I governi formati da Silvio Berlusconi, in passato, hanno sempre suscitato, inizialmente, molte aspettative. Gli esecutivi da lui presieduti sono stati considerati, nel momento del loro insediamento, sia nel 1994, che nel 2001, un punto di rottura, una svolta rispetto alla tradizione politica italiana. Quattordici anni fa, agli occhi degli italiani, Berlusconi era l’imprenditore di successo, il self made man che avrebbe fatto funzionare lo Stato come un’azienda, rendendolo efficiente e magari anche produttivo. Non andò così, non ci fu una rivoluzione in senso aziendale e nemmeno liberale, la sua prima esperienza da Presidente del Consiglio dei ministri durò circa sei mesi. Troppa diffidenza separava ancora i componenti della coalizione di centrodestra, mettere insieme Lega Nord ed An si era rivelato un azzardo. Nel 2001, quando Berlusconi assunse, per la seconda volta, la premiership, potendo egli contare su una maggioranza in Parlamento numericamente solida come non si era mai vista prima nella storia della Repubblica, era convinzione diffusa che fosse davvero giunto il momento della rivoluzione liberale. E poi, pensavano in tanti, uno come Berlusconi non può fallire due volte. In quel quinquennio non ci furono liberalizzazioni né privatizzazioni, il centrodestra riuscì comunque a votare in Parlamento una legge di revisione costituzionale poi respinto nel referendum confermativo. Se è esagerato parlare d’un altro fallimento, si può almeno affermare che, alla prova dei fatti, quell’esecutivo non si distinse dagli altri che lo avevano preceduto. Nell’ultima campagna elettorale il leader del Pdl ha preferito mantenere i toni bassi, non si è sbilanciato in promesse, ripetendo, semmai, ad ogni occasione che la congiuntura sfavorevole avrebbe imposto una politica di sacrifici. Non ha parlato di miracoli e sogni, neppure di rivoluzione liberale, tanta sobrietà lo rendeva quasi irriconoscibile. Eppure, proprio stavolta, una rivoluzione silenziosa l’ha fatta davvero, affidando dicasteri a quattro giovani che hanno meno di quarant’anni ed un altro dicastero ad una quarantunenne. In un Paese come il nostro, la formazione d’un esecutivo con un’età media così bassa è una novità rilevante, un punto di rottura. Si fa strada nella politica italiana la generazione che nei cosiddetti “anni di piombo” era appena venuta al mondo, che non è stata intossicata dalla violenza e dall’odio ideologico che insanguinarono l’Italia per tutti gli anni ’70 ed anche oltre. Nessuno di questi giovani ministri ha portato sulle sue spalle la bara d’un amico ucciso dagli estremisti della parte opposta, nessuno di loro serba ricordi drammatici, come il nuovo Sindaco di Roma che porta al collo una catenina con la croce celtica che apparteneva ad un suo amico ucciso nei primi anni ’80 a sprangate. Una delle ragioni che hanno impedito al sistema politico italiano di modernizzarsi negli ultimi quindici anni è stata la mancanza d’una reciproca legittimazione tra i due poli, il rancore lasciato dai lutti degli anni Settanta ha reso ancora più difficile la riconciliazione dopo la guerra civile seguita al crollo del regime fascista. Alle ferite che non si riuscì a sanare dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si aggiunsero quelle provocate dagli opposti estremismi di trent’anni dopo. Un clima d’avversione fratricida si è perpetuato dal 1943 ad oggi divenendo l’ostacolo principale alla costruzione in Italia d’una vera democrazia compiuta. Un ostacolo che poteva essere superato solo attraverso il fisiologico ricambio tra generazioni. Ciò che avviene in questi giorni sotto i nostri occhi forse è la più importante riforma istituzionale.
Mauro Ammirati
Mauro Ammirati
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