Durante l’ultima campagna elettorale si diceva ironicamente che, per i programmi presentati, le tattiche adottate e le strategie perseguite, Veltroni e Berlusconi somigliavano al punto che si faceva fatica a distinguerli. Ed invero, era qualcosa di più d’una battuta. Ambedue avevano mutato radicalmente linea sulle alleanze, scaricando i piccoli partiti con cui erano stati coalizzati per un quindicennio o inglobandoli nel Pdl e nel Pd. Quanto ai programmi, in effetti, sembrava che, sebbene con toni e stili differenti, sulle varie questioni, dalla sicurezza alla pressione fiscale, entrambi dicessero le stesse cose ed avanzassero le stesse proposte. La convergenza era palese soprattutto sulle riforme istituzionali, riguardo alle quali sia l’uno che l’altro andavano ripetendo che, chiunque avesse vinto le elezioni, le modifiche alla Costituzione, alla legge elettorale ed ai regolamenti parlamentari sarebbero state fatte con il consenso dell’opposizione. Dunque, non c’è da meravigliarsi che ieri Berlusconi abbia telefonato a Veltroni, chiedendogli di incontrarlo per concordare, intanto, il da farsi sui regolamenti di Camera e Senato. Non si tratta, infatti, di fair play o galateo istituzionale, ma dei primi segnali di grandi manovre politiche. Berlusconi ha appena giurato per la quarta volta da Presidente del Consiglio dei ministri, Veltroni è stato vicepremier di Romano Prodi da 1996 al 1998, senza contare che, nonostante sia relativamente giovane, fa politica da una vita. Tutti e due hanno abbastanza esperienza di governo da sapere che una democrazia finisce nel caos e nell’impotenza se le grandi forze politiche devono subire le minacce, i ricatti ed i veti delle piccole e, soprattutto, se le regole del gioco sono inadeguate. Di qui, la loro coraggiosa e simmetrica decisione di rompere con i partiti il cui peso politico era sproporzionato rispetto alle bassi percentuali di consenso che raccoglievano. Di qui anche la dichiarata e più volte ribadita volontà comune di riscrivere insieme la Carta fondamentale e la legga elettorale. Entrambi sono consapevoli che, tra debito pubblico crescente, economia in grave affanno, emergenze varie (immigrazione, criminalità, rifiuti in Campania…) e la credibilità della classe politica ben al di sotto del limite di guardia, l’Italia stavolta rischia davvero di grosso. O lo Stato italiano riesce a raggiungere un discreto livello d’efficienza o il malessere diffuso nel Paese può avere conseguenze imprevedibili. I due leader hanno compreso che lo scontro ad oltranza ed il disfattismo non possiamo più permetterceli perché c’è una Repubblica da rimettere in piedi. A quanto pare, era necessario toccare il fondo perché venisse ascoltato il grido di dolore che sale da un popolo che ogni giorno che passa perde sempre più fiducia nelle istituzioni. Meglio tardi che mai.
La scelta strategica del dialogo da parte di Berlusconi è dovuta anche a ragioni strettamente pratiche. L’esperienza recente ha dimostrato che non è un rischio da poco fare le riforme istituzionali a maggioranza assoluta. Il referendum confermativo sulla devolution nel 2006 fu un disastro per il centrodestra e rischiò di trascinarlo in una crisi irreversibile. Solo la debolezza genetica del governo Prodi permise alla coalizione di Berlusconi di recuperare terreno e prepararsi alla rivincita. Ma ad un altro simile errore il Pdl, forse, non riuscirebbe a sopravvivere.
Mauro Ammirati
La scelta strategica del dialogo da parte di Berlusconi è dovuta anche a ragioni strettamente pratiche. L’esperienza recente ha dimostrato che non è un rischio da poco fare le riforme istituzionali a maggioranza assoluta. Il referendum confermativo sulla devolution nel 2006 fu un disastro per il centrodestra e rischiò di trascinarlo in una crisi irreversibile. Solo la debolezza genetica del governo Prodi permise alla coalizione di Berlusconi di recuperare terreno e prepararsi alla rivincita. Ma ad un altro simile errore il Pdl, forse, non riuscirebbe a sopravvivere.
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