Il ventennale della morte di Giorgio Almirante è stato l’occasione per tornare a parlare d’una delle figure più discusse e controverse dei primi quarant’anni di storia della Repubblica italiana. Il nuovo Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, vorrebbe intitolargli una via della capitale e siccome la toponomastica è importante la comunità ebraica ha fatto sapere di essere assolutamente contraria. Di Almirante si è discusso ieri anche alla Camera dei Deputati, in particolare dei suoi interventi pubblicati, durante il Ventennio, sulla rivista “La difesa della razza”. «Frasi vergognose», le ha definite il Presidente dell’assemblea, Gianfranco Fini, suo successore alla guida del M.s.i.-D.n., su indicazione proprio del leader dimissionario, sul finire degli anni ’80. Ancora oggi, Almirante divide, suscita polemiche anche aspre, infiamma il dibattito politico e riaccende vecchie passioni. Ma chi era davvero quell’uomo cui anche gli acerrimi avversari, anzi i nemici, riconoscevano una grande capacità di comunicazione ed un ascendente fuori dal comune non solo sugli elettori missini? Diciamolo subito: era un leader che rifletteva e personificava la doppiezza del suo stesso partito. Esistevano due Almirante, perché il M.s.i. aveva due anime, era un partito combattuto tra il cuore e la ragione, con un piede nel “sistema” ed uno fuori, restando per mezzo secolo nel guado, sul crinale che divide la liberaldemocrazia e l’ideologia della destra radicale e rivoluzionaria. Era una forza politica che indossava la camicia nera e la giacca in doppiopetto, che si sforzava di guardare avanti ma non riusciva a liberarsi della nostalgia, che voleva essere borghese e rassicurante per la cosiddetta maggioranza silenziosa, ma nel contempo proponeva la socializzazione e la partecipazione agli utili nelle imprese, che chiedeva il presidenzialismo insieme ad una versione aggiornata della Camera delle corporazioni. Era una destra che voleva essere filoccidentale, ma era prigioniera dei riflessi condizionati tipici degli ex repubblichini che la rendevano ostile agli U.s.a., Non deve sorprendere che Almirante parlasse d’un Europa unita «dall’Atlantico agli Urali», che predicasse la «pacificazione nazionale», la fine della guerra civile italiana, nemmeno che andasse a rendere omaggio alla salma del segretario del P.c.i. Enrico Berlinguer, passando da solo tra due ali di folla e numerose bandiere al vento con falce e martello e che poi chiedesse che qualcuno dei suoi nemici facesse un gesto di buona volontà, portando un mazzo di fiori a piazzale Loreto, dove tanti anni primi anni il Duce, Claretta Petacci ed alcuni gerarchi fascisti erano stati appesi per i piedi. Non deve sorprendere neppure che dicesse che il M.s.i. era una forza politica sinceramente democratica, aggiungendo però che le sue radici ideologiche erano non nel «fascismo regime», ma nel «fascismo movimento», cioè, storicamente, nel primo e nell’ultimo fascismo. Almirante era tutto questo perché conosceva bene il suo partito, essendone stato uno dei fondatori. Sapeva che le contraddizioni del M.s.i. erano costituzionali, genetiche, erano nel Dna. «Né rinnegare, né rinnegare», era il motto dei missini, consapevoli che era impossibile ricostruire lo Stato etico gentiliano, ma ciononostante diffidavano del modello di democrazia parlamentare. Era impossibile anche per un leader amato come lui prendere il M.s.i. ed aiutarlo a superare la soglia oltre la quale avrebbe potuto integrarsi nella democrazia occidentale. La svolta di Fiuggi arrivò nel 1994, cinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino, la fine delle ideologie e della Guerra fredda. In Italia eravamo sotto un altro cielo. Il cielo sotto cui era vissuto Almirante certe scelte non le avrebbe mai consentite. Almirante non era un santo, né un diavolo. È stato solo un uomo del suo tempo.
Mauro Ammirati
Mauro Ammirati
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