, ad impedire la governabilità si aggiunsero, nel corso dei decenni, altri fattori come la mediocrità di leadership più preoccupate di mantenere i consensi e coltivare i rispettivi orticelli, piuttosto che preservare la credibilità delle istituzioni ed il decoro dello Stato. Abbiamo semplificato, ma essenzialmente l’analisi è questa. Dunque, si può facilmente comprendere per quale ragione il quarto governo Berlusconi oggi venga visto, almeno in Patria, come un elemento di discontinuità non solo rispetto a quello precedente – che è cosa normalissima – ma a tutta la storia repubblicana. Il tempo per il nuovo Presidente del Consiglio di insediarsi ed ecco che vengono subito presi misure e provvedimenti anche impopolari su Pubblica amministrazione, immigrazione, criminalità, nuove discariche, fisco, perfino su un argomento fino a ieri tabù come il nucleare. Il nuovo ministro alle Infrastrutture, Altero Matteoli, annuncia che quei Comuni che si opporranno all’apertura di nuove discariche saranno sciolti, Berlusconi su questo fronte promette fermezza, si consideri che le nuove norme in materia che ci si appresta ad approvare in Parlamento prevedono la detenzione per coloro che provassero ad impedire che nuovi siti venissero utilizzati per scaricare rifiuti. Agli americani, gli inglesi e gli svedesi sembrerà un fatto assolutamente normale, cosa ci sarà mai di strano in un governo che decide, costoro si chiederanno. Il fatto strano è che, appunto, decide. In Italia, finora, l’atteggiamento di risolversi ad agire ai vertici delle istituzioni non è stato la regola, ma l’eccezione. Cercate, quindi, di comprendere il nostro stupore. Neanche i precedenti tre governi presieduti da Berlusconi furono un segno di discontinuità, sotto questo profilo. Quello in carica, invece, rappresenta un elemento di rottura, un’inversione, dovuta non soltanto alla composizione bipartitica della coalizione che lo sostiene, ma anche ad un mutamento culturale che è avvenuto nella società italiana. Fino a poco tempo fa, anche il cittadino comune preferiva un governo debole della propria parte, che tutelasse gli interessi del proprio ceto sociale, ad un altro esecutivo in grado di decidere, ma della parte avversaria, che cioè rappresentasse interessi di altri ceti. Per molti italiani il governo Prodi, seppur debolissimo, era comunque una garanzia che non sarebbe stata elevata l’età pensionabile. Gli ultimi anni, però, hanno presentato il conto dell’ingovernabilità. Nella lotta alla criminalità, alla disoccupazione ed alla crescita del debito pubblico, l’Italia sta pagando un prezzo troppo alto. Gli italiani hanno, così, cambiato abito mentale: meglio un governo che prenda decisioni, al limite anche sbagliate, piuttosto che un Paese, di fatto, senza governo.
Mauro Ammirati

venerdì 23 maggio 2008

"The Walking Mountain", il film su Primo Carnera


“La montagna che cammina”, così venne definito il primo pugile italiano che vinse il campionato di pesi massimi nel 1933, diventando famoso in tutto il mondo. La pellicola si apre con un Primo Carnera ancora bambino, ma già grande nella mole rispetto ai suoi coetanei e già consapevole di cosa sia la sofferenza, soprattutto quella dovuta alla povertà ed alla fame. Il piccolo Carnera pensa solo a saziarsi, a mangiare in maniera spropositata e cresce in maniera smisurata. Emigra in Francia per sopravvivere, ma la sua forza e la sua grandezza gli serviranno solo a diventare un fenomeno da baraccone. Il suo destino, però non è quello e qualcuno, che oggi sarebbe definito un talent scout, lo intuisce. Un’intuizione che finirà per convincere lo stesso gigante buono che nella sua ingenuità afferma: «Se Dio mi ha dato queste mani, un motivo deve pur esserci.» Inizia così ad allenarsi per diventare pugile, ma pochi credono in lui, la sua mole non dà certezze in quello sport, non dà guadagni... Ma si sbagliavano. In breve tempo Primo Carnera diventa il più grande pugile dei suoi tempi, ottiene tante vittorie e dimentica l’odore del tappeto, dell'essere un perdente. La sua fama arriva oltreoceano, le sue vittorie rendono orgogliosi gli italiani emigrati, per molti realizza il Sogno Americano e il regime fascista lo osanna. La fortuna sembra seguirlo, nel giro di poco tempo sposerà anche la donna della sua vita. La sconfitta, però, era alle porte: Max Bear lo mette al tappeto, nonostante la sagacia lo porti a rialzarsi per ben 10 volte. La scarsa cultura e la tanta, troppa semplicità non perdonano, manager incalliti e senza scrupoli gli derubano gran parte dei guadagni. Ma ormai è un Mito e tale resterà negli anni, i figli ne raccoglieranno le memorie e non patiranno la fame.
Enzo Martinelli è molto bravo a ripercorre le tappe del grande pugile italiano, tanto popolare nel periodo fascista ed a illustrarne la storia anche a chi non lo conosceva, perché troppo giovane. Ammirevole il modo in cui il regista ne ha rappresentato anche la semplicità, che spesso non si crede debba appartenere ad un mito. Bellissima dal punto di vista tecnico la ricostruzione in digitale del Madison Squadre Garden e delle enormi platee che seguivano gli incontri di boxe. Stilisticamente invece troppo artificioso il passaggio dal bianco e nero della pellicola invecchiata alla color correction moderna e qualche perplessità sorge riguardo l’interpretazione dei personaggi, si fa fatica ad affezionarsi e ad esserne coinvolti, colpa forse del doppiaggio. In definitiva, il film tecnicamente e narrativamente non fa una piega, eppure se qualche episodio didascalico fosse stato omesso per approfondire la caratterizzazione dei personaggi, nonché la sensibilità di questa montagna d’uomo che soccorre i suoi avversari, che diventa simbolo di riscatto e di gloria per un' intera nazione e che è fiero di incassare pugni per dare un futuro ai propri figli, forse ci sarebbe stato un filo di commozione in più nel vederlo e non solo nel raccontarlo. E, magri, non sarebbe sembrato a chi è appena uscito dalla sala, di aver seguito la cronistoria di un mito dall’odore di fiction.
Marta Ronzone

martedì 20 maggio 2008

Ma è il mio Paese


Domanda: è possibile amare l’Italia, prescindendo da chi la governa? È possibile – forse riformulata così suona meglio - che un giorno l’italiano medio dica, come gli statunitensi: giusto o sbagliato è il mio Paese, giusto o sbagliato è il governo del mio Stato, della Repubblica di cui sono cittadino…? Perché fino a qualche giorno fa (forse illudendoci, ma speriamo di no), ritenevamo che quel tanto sospirato giorno non fosse poi così lontano. Ci riferiamo ad un fatto avvenuto solo qualche settimana fa, precisamente alla risposta che Massimo D’Alema diede al figlio del colonnello Gheddafi, il quale aveva detto senza mezzi termini che l’eventuale nomina di Calderoni a ministro avrebbe guastato i rapporti tra Libia ed Italia. Giustamente, D’Alema rispose che l’Italia era uno Stato sovrano, dunque libero di darsi i ministri che voleva. D’Alema, cioè uno dei massimi esponenti dell’opposizione e del Partito socialista europeo. Sembrava davvero che anche da noi, almeno nei rapporti con l’esterno, la fazione, finalmente, cedesse il posto alla nazione. Sembrava. L’impressione di avere preso un abbaglio, che in realtà tutto fosse rimasto come prima, di essere stati troppo ottimisti l’abbiamo avuta constatando che nessuna voce autorevole del Partito democratico o dell’Italia dei valori si è levata per stigmatizzare le dichiarazioni d’un ministro spagnolo che ha consigliato a Berlusconi di farsi visitare da uno psichiatra (!), offrendosi di pagargli le sedute. Uno statista d’un altro Paese dà del malato di mente al nostro Capo di governo e nessuna personalità dell’opposizione che mostri indignazione (provate ad immaginare anche per un solo momento se fosse avvenuto il contrario). Così, all’improvviso e tristemente, sono tornati alla mente ricordi di fatti non troppo lontani nel tempo. Per esempio, un vicecapo di governo belga (per di più d’origine italiana) che si rifiuta di stringere la mano al nostro ministro Tatarella, la candidatura di Rocco Buttiglione a commissario europeo che viene respinta anche grazie al voto di molti europarlamentari italiani dello schieramento avverso, intellettuali italiani che si rifiutano di partecipare ad eventi culturali all’estero adducendo di non voler rappresentare un Paese governato da Berlusconi… Ricordiamo anche il Re di Spagna che si rivolge a Chavez, mentre costui sta insultando lo spagnolo Aznar, dicendogli: «Perché non stai zitto?» Ecco, ci piacerebbe se, un giorno, un uomo politico italiano in una situazione simile si comportasse allo stesso modo. E, detto tra noi, non ci pare di chiedere troppo.
Mauro Ammirati

lunedì 19 maggio 2008

Una risorsa, un potenziale problema


Quella della cosiddetta “badante” è la figura centrale del nuovo welfare state italiano. In un Paese come il nostro, che – statistiche alla mano – invecchia spaventosamente, le risorse da destinare all’assistenza sociale con gli anni non possono che aumentare ed il rischio che un giorno non siano più sufficienti per garantire una vita dignitosa ad un numero ragguardevole di cittadini, soprattutto agli anziani, è tutt’altro che remoto. Quelle centinaia di migliaia di donne provenienti dall’Europa dell’Est e – numericamente molto meno – dall’Africa e che si prendono cura dei nostri ultrassettantenni oggi svolgono un ruolo insostituibile nel tessuto sociale italiano. Come giustamente è stato fatto osservare da diversi studiosi della materia, in Italia, negli ultimi anni, è stato impiantato un welfare state “fai da te”, fondato su due pilastri: i giovani rinunciano a sposarsi (o si sposano oltre i 35 anni) restando a vivere con i proprio genitori, mentre alla vecchia generazione provvedono, appunto, le badanti o collaboratrici familiari. Normale che il neoministro dell’Interno, Roberto Maroni, abbia dichiarato che proprio queste ultime saranno escluse dalle nuove restrizioni che ci si appresta ad apportare alla legislazione sull’immigrazione. Qualora tutte le badanti tornassero (o venissero rimandate) a casa, per un milione circa di famiglie italiane sarebbe un dramma. Ed è altrettanto vero che diversi settori della nostra economia dovendo fare a meno della manodopera di immigrati avrebbero seri problemi sul piano della competitività, qualche azienda addirittura abbasserebbe, come suol dirsi, la “serranda”. Aggiungiamo che, dal punto demografico, gli immigrati sono molto più prolifici degli italiani, il che è rassicurante per i conti del nostro sistema previdenziale, il quale non reggerebbe a lungo in presenza di forti squilibri nel rapporto tra lavoratori attivi e pensionati. Per farla breve, siamo tutti abbastanza assennati per comprendere che il nostro Paese di immigrati ha bisogno eccome. Se certe distinzioni le fa perfino un leghista d’origine controllata come Maroni, qualcosa significherà. Il problema è che una risorsa, quantunque necessaria, se non è bene utilizzata può diventare un problema. La questione italiana del momento è tutta qui: l’immigrazione rischia di andare fuori controllo, per troppi anni il fenomeno non è stato tenuto dalla classe politica nella debita considerazione, così da risorsa è diventato un problema. Solo per menzionare un fatto, l’indulto – così adducono i suoi fautori - è stato una conseguenza dell’incremento della popolazione carceraria, che a sua volta è stato una conseguenza dei tanti reati commessi da immigrati. Ora, ciò che si sta cercando di fare è chiudere la stalla prima che scappino i buoi, intervenire prima che sia troppo tardi, cioè prima che si renda necessario un altro indulto, che un altro campo nomadi venga incendiato, che un’altra donna rom venga salvata miracolosamente da un linciaggio… Alcuni ministri spagnoli accusano il governo italiano di xenofobia, dimostrando di non avere compreso che l’unico modo efficace di prevenire la xenofobia è quello di disciplinare e regolamentare con un certo rigore l’utilizzo d’una risorsa che potenzialmente è sempre un problema.
Mauro Ammirati

sabato 17 maggio 2008

Gli ostacoli sulla strada del dialogo


La buona volontà è sempre da apprezzare. Se Berlusconi e Veltroni scelgono la via del dialogo, anteponendo – contrariamente a quanto è avvenuto dal 1994 ad oggi – l’interesse generale a quello di parte, se si riesce a sostituire il confronto all’incomunicabilità, possiamo solo rallegrarcene. Così come è da apprezzare il metodo che si è convenuto di adottare nel caso in questione: affrontare, una per una, poche questioni, cominciando da quelle sulle quali in passato si sono già manifestate convergenze (come la diminuzione del numero dei parlamentari), piuttosto che provare a scrivere insieme grandi progetti di riforma costituzionale (il meglio è nemico del bene). Ciò non toglie, purtroppo, che sulla strada tracciata dai leaders del Pd e del Pdl restino due grandi ostacoli. Il primo è il referendum Segni-Guzzetta, che è stato solo rinviato e che, quindi, è destinato a suscitare nuovamente forti tensioni, specie all’interno del centrodestra, essendo particolarmente temuto dalla Lega Nord. Tecnicamente, prima ancora che politicamente, non sarà facile disinnescare quella bomba. Per inciso: non è affatto vero che la Calderoni abbia dimostrato, in realtà, di essere una buona legge, la semplificazione del quadro politico che si è concretizzata sotto i nostri occhi in occasione delle ultime elezioni politiche è da attribuire unicamente alle scelte strategiche di Pd e Pdl e si è realizzata “nonostante” la formula elettorale. Il secondo ostacolo da superare in questa nuova fase del rapporto tra i due poli è il federalismo fiscale. Occorre ricordarlo ancora una volta: la Lega nel Settentrione è fortissima, ma rappresenta un elettore su cinque e nel resto del Paese è quasi inesistente. Il referendum confermativo sulla devolution del 2006 ha dimostrato inconfutabilmente che, a dispetto di quanto in molti affermano, alla stragrande maggioranza degli italiani la causa federalista non sta poi tanto a cuore. Ed abbiamo più d’una ragione per ritenere che specie al Sud l’idea di ripartire le risorse secondo il disegno leghista provochi più preoccupazione che altro. Inutile nasconderselo, il problema è tutt’interno al centrodestra ed a dimostrarlo possono bastare le cifre relative alla consultazione referendaria summenzionata, le quali attestano che una percentuale rilevante di elettori dell’allora Cdl due anni fa si espressero contro la devolution, approvata dal Parlamento e poi sottoposta al giudizio degli italiani. Berlusconi ripete spesso che senza la Lega non si vince. I numeri (e le elezioni del 1996) gli danno ragione. Il punto è che Bossi è consapevole di rappresentare un partito che, almeno per il momento (in futuro vedremo), non è nazionale, ma territoriale, persegue gli interessi del Nord portando in dote all’alleanza i suoi numerosi consensi. Per un partito nazionale come il Pdl, invece, la questione è particolarmente complicata. Se in materia di poteri alle Regioni si spinge oltre un certo limite, metà del suo elettorato gli volta le spalle. Il problema non è trovare un accordo tra alleati, magari riunendosi in una baita alpina, come avvenne qualche anno fa. Perché non serve ai generali disegnare grandi strategie militari se poi i loro eserciti non li seguono.
Mauro Ammirati

martedì 13 maggio 2008

Non è solo fair play


Durante l’ultima campagna elettorale si diceva ironicamente che, per i programmi presentati, le tattiche adottate e le strategie perseguite, Veltroni e Berlusconi somigliavano al punto che si faceva fatica a distinguerli. Ed invero, era qualcosa di più d’una battuta. Ambedue avevano mutato radicalmente linea sulle alleanze, scaricando i piccoli partiti con cui erano stati coalizzati per un quindicennio o inglobandoli nel Pdl e nel Pd. Quanto ai programmi, in effetti, sembrava che, sebbene con toni e stili differenti, sulle varie questioni, dalla sicurezza alla pressione fiscale, entrambi dicessero le stesse cose ed avanzassero le stesse proposte. La convergenza era palese soprattutto sulle riforme istituzionali, riguardo alle quali sia l’uno che l’altro andavano ripetendo che, chiunque avesse vinto le elezioni, le modifiche alla Costituzione, alla legge elettorale ed ai regolamenti parlamentari sarebbero state fatte con il consenso dell’opposizione. Dunque, non c’è da meravigliarsi che ieri Berlusconi abbia telefonato a Veltroni, chiedendogli di incontrarlo per concordare, intanto, il da farsi sui regolamenti di Camera e Senato. Non si tratta, infatti, di fair play o galateo istituzionale, ma dei primi segnali di grandi manovre politiche. Berlusconi ha appena giurato per la quarta volta da Presidente del Consiglio dei ministri, Veltroni è stato vicepremier di Romano Prodi da 1996 al 1998, senza contare che, nonostante sia relativamente giovane, fa politica da una vita. Tutti e due hanno abbastanza esperienza di governo da sapere che una democrazia finisce nel caos e nell’impotenza se le grandi forze politiche devono subire le minacce, i ricatti ed i veti delle piccole e, soprattutto, se le regole del gioco sono inadeguate. Di qui, la loro coraggiosa e simmetrica decisione di rompere con i partiti il cui peso politico era sproporzionato rispetto alle bassi percentuali di consenso che raccoglievano. Di qui anche la dichiarata e più volte ribadita volontà comune di riscrivere insieme la Carta fondamentale e la legga elettorale. Entrambi sono consapevoli che, tra debito pubblico crescente, economia in grave affanno, emergenze varie (immigrazione, criminalità, rifiuti in Campania…) e la credibilità della classe politica ben al di sotto del limite di guardia, l’Italia stavolta rischia davvero di grosso. O lo Stato italiano riesce a raggiungere un discreto livello d’efficienza o il malessere diffuso nel Paese può avere conseguenze imprevedibili. I due leader hanno compreso che lo scontro ad oltranza ed il disfattismo non possiamo più permetterceli perché c’è una Repubblica da rimettere in piedi. A quanto pare, era necessario toccare il fondo perché venisse ascoltato il grido di dolore che sale da un popolo che ogni giorno che passa perde sempre più fiducia nelle istituzioni. Meglio tardi che mai.
La scelta strategica del dialogo da parte di Berlusconi è dovuta anche a ragioni strettamente pratiche. L’esperienza recente ha dimostrato che non è un rischio da poco fare le riforme istituzionali a maggioranza assoluta. Il referendum confermativo sulla devolution nel 2006 fu un disastro per il centrodestra e rischiò di trascinarlo in una crisi irreversibile. Solo la debolezza genetica del governo Prodi permise alla coalizione di Berlusconi di recuperare terreno e prepararsi alla rivincita. Ma ad un altro simile errore il Pdl, forse, non riuscirebbe a sopravvivere.
Mauro Ammirati

venerdì 9 maggio 2008

Una rivoluzione silenziosa


I governi formati da Silvio Berlusconi, in passato, hanno sempre suscitato, inizialmente, molte aspettative. Gli esecutivi da lui presieduti sono stati considerati, nel momento del loro insediamento, sia nel 1994, che nel 2001, un punto di rottura, una svolta rispetto alla tradizione politica italiana. Quattordici anni fa, agli occhi degli italiani, Berlusconi era l’imprenditore di successo, il self made man che avrebbe fatto funzionare lo Stato come un’azienda, rendendolo efficiente e magari anche produttivo. Non andò così, non ci fu una rivoluzione in senso aziendale e nemmeno liberale, la sua prima esperienza da Presidente del Consiglio dei ministri durò circa sei mesi. Troppa diffidenza separava ancora i componenti della coalizione di centrodestra, mettere insieme Lega Nord ed An si era rivelato un azzardo. Nel 2001, quando Berlusconi assunse, per la seconda volta, la premiership, potendo egli contare su una maggioranza in Parlamento numericamente solida come non si era mai vista prima nella storia della Repubblica, era convinzione diffusa che fosse davvero giunto il momento della rivoluzione liberale. E poi, pensavano in tanti, uno come Berlusconi non può fallire due volte. In quel quinquennio non ci furono liberalizzazioni né privatizzazioni, il centrodestra riuscì comunque a votare in Parlamento una legge di revisione costituzionale poi respinto nel referendum confermativo. Se è esagerato parlare d’un altro fallimento, si può almeno affermare che, alla prova dei fatti, quell’esecutivo non si distinse dagli altri che lo avevano preceduto. Nell’ultima campagna elettorale il leader del Pdl ha preferito mantenere i toni bassi, non si è sbilanciato in promesse, ripetendo, semmai, ad ogni occasione che la congiuntura sfavorevole avrebbe imposto una politica di sacrifici. Non ha parlato di miracoli e sogni, neppure di rivoluzione liberale, tanta sobrietà lo rendeva quasi irriconoscibile. Eppure, proprio stavolta, una rivoluzione silenziosa l’ha fatta davvero, affidando dicasteri a quattro giovani che hanno meno di quarant’anni ed un altro dicastero ad una quarantunenne. In un Paese come il nostro, la formazione d’un esecutivo con un’età media così bassa è una novità rilevante, un punto di rottura. Si fa strada nella politica italiana la generazione che nei cosiddetti “anni di piombo” era appena venuta al mondo, che non è stata intossicata dalla violenza e dall’odio ideologico che insanguinarono l’Italia per tutti gli anni ’70 ed anche oltre. Nessuno di questi giovani ministri ha portato sulle sue spalle la bara d’un amico ucciso dagli estremisti della parte opposta, nessuno di loro serba ricordi drammatici, come il nuovo Sindaco di Roma che porta al collo una catenina con la croce celtica che apparteneva ad un suo amico ucciso nei primi anni ’80 a sprangate. Una delle ragioni che hanno impedito al sistema politico italiano di modernizzarsi negli ultimi quindici anni è stata la mancanza d’una reciproca legittimazione tra i due poli, il rancore lasciato dai lutti degli anni Settanta ha reso ancora più difficile la riconciliazione dopo la guerra civile seguita al crollo del regime fascista. Alle ferite che non si riuscì a sanare dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si aggiunsero quelle provocate dagli opposti estremismi di trent’anni dopo. Un clima d’avversione fratricida si è perpetuato dal 1943 ad oggi divenendo l’ostacolo principale alla costruzione in Italia d’una vera democrazia compiuta. Un ostacolo che poteva essere superato solo attraverso il fisiologico ricambio tra generazioni. Ciò che avviene in questi giorni sotto i nostri occhi forse è la più importante riforma istituzionale.
Mauro Ammirati

lunedì 5 maggio 2008

Non resta alcun modello



Probabilmente, non era mai accaduto che le elezioni comunali a Londra suscitassero tanto clamore, per quanto detta metropoli sia importante, sotto ogni aspetto. I conservatori vincono a mani basse il voto amministrativo in Inghilterra e Galles, compresa la capitale del Regno Unito. E così come il 14 aprile in tutta Italia e, sorprendentemente due settimane dopo, nell’elezione del Sindaco di Roma, anche Oltremanica a determinare l’esito della consultazione sono stati due argomenti: immigrazione e tutela dell’ordine pubblico. La sinistra italiana, sconsolata, sospira: in Europa soffia un vento di destra. E sbaglia. In primo luogo, perché non è vero, dato che Zapatero ha vinto le elezioni politiche spagnole solo qualche settimana fa. In secondo luogo, perché il fatalismo mal si concilia con la politica. Sarebbe opportuno, invece, fare una semplice (si fa per dire) comparazione, tra la vittoria del Pdl e di Alemanno in Italia e quella dei tory di qualche giorno fa. Infatti, al contrario di quanto può dirsi del nostro Paese, l’Inghilterra il melting-pot non lo sta scoprendo oggi. È un ex potenza coloniale, pertanto da molto tempo abituata alla pacifica convivenza interetnica, interrazziale ed interconfessionale. L’immigrazione può forse far paura a noi italiani, non ad un popolo che con il “crogiolo” ha una certa dimestichezza. Non credo, inoltre, sia inopportuno ricordare che poco più d’anno fa, in tutta Europa vedemmo delle immagini televisive che riprendevano l’allora ministro dell’Interno francese, Nicolas Sarkozy, nel mezzo della banlieu parigina in fiamme, che volgeva lo sguardo verso l’alto gridando ad alcuni immigrati affacciati alla finestra: «Ne avete abbastanza di questa feccia?» Di lì a poco tempo, Sarkozy, figlio di padre ungherese e con un nonno greco di religione ebraica, divenne Presidente della Repubblica francese, anche lui promettendo, in campagna elettorale, law and order. Anche qui parliamo d’un Paese che, per storia e tradizione culturale, come l’Inghilterra, ha forti anticorpi contro la xenofobia. Dunque, cosa si deduce da tutti i fatti summenzionati? Che non è l’immigrazione in sé il problema, ma lo spaventoso incremento dei reati che ne è conseguito, insieme alla diffusione sempre maggiore del senso d’insicurezza. E cioè, per essere ancora più chiari, che tutti i modelli d’integrazione sono falliti o, comunque, che sono, allo stato attuale, messi a dura prova. Perché se immigrazione e delinquenza sono diventati (ed innegabilmente sono diventati) grandezze direttamente proporzionali, è segno che i modelli sperimentati finora non tengono più. Le soluzioni adottate negli ultimi decenni in materia d’integrazione degli immigrati nel Nord Europa hanno indubbiamente portato ottimi risultati, ma ora sembra che mostrino la corda. Ora, mi permetto di riportare la testimonianza di un sacerdote del Congo, con cui ebbi a parlare tempo fa. Sfregò il piede sul terreno e mi disse: «Nel mio Paese basta fare così e trovi i diamanti.» Eppure era in Italia per raccogliere fondi per i bambini denutriti della sua parrocchia. Vado sempre più persuadendomi che diverse centinaia di milioni di africani ed asiatici, piuttosto che essere accolte in Occidente, preferirebbe essere liberate in casa propria da regimi politici tirannici che s’impadroniscono delle ingenti risorse naturali ed affamando i loro stessi popoli. Più che nuovi modelli d’integrazione, occorre una nuova politica estera per il Terzo Mondo, che parta da quel principio che uomini saggi scrissero su un importante documento nel 1776, secondo il quale tra i diritti inalienabili dell’uomo ce ne sono tre che nessuna autorità dovrà mai conculcare: Life, Liberty and Pursuing of Happiness.
Mauro Ammirati

venerdì 2 maggio 2008

Un equivoco spiacevole


Il consenso trasversale o bipartisan raccolto dal discorso pronunciato da Gianfranco Fini in occasione del suo insediamento alla Presidenza della Camera, indubitabilmente rappresenta un buon viatico per la legislatura appena cominciata. L’Italia non può più aspettare le riforme costituzionali, ha detto, in sostanza, il neoletto Presidente, a meno di continuare a perdere terreno rispetto alle altre democrazie occidentali di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione. Ed aggiungendo che Francesco Cossiga e Carlo Azeglio Ciampi, nell’esercizio della massima carica dello Stato, hanno spianato la strada al processo di modernizzazione del Paese. Fin qui, nulla da eccepire, parole sante, sottoscriviamo senza esitazione. Ciò che invece ci lascia assai perplessi è quel passaggio in cui Fini manifesta il suo pieno e convinto sostegno allo sforzo di Benedetto XVI teso a contrastare il relativismo etico. Non che noi troviamo qualcosa di lodevole nel relativismo etico, il punto è che ancora una volta il centrodestra, attraverso le dichiarazioni di un suo autorevole leader, mostra di avere un concetto discutibile del cristianesimo. Troppo spesso, nel recente passato, abbiamo ascoltato i principali esponenti dell’attuale Pdl parlare della necessità di preservare «l’identità cristiana dell’Italia». Orbene, che il cristianesimo abbia avuto un ruolo preminente nella costruzione della civiltà occidentale è argomento sul quale non vale neanche la pena di soffermarsi a discutere. Mentre è bene che ci si soffermi su un altro aspetto, per mettere in chiaro l’errore in cui cade il centrodestra: il cristianesimo non è un identità. Che abbia forgiato l’identità europea è storicamente vero, come è vero che esso non è una filosofia, non è un sistema di valori e neppure una semplice dottrina. Al centro del cristianesimo, per i cristiani, c’è un uomo, il Dio che si è fatto uomo, il Redentore che ha liberato l’umanità dalle catene del peccato originale. «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se morisse vivrà», dice Gesù a Marta, prima di risuscitare suo fratello Lazzaro. Come tutto questo sia riducibile a semplice «identità», francamente, non si riesce a comprenderlo. Quel che per i cristiani è la Rivelazione da molti uomini politici italiani è considerato né più né meno che retaggio culturale, qualcosa da difendere unicamente perché appartiene alla storia del nostro Paese. Una grande mistica del XVI secolo, Santa Teresa d’Avila, riferendosi alle Sacre Scritture ammoniva: «Delle due l’una: o ci credete o no.» Ritenere il messaggio evangelico semplicemente una tradizione culturale, è indice di – spiace dirlo – superficialità e, sotto certi aspetti, proprio di relativismo etico, quella tendenza culturale che pure dalle parti del centrodestra dicono di avversare. Se questa è l’idea che hanno del cristianesimo nel Pdl, non deve destare meraviglia che, tanto per fare un esempio (e potremmo farne tanti altri) in occasione del referendum sulla fecondazione assistita Fini abbia assunto la posizione che sappiamo. Nemmeno che nel Pdl sulle cosiddette questioni etiche ognuno vada per conto proprio. Se il cristianesimo è soltanto «identità», tutto è ammesso. Nel centrodestra forse sono davvero convinti che 21 secoli fa un uomo che diceva di essere Figlio di Dio sia venuto sulla terra per dare un identità all’Europa.
Mauro Ammirati