martedì 16 dicembre 2008

Molto più che governare bene



Non sembra vero a noi abruzzesi che ora si parli tanto delle vicende politiche della nostra terra. Non ci siamo abituati, non era mai avvenuto che le elezioni regionali in Abruzzo suscitassero tanta attenzione e tanto clamore in tutta Italia. Ma stavolta la consultazione si svolgeva in un contesto particolare, così che l’elezione del Consiglio e del Presidente d’una regione che ha solo 1.200.000 abitanti nelle ultime settimane è stato uno dei temi centrali del dibattito politico nazionale. Un contesto particolare, dicevamo. Infatti, tutto è cominciato con l’arresto per corruzione, nello scorso luglio, del precedente Presidente, Ottaviano Del Turco e di alcuni assessori della sua Giunta. D’improvviso, l’Abruzzo è diventato simbolo del malaffare e della malversazione (una pubblicità di cui noi abruzzesi avremmo fatto volentieri a meno). Del Turco si dimette, il che, per statuto, comporta lo scioglimento dell’assemblea e vengono indette nuove elezioni. Si capisce subito che la posta in gioco è ritenuta dai leaders nazionali molto importante, a dispetto delle dimensioni demografiche modeste della regione in parola. Se ne ha avuta la conferma durante la campagna elettorale, quando in Abruzzo ad esprimere il proprio sostegno al candidato alla Presidenza del centrodestra, Gianni Chiodi, Berlusconi è venuto ben quattro volte, mentre il centrosinistra mobilitava lo stato maggiore in favore di Carlo Costantini, dell’Italia dei Valori, antagonista di Chiodi. Le ragioni di tanto impegno erano chiare: in una regione in cui la priorità era (ed è) riportare la moralità nella politica, la vittoria simbolicamente avrebbe conferito il titolo di garante del buon governo dal punto di vista dell’etica pubblica, nel senso di chi può riconciliare l’etica con la politica. Non è un caso che Di Pietro per tutta la campagna elettorale abbia insistito molto sulla cosiddetta “questione morale”, dopo avere posto al Pd come condizione irrinunciabile alla stipulazione dell’alleanza l’esclusione dalle liste di candidati di uomini sotto indagine giudiziaria. E non è nemmeno un caso che proprio Di Pietro, abbia visto i consensi al suo partito moltiplicarsi quasi sette volte rispetto alle ultime elezioni regionali. I numeri usciti dalle urne dimostrano che il rapporto di alleanza-competizione nel centrosinistra giova all’Italia dei valori e danneggia il Pd, come avevamo già spiegato in un nostro articolo di qualche settimana fa. Va tenuto presente, inoltre, un dato estremamente preoccupante: il 47% degli aventi diritto non ha votato, segno che la sfiducia verso la classe politica locale è molto più diffusa di quanto si immaginasse. Il compito che aspetta Gianni Chiodi è estremamente gravoso, dunque, non soltanto per la difficilissima situazione debitoria in cui versa la regione, ma soprattutto perché l’altissima percentuale di elettori che hanno disertato le urne attesta che in Abruzzo ora occorre ricucire pazientemente il tessuto sociale. Non si tratta solo di governare bene, che è già di per sé molto difficile, ma di restituire dignità alla politica. La speranza è che Chiodi ne sia consapevole.
Mauro Ammirati

lunedì 24 novembre 2008

Ma ora si decida


Si fa fatica a crederci, ma la questione che nelle ultime settimane ha impegnato di più la classe politica italiana è stata la presidenza della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. A milioni di italiani che recentemente hanno perso il posto di lavoro o rischiano di perderlo nelle prossime settimane è facile immaginare quanto possa stare a cuore che a presiedere l’organo suddetto sia Leoluca Orlando oppure Riccardo Villari oppure ancora Sergio Zavoli. È sconcertante, ma non inspiegabile. Infatti, è la conseguenza della situazione in cui è venuto a trovarsi il Partito Democratico. Solo Veltroni può sbloccare tale situazione e fare chiarezza una volta per tutte, senza escludere che ciò possa comportare per il Pd il rischio d’una scissione. Di quel leader dialogante e dallo stile anglosassone che girava l’Italia durante la campagna elettorale della scorsa primavera dicendo che bisognava finirla con «il linguaggio dell’odio» è rimasto solo uno sbiadito ricordo. Piaccia o no, sosteneva allora Veltroni, Berlusconi ed i suoi alleati rappresentano in questo Paese un votante su due, pertanto non possiamo sottrarci al dovere di confrontarci con loro e rendere la politica italiana un po’ meno conflittuale. Uno sforzo meritorio. Forse il centrodestra non l’ha aiutato abbastanza, ma va aggiunto che neanche Veltroni ha aiutato se stesso. I problemi si sono presentati subito, sin dal dibattito sul voto di fiducia in Parlamento al nuovo governo. In quella circostanza, Di Pietro, annunciando voto contrario e rivolgendosi al premier incaricato, dichiarò: «Conosciamo la sua storia personale.» Il primo errore commesso da Veltroni è stato quello di non capire che l’avversione di Di Pietro nei confronti di Berlusconi è un fatto «personale». Non si tratta di remore di carattere ideologico, il leader dell’Italia dei valori non ha mai perso occasione per dimostrare che del centrodestra non gli piace la “persona” del leader (appena qualche giorno fa ha accostato Berlusconi al famigerato generale Jorge Videla, nel caso il concetto non fosse abbastanza chiaro). Berlusconi e Di Pietro non sono avversari politici, sono nemici irriducibili, non c’è possibilità alcuna di dialogo tra i due, pertanto Veltroni deve scegliere: se persegue ancora il disegno di costruire una democrazia fondata sulla legittimazione vicendevole dei due schieramenti, allora deve rompere con Di Pietro; in caso contrario, darà (come sta dando) sempre l’impressione di essere un leader indeciso ed al traino d’un alleato. Da quattordici anni la politica italiana ha davanti a sé un problema che non riesce a risolvere: una parte della sinistra ritiene che non si possa riconoscere a Berlusconi la dignità d’avversario. Chiunque, in questi quasi tre lustri, a sinistra abbia cercato di dare al fondatore di Forza Italia la patente di “leader rispettabile” si è bruciato e lo stesso Berlusconi, con i suoi attacchi alla magistratura e leggi come il “lodo Alfano”, di certo non ha dato una mano agli avversari che volevano legittimarlo. Fatto sta che oggi la sinistra più ostile al Capo di governo ha trovato il suo rappresentante in Antonio Di Pietro. Dunque, o Veltroni prende il coraggio a due mani, abbandona questa sinistra e va per la sua strada, consapevole che scelte simili non sono mai indolori; oppure, resterà a metà del guado, magari osservando con rimpianto Mc Cain ed Obama che dopo pochi giorni il 4 novembre si sono incontrati stringendosi la mano.
Mauro Ammirati

giovedì 6 novembre 2008

Oltre il sogno


Ora sembra che sia scomparso anche il fuso orario. A New York, a Roma, a Parigi ed a Copenaghen l’orologio segna la stessa ora. La sera del 11 settembre 2001 in Europa non trovavi nessuno che steccasse, manco a pagarlo. Era un coro perfetto: «Siamo tutti americani.» Tempo qualche mese ed ogni europeo tornò a fare il proprio mestiere, gli antiamericani tornarono a fare gli antiamericani. Oggi, grazie a Dio, senza che sia accaduta alcuna tragedia, nel Vecchio continente si rivive lo stesso spirito dell’11 settembre: siamo tutti americani. L’elezione alla Presidenza della Repubblica d’un americano di colore ha di certo riavvicinato States ed Europa, era inevitabile, inoltre, che Barack assurgesse ad icona del riscatto degli afroamericani e, forse, di tutti gli statunitensi che non siano wasp. Non capitava da molto tempo che il Vecchio ed il Nuovo Mondo si sentissero così vicini. Perché quella generata dall’attentato alle Twin Towers era una solidarietà compassionevole, una comunanza di sentimenti originata dal dolore che aveva colpito migliaia di famiglie. Erano state troppo sconvolgenti quelle immagini televisive che ci avevano fatto vedere l’Apocalisse in diretta, perché, almeno per qualche settimana, non ci si sentisse anche a Roma tutti americani. Ma si trattava d’una reazione emotiva, era un filoamericanismo occasionale ed effimero. Infatti, ebbe breve durata. Stavolta è diverso, l’entusiasmo scatenato in Europa dalla vittoria di Obama ci riporta ai tempi di JFK (che, però, aveva origini irlandesi, cioè europee ed era cattolico). Oggi come allora, gli europei sperano che l’uomo della White House rappresenti “l’altra” America, che incarni una politica più attenta alla causa dei più deboli, meno belligerante, più dialogante e, soprattutto, capace di regalare un sogno al mondo intero. «Yes we can» altro non esprime che un sogno. Non è un caso che su questa sponda dell’Atlantico, nelle ultime ore i termini più abusati del vocabolario inglese siano “dream” e “change”. Proprio qui dobbiamo soffermarci nella nostra analisi. Non so quanto sia fondata, ma l’impressione è che moltissimi europei abbiano preso una cantonata, scambiando Obama per qualcun altro. La figura del neopresidente ha ormai innegabilmente una forte carica simbolica, ma se vogliamo metterla su questo piano, allora sia chiaro: Barack non è Salvador Allende, non è neppure Olof Palme e, per venire ai giorni nostri, non è neppure Zapatero. Le troppe aspettative che si sono create intorno ad Obama sono destinate, temo, a restare deluse. Il nuovo Presidente può parlare d’un mondo migliore, ci crede davvero e fa bene. Ma non potrà disinteressarsi alla guerra al terrorismo che ha colpito gli States nel cuore, una guerra che è ancora lungi dal concludersi; cercherà di accelerare il ritiro delle truppe dall’Irak, ma dovrà agire con prudenza, tenendo conto dell’evolversi della situazione in Medio Oriente; cercherà altresì di migliorare i rapporti con il mondo palestinese, ma non potrà rinunciare all’amicizia storica con Israele. Non potrà nemmeno disinteressarsi alla questione nordcoreana ed iraniana, senza contare che in Afghanistan il momento è quanto mai difficile. Sulla riforma sanitaria e le pari opportunità ha assunto un impegno preciso, ma la caduta libera della Borsa non si è ancora arrestata e l’economia arranca. Sognare è giusto, aggiungo, è doveroso. Ma la politica si fa con i piedi per terra, lo stesso Barack ne è consapevole, è un uomo che ha un forte ascendente e sa incantare l’uditorio, ma è molto più pragmatico di quanto si creda in Europa. Barack è un liberal, non un uomo privo del principio di realtà. Molto presto lo capiranno anche qui da noi. E gli antiamericani torneranno a fare il loro mestiere.
Mauro Ammirati

lunedì 20 ottobre 2008

Nati per sorprendere


Sembrerà una provocazione, ma posso garantirvi che non lo è affatto. La verità è che io credo che nel cataclisma propagatosi da Wall Street e che sta sconvolgendo il mondo, ci sia anche qualcosa di salutare. Queste, infatti, sono le sfide che piacciono all’Italia. Chi conosce la storia del nostro Paese sa bene che il nostro è un popolo che dà il meglio di sé nei momenti drammatici. Diverse volte siamo stati dati per spacciati, altrettante volte ci siamo rialzati, a dispetto dei profeti di sventura e di chi scommetteva contro le nostre capacità, quella di riscattarci, in primo luogo. Non è necessario andare troppo indietro nel tempo: vi ricordate il biennio 1992-93? La lira veniva massacrata nei mercati valutari, arrivando a perdere il 25% del suo valore, nel Paese si diffondeva la “sindrome sudamericana”, la terribile prospettiva di un’inflazione fuori controllo, l’economia arrancava, proprio come oggi e, come se tutto ciò non bastasse, l’offensiva della criminalità organizzata contro lo Stato culminava nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. All’estero davamo l’impressione di essere una nazione allo sbando e, con il senno di poi, viene da aggiungere che forse era qualcosa di più di un’impressione. Ebbene, la legge finanziaria del governo Amato e l’accordo del luglio 1993, stipulato tra governo e parti sociali, rimisero l’Italia in carreggiata. Non fu facile per le confederazioni sindacali convincere la base ad accettare quell’accordo – i leaders vennero presi a bullonate nelle piazze – ma grazie ad esso ed all’operato dell’esecutivo guidato da Giuliano Amato, l’inflazione fu domata, il Sudamerica allontanato e la barra del timone venne orientata verso l’obiettivo della moneta unica europea. A proposito della moneta unica europea: ricordate la svolta secessionistica della Lega Nord, all’indomani delle elezioni politiche del 1996? Umberto Bossi era convinto che l’Italia non avrebbe mai potuto farcela ad accedere al gruppo dell’Euro. Era altresì convinto che le regioni settentrionali l’avrebbero seguito sulla strada che doveva condurre all’indipendenza del Nord della penisola. D’altra parte, solo qualche settimana prima, alle urne, presentandosi da solo, il suo partito aveva raggiunto un’alta percentuale di consensi. L’Italia rischiava di scivolare verso il Medio Oriente (perché con la debole lira quello sarebbe stato il nostro destino) e, facendo leva sul medesimo rischio, c’era chi attentava all’unità nazionale. Si sa come andò a finire. L’Italia agganciò l’Euro, i voti raccolti dalla Lega scesero al minimo storico, Bossi dovette rivedere tutta la sua strategia e rimediare con un’inversione a “U”. L’Italia, sorprendendo tutti ancora una volta, si rimise in cammino. Gli stranieri strabuzzavano gli occhi, chiedendosi dove questo Paese trovasse la forza di combattere anche quando poteva considerarsi già bello che spacciato. Ma quando ci siamo di mezzo di noi, ci si può aspettare di tutto. Deve prima scendere la notte più oscura per scoprire l’Italia migliore. Siatene pur certi: sarà così anche stavolta. Oggi i dati statistici impietosamente affermano che l’economa è ferma, la recessione dietro l’angolo, il nostro rapporto tra debito pubblico e Pil è il più alto tra i Paesi industrializzati ed il governo ha preparato le misure da adottare nell’eventualità qualche nostra banca corresse il rischio di fallire. Un’altra notte oscura, un’altra difficile prova da affrontare. Ma io conosco la mia gente e vi dico: preparatevi ad un’altra stupefacente sorpresa.
Mauro Ammirati

giovedì 16 ottobre 2008

Un modello da rivalutare

Per fronteggiare la crisi che si è abbattuta sui mercati finanziari in tutto il mondo, nei Paesi economicamente più avanzati lo Stato ha ritenuto di dover intervenire acquistando quote di capitale dei principali istituti di credito nazionali. Con tanti saluti alla dottrina del laissez faire negli States e nel Regno Unito, dove non era più stata messa in discussione dai tempi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher; e con buona pace della norma che impedisce di ricorrere agli aiuti di Stato e dei parametri stabiliti dal Trattato di Maastricht nei Paesi che hanno adottato l’euro. Nel giro di poche settimane, sono stati spazzati via, uno dietro l’altro, i princìpi supremi che avevano ispirato la politica economica in tutti i Paese occidentali nei trent’anni precedenti. La domanda che ora in molti si pongono è la seguente: dopo l’orgia liberista, stiamo tornando al dirigismo, allo Stato onnipresente ed ipertrofico? Per essere più precisi: una volta passata la bufera, lo Stato che è tornato a fare il banchiere, farà un passo indietro e cederà al mercato le azioni acquistate per evitare il tracollo delle banche oppure cercherà di allargare la sua presenza in economia, magari acquistando aziende operanti in altri settori strategici? L’appetito vien mangiando e l’esperienza storica insegna che la politica tende quanto più possibile ad allungare le sue braccia e rubare spazio alla società. Come scrisse una volta un economista: «L’occasione fa il politico» (chi non ha ancora compreso questo è invidiabile per la sua ingenuità). Altri, invece, si chiedono se siamo davanti alla fine della globalizzazione. Perché se il focolaio d’infezione era Wall Street, va aggiunto che il contagio dei cosiddetti “titoli tossici” si è diffuso in tutte le Borse del pianeta, come la peste raccontata da Manzoni, generando il panico e costringendo i governi alle operazioni di salvataggio costate centinaia di miliardi di euro. Il mondo intero è giunto sull’orlo d’una crisi di nervi. Il momento drammatico della finanza – e qui viene il peggio – purtroppo coinvolge anche l’economia reale. I manager che producevano ricchezza immaginaria attraverso ribassi e rialzi delle quotazioni hanno inguaiato anche quegli imprenditori che producevano ricchezza reale. Le scelte azzardate di fondi comuni e di banche d’affari di Paesi lontani possono portare in rovina la piccola azienda d’un imprenditore che produce, per esempio, calzature, il quale ignorava perfino che quei fondi e quelle banche esistessero. Dunque, si ripropone un vecchio dilemma: dirigismo o liberismo? Insieme ad uno nuovo: globalizzazione o ritorno al protezionismo? In proposito noi non abbiamo dubbi: la soluzione si chiama “economia sociale di mercato”, quel modello di società che fino a qualche settimana fa veniva considerato un rottame del passato e che ora è auspicabile che venga rivalutato. Non dobbiamo inventarci niente, ci avevano già pensato sessant’anni fa i nostri padri costituenti: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura con gli opportuni controlli, il carattere e la finalità» (art. 45); «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende» (art. 46). L’economia sociale di mercato ha permesso alla Repubblica federale tedesca di essere per mezzo secolo la locomotiva d’Europa, è la migliore sintesi possibile tra libertà economica e solidarietà. Chi fino a ieri la riteneva superata dai tempi, oggi, umilmente dovrebbe arrossire.
Mauro Ammirati

martedì 7 ottobre 2008

Ottima osservazione, però...


Il commento del mio amico Scafarolo (una persona che posso garantire non difetta di buon senso) invita ad una profonda riflessione. Cominciamo con il dire che, in un certo senso, egli stesso pone la questione e dà la risposta. Perché parla di “mito americano”. Il punto è che essere filoamericano – ed io orgogliosamente lo sono – non significa affatto voler fare degli States un mito. Gli americani hanno i loro difetti, il loro sistema politico-istituzionale non è perfetto, quello socio-economico ha degli aspetti assolutamente inaccettabili agli occhi di noi europei (l’assistenza sanitaria accessibile solo ai benestanti è il più evidente). Ma tutto ciò molti di noi filoamericani lo sanno benissimo. Di più, sanno anche che ogni Paese ha la sua storia, la sua cultura ed i suoi costumi. Pertanto a nessuna persona avveduta, sia essa filoamericana o antiamericana, può venire in mente di chiedere che un determinato modello politico o economico adottato in un Paese straniero venga impiantato nel proprio Paese così com’è, senza tener conto delle peculiarità che dividono i Paesi in questione. Personalmente sono per il presidenzialismo (credo che andrebbe benissimo anche per l’Italia), ma diffido del liberismo, semplicemente perché l’Europa non è individualista come gli States. La politica va fatta con equilibrio e laicamente, con una sana diffidenza verso i dogmi (neanche il libero mercato va considerato un dogma, come i fatti dei giorni nostri attestano). Quindi, mettiamola così: Scafarolo ha ragione, ma io non ho torto.
Mauro Ammirati

sabato 4 ottobre 2008

La fine d'un sogno


I governi dei Paesi occidentali nazionalizzano le banche, la crisi finanziaria mondiale attuale viene accostata a quella del ’29, che, come tutti sanno, fu superata con il New Deal, cioè un vasto intervento pubblico in economia. Le Borse, tra il panico e l’isteria, confidano nella politica per evitare il naufragio. C’è da strabuzzare gli occhi. Una situazione simile chi poteva immaginarla solo due anni fa? Per chi l’avesse dimenticato, la compagnia aerea Alitalia ha rischiato il fallimento, scongiurato all’ultimo momento, perché il governo italiano sosteneva di non poter ripianare il debito dell’azienda con denaro pubblico, essendo tale operazione vietata dal trattato istitutivo dell’Unione europea. Si trattava di due miliardi di euro, una cifra risibile rispetto a quelle che i governi di Belgio, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno dovuto sborsare per rilevare banche e finanziarie agonizzanti o evitarne il crac. Veniamo da un quindicennio in cui il concetto di “nazionalizzazione” era eresia, il liberismo il dogma, la privatizzazione di aziende pubbliche l’unica cura prescritta, qualunque ipotesi di intervento dello Stato in economia una tentazione demoniaca. Ora operatori di Borsa, banchieri ed imprenditori supplicano a mani giunte lo Stato di fare ciò che due anni fa era considerato un peccato mortale. Più nessuno danza attorno al totem del mercato, il liberismo non è più un feticcio, la finanza creativa non è più un idolo. Si torna a parlare, pensate un po’, d’economia reale, quella che produce davvero beni e servizi, quella che crea ricchezza materiale (non virtuale, non di carta) e posti di lavoro, quindi benessere generale e progresso per una nazione. Il mondo oggi è irriconoscibile, uno sconvolgimento di tale portata è abbastanza per poter dire che più nulla sarà come prima. La politica si riprende il suo primato, l’economia fa un passo indietro, torniamo tutti con i piedi per terra. La vera rivoluzione non consiste nella ritirata dei liberisti, ma è ciò che avviene nella mente di milioni di persone in tutto l’Occidente, è nella fine di un’illusione, nella sparizione d’un mondo fiabesco in cui, in fin dei conti, in tanti si erano effettivamente convinti che bastasse poco per arricchirsi. È crollato il castello di carta ed insieme a questo speranze, certezze e la religione del nuovo vitello d’oro, i cui sacerdoti insegnavano che un nuovo trauma come quello del ’29 o del 1987 – che segnò la fine degli yuppies - non si sarebbe più verificato. È crollata altresì una certa concezione dell’Europa, fondata sulla supremazia dell’economia e la politica messa all’angolo. Abbattuto, come già ricordato, il tabù degli aiuti di Stato, ora tocca alla Banca centrale europea. Sin dalla sua fondazione, tale istituto ha dovuto preoccuparsi solo di prevenire l’inflazione, disinteressandosi della crescita economica e dei rischi di recessione. Il risultato è che l’Europa nel suo insieme ha perso sempre più terreno nel mercato mondiale. È una bestemmia dire che è giunto il momento di ripensare anche il ruolo della Bce?
Mauro Ammirati

venerdì 19 settembre 2008

Il punto è che sono giovani


L’attacco è arrivato proprio da dove nessuno se l’aspettava. A contestare Gianfranco Fini per le sue dichiarazioni sull’antifascismo sono stati gli appartenenti ad Azione giovani, l’organizzazione giovanile di An. All’intransigenza manifestata dal Presidente della Camera sui valori della Resistenza e della Costituzione, l’antifascismo appunto, la risposta dei ragazzi del suo partito è stata esplicita: «Non saremo mai antifascisti.» Proprio nel mezzo della festa di Azione giovani, dunque faccia a faccia con gli under 35 di An, Fini aveva detto, anzi ribadito, con estrema chiarezza che la svolta di Fiuggi era irreversibile, quindi che sulla condanna del regime del Ventennio non c’era più da discutere, che i ragazzi di Salò, seppure in buona fede, erano dalla parte sbagliata. Nulla che non avesse già detto, negli ultimi anni, in altre occasioni (la visita a Gerusalemme, per ricordare la più importante), ma stavolta, inaspettatamente, a reagire non sono stati i nostalgici, gli ex combattenti della X Mas, gli ex repubblichini… ma iscritti ad An nati quarant’anni dopo la fucilazione di Mussolini. Quella frase, «non saremo mai antifascisti», pubblicata su un sito web da uno dei massimi dirigenti di Azione giovani, non ha bisogno di essere interpretata. Una situazione a dir poco strana. Negli anni ’60, ’70 ed ’80 in Italia era opinione diffusa (e fondata) che la riconciliazione nazionale dopo la guerra civile seguita all’8 settembre 1943, l’avrebbero fatta, un giorno, le nuove generazioni. Non avrebbero mai potuto essere ex partigiani ed ex repubblichini, cioè coloro che la guerra civile l’avevano combattuta in prima persona, a superare, culturalmente e politicamente, il dopoguerra. Opinione che sembrava incontrare sempre più la conferma nei fatti. La svolta del M.s.i.-D.n in senso liberaldemocratica nel congresso di Fiuggi, è avvenuta sotto la leadership di Gianfranco Fini, classe 1952, uno che il fascismo l’aveva studiato sui libri di scuola. Ci si poteva dunque aspettare che, nel 2008, tra i tesserati di An, a respingere l’antifascismo fossero i venticinquenni ed i trentenni? Onestamente, è difficile credere che una simile presa di posizione qualcuno l’avesse prevista. Ma, con il senno di poi, il fatto è meno sorprendente di quanto sembri. Pensiamoci bene: dovrebbe entusiasmare i giovani militanti di An il fatto che oggi il loro è un partito di governo? Un giovane è inquieto per definizione, si lascia facilmente sedurre da ciò che siamo soliti chiamare idealismo, ha passione, slancio e generosità, cerca disperatamente una causa per cui prodigarsi, perciò ama gli eroi, i combattenti e tra questi, molto spesso, più gli sconfitti che i vincitori. Vi dice niente il fatto che tra le figure venerate tra i giovani di An vi sia addirittura Che Guevara? Sì, il medico argentino, figlio d’una famiglia borghese, che rinunciò ad una vita tranquilla ed agiata per andare in giro per il Sudamerica a fare il rivoluzionario. Volete che su questi ragazzi possa far presa l’argomento che senza l’antifascismo An oggi non avrebbe tanti ministri al governo? Se lo pensate davvero, non siete mai stati giovani.
Mauro Ammirati

venerdì 12 settembre 2008

Presidenzialismo e laicità


Per noi italiani le elezioni presidenziali americane sono qualcosa al limite dell’inconcepibile o, nel migliore dei casi, “un’americanata”, cioè un miscuglio di spettacolo, mania di grandezza, competizione nevrotica con una spruzzata di moralismo puritano (che, per inciso, da queste parti non gode proprio di molta stima e che, nell’immaginario collettivo, è una sorta di versione moderna dell’antico fariseismo). Perché, si chiedono un po’ tutti in Italia (ma potremmo estendere il discorso a tutta l’Europa continentale), durante la campagna elettorale più importante degli States si va a scavare senza ritegno nella vita privata dei candidati, fino ad arrivare agli anni dell’adolescenza, del college, delle prime partite di basket o baseball…? Perché è così importante accertare – è il caso di Barack Obama - se il padre del candidato fosse uno studente modello o un perdigiorno? Perché mai dovrebbe interessare agli elettori che – è il caso della Palin – il candidato ha un figlio affetto da sindrome di Down? Perché dovrebbe essere di pubblico dominio il fatto che l’aspirante Presidente o Vicepresidente ha tradito il coniuge? Inconcepibile, appunto. Almeno per noi italiani. Qui a nessuno verrebbe in mente di chiedere a Fassino o a Berlusconi se in gioventù abbia mai fumato uno spinello o se, una volta sposato, abbia mai avuto una relazione extraconiugale. Nelle campagne elettorali cui noi siamo abituati il giornalista suole domandare al candidato cosa intenda fare per il fisco, l’ambiente, la disoccupazione e l’ordine pubblico, quali obiettivi intenda perseguire e quali rapporti coltivare e come in politica estera… Le vicende private e familiari restano fuori dal dibattito politico. Seguendola da questo punto d’osservazione, la corsa per la White House suscita inevitabilmente una domanda: perché gli americani attribuiscono tanta importanza alle qualità personali dei candidati, al punto da dare l’impressione che vengano anteposte ai programmi politici? Potremmo rispondere a tale domanda alla maniera del caro vecchio Humphrey Bogart: è il presidenzialismo, bellezza. Nei sistemi politico-istituzionali fondati sull’elezione diretta dell’esecutivo, le idee, i programmi e le strategie hanno un volto, un nome, un cognome, una voce e, forse, pure un accento. Gli ideali si incarnano in una persona, quindi l’ascendente, l’affidabilità e la credibilità di costui (o costei) soverchiano gli ideali stessi. Fatta eccezione per la Francia (dove dal 1958 vige un sistema semipresidenziale), nelle democrazie consolidate del Vecchio continente il presidenzialismo è solo materia per studiosi di diritto costituzionale, le classi politiche europee ne hanno sempre diffidato e continuano a diffidarne. Da questa parte del mondo suol dirsi che la vera contrapposizione/competizione è tra conservatori e socialdemocratici, non tra due individui, questo è il paradigma, il vero confronto è tra due modelli di società o due culture o due visioni del futuro. Ergo, a nessun elettore italiano o tedesco interessano minimamente i peccati gioventù di questo o quel candidato, men che meno se chi gli chiede il voto abbia alle spalle una famiglia unita o in via di dissoluzione. Dopodiché, aggiungerei che Europa e States hanno due concetti differenti di laicità (come, d’altra parte, non ha mancato recentemente di far notare Benedetto XVI). Per gli americani il Decalogo è una tavola di princìpi e valori etici universali, dunque la testata d’angolo della nostra civiltà, la radice della società giudaico-cristiana, dunque un patrimonio culturale inseparabile dalla politica. Riconoscimento che nel Vecchio continente è stato negato quando Giovanni Paolo II chiese che nella Costituzione dell’Unione europea vi fosse un riferimento ai princìpi medesimi. Da queste due concezioni differenti di laicità discendono due diverse concezioni della politica. Tempo fa un giornalista italiano scriveva che un candidato libertino può essere ritenuto preferibile dagli elettori cattolici ad un altro candidato loro correligionario. Credo che gli elettori americani in proposito non siano affatto d’accordo.
Mauro Ammirati

martedì 5 agosto 2008

No, non è una fiction


Da ieri le strade delle città italiane sono pattugliate anche da tremila uomini e donne del nostro esercito. La vera notizia è che soldatesse e soldati sono stati accolti, specie e non a caso, nei quartieri più a rischio delle grandi città con manifestazioni di simpatia e d’affetto dei residenti. Da oggi grazie voi ci sentiamo tutti più sicuri, si sono sentiti dire i nostri militari dagli abitanti di quelle zone dove fino a ventiquattro ore prima spacciatori di droga e borseggiatori agivano indisturbati. Tremila uomini delle Forze armate, dotati solo di armi corte – pistole, per intenderci – di certo, come ha anche ammesso il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, non risolvono il problema della sicurezza, non bastano per annullare la criminalità organizzata e nemmeno la microcriminalità, ma rappresentano un segnale importante: lo Stato c’è e vuole riprendere il controllo della situazione, vuole fare il suo dovere, cioè difendere la gente perbene dai delinquenti. E ad un segnale così importante i cittadini onesti hanno risposto con piccoli gesti significativi ed altrettanti importanti, come il barista che offre un bicchiere d’acqua fresca al militare accaldato e sudato, la ragazza in bicicletta che si ferma per salutare un basco nero, un’anziana signora che si rivolge ad un militare per dirgli semplicemente: grazie di essere qui. La nuova linea adottata dal governo per rendere le città più sicure, almeno nelle realtà più difficili delle nostre metropoli incontra l’apprezzamento della popolazione. Parliamo di quei quartieri ad altissima presenza di operai e pensionati, collegi elettorali che una volta votavano in schiacciante maggioranza per la sinistra e che, invece, alle ultime elezioni politiche hanno dato un ampio e sorprendente consenso alla Lega Nord (sorprendente anche per la Lega stessa), il partito, dato per declinante, che aveva puntato tutte le sue carte sulla lotta all’immigrazione clandestina e sulla guerra ad oltranza alla criminalità (e, checché se ne dica, solo secondariamente sul federalismo fiscale). Un fatto che dimostra in modo incontrovertibile che all’uomo comune che ogni sera deve barricarsi in casa per timore di essere aggredito, malmenato, derubato ed ucciso per strada interessa che vengano prese misure concrete, cioè leggi e regole, che gli garantiscano la libertà di muoversi tranquillamente per i marciapiedi del suo quartiere, mentre fa fatica a capire la preoccupazione, espressa da più parti, del rischio di «militarizzare le città» adducendo che «l’Italia non è la Colombia». Dunque, concretezza e non accademia, in fin dei conti è questo che gli italiani chiedono a chi deve governarli. Soprattutto gli italiani che vivono in quelle zone di Roma, Milano, Napoli, Bologna… dove la Colombia non sembra poi così lontana. Perché, purtroppo, non è vero (vorremmo tutti che lo fosse, ma non è così) che l’emergenza criminalità è solo un’efficace invenzione della macchina propagandistica del Pdl ed una psicosi diffusa dai media di centrodestra, di cui Berlusconi ed alleati si sarebbero serviti per nascondere i veri problemi del Paese. Difficile credere che gli italiani si siano convinti che esista un’emergenza solo perché l’hanno letto sui giornali e l’hanno sentito dalla televisione. Molto più probabile è che chi quest’emergenza oggi non la vede in certe realtà di profondo disagio sociale non abbia mai messo piede. E, quindi, non c’è da meravigliarsi che dove una volta tutti cantavano “Bandiera rossa” oggi spadroneggi Bossi ed i militari vengano accolti come dei liberatori. La tutela dell’ordine pubblico oggi è un problema concreto ed esige risposte altrettanto concrete. Chi lo vive sulla sua pelle ogni giorno lo sa, ne è certo, lo vede con i suoi occhi. E non puoi dirgli che è tutta fiction.
Mauro Ammirati

martedì 8 luglio 2008

Il problema è: come?


Probabilmente, sono in tanti i cittadini comuni in Italia a chiedersi, in questi giorni, come sia possibile che governo e Parlamento si accalorino tanto (non bastassero i 38 gradi temperatura e l’alto tasso d’umidità) a discutere di giustizia ed intercettazioni telefoniche, quando l’inflazione è tornata oltre il 3,5%, i salari vanno perdendo ulteriormente potere d’acquisto ed i consumi sono in picchiata (compresi quelli di beni alimentari), al punto che gli esercizi commerciali ai primi di luglio ricorrono già ai saldi (!). In effetti, è quantomeno strano che il Presidente del Consiglio dei ministri consideri, di fatto, una priorità l’approvazione nelle due Camere del “lodo Alfano” (leggi: immunità giudiziaria per le prime quattro cariche dello Stato) e delle cosiddette norme “salvaprocessi” (leggi: precedenza ai processi per i reati più gravi e sospensione degli altri), mentre milioni di italiani sono arrivati (metaforicamente, beninteso) all’ultimo buco della cinghia. Bisogna conoscere la storia recente del nostro Paese per capire cos’abbia originato una simile situazione. Bisogna risalire al 1992, quando un manager milanese venne arrestato mentre buttava nel water sette milioni di lire, il prezzo d’una tangente estorta ad un imprenditore. Sette milioni di lire, pensate un po’, briciole rispetto alle cifre che i magistrati milanesi avrebbero scoperto, nel corso delle indagini, di lì a qualche mese. Già, perché il predetto arresto scatenò l’effetto domino passato alla storia come “Tangentopoli”. L’inchiesta “Mani pulite” falcidiò tutti i partiti i storici italiani (il P.s.i. festeggiava il centenario), tranne P.c.i. e M.s.i.-D.n., le sue ripercussioni sul quadro politico furono devastanti. Cominciò così la lunga transizione che ancora oggi non può dirsi conclusa, dato che le riforme istituzionali restano astrazioni e mancano partiti strutturati. Dunque, da Tangentopoli, da “Mani pulite” occorre partire, per capire i mali dell’Italia di oggi. Una buona parte di ex democristiani ed ex socialisti dopo il Big One giudiziario del biennio 1992-94 trovarono una nuova casa nel centrodestra, oggi Pdl. Costoro, a cominciare dal leader indiscusso, Silvio Berlusconi, sono convinti (molti lo dicono e lo scrivono esplicitamente) che le indagini della magistratura degli anni ’90 sulla corruzione in politica altro non furono che una sorta di complotto per portare la sinistra ex comunista al governo. Quella stessa sinistra, ormai, fuori gioco, dopo il crollo del Muro di Berlino. Un golpe giudiziario, quindi, sapientemente orchestrato ed attuato congiuntamente dall’allora Pds (ex P.c.i.) ed alcune correnti della magistratura. Questa, ripetiamolo, è la lettura dei fatti che viene data in molti ambienti del centrodestra. Molti nel Pdl sono altresì convinti che furono sempre le indagini della magistratura a spingere Bossi a fare il “ribaltone” sul finire del 1994. Persuaso che Berlusconi stesse per essere travolto dagli avvisi di garanzia e che, quindi, il governo avesse le settimane contate, il leader della Lega avrebbe preferito uscire dalla coalizione del centrodestra per salvare dal terremoto incombente almeno il suo partito. Oggi, riferiscono i giornali, Berlusconi andrebbe (il condizionale è d’obbligo) dicendo ai suoi più stretti collaboratori: «Non farò lo stesso errore del 1994». Di qui, la fermezza mostrata dal premier sul “lodo Alfano”. La pubblicazione, nei giorni scorsi, delle intercettazioni delle telefonate tra lui ed un alto dirigente della Rai, sarebbe per Berlusconi l’ennesima dimostrazione che una parte della magistratura lavora contro il suo governo. In conclusione: le polemiche che rendono ancora più infuocato questo mese di luglio sono la coda velenosa di “Mani pulite”. La questione giustizia, una volta per sempre, deve essere chiusa, se non si vuole che continui ad avvelenare la politica italiana per chissà quanti anni ancora. Lo sostengono tutti, a destra ed a sinistra. Il punto è: come?
Mauro Ammirati

lunedì 30 giugno 2008

Onore alla Spagna, però...


Onore alla Spagna, ha meritato innegabilmente il titolo di Campione europeo, ha espresso il gioco più convincente, ha dimostrato di essere almeno una spanna al di sopra di tutti gli avversari. Complimenti ad Aragones, per il suo coraggio soprattutto, perché ce ne voleva e molto per lasciare a casa uno come Raul e presentarsi alla massima competizione calcistica continentale per nazioni con una squadra di ragazzini. Riconosciuti, con estrema franchezza, i meriti dei vincitori, è bene aggiungere che certe considerazioni sono inconfutabili se riferite al contesto attuale, ma un’analisi più approfondita ci costringe a dire cose sgradevoli. Per essere più precisi: la Spagna ha saputo, a tratti anche divertire, ma sostenere che il suo gioco abbia fatto impazzire forse è troppo. Provate a confrontare Torres e compagni con la Francia di Platini e l’Olanda di Van Basten - rispettivamente Campioni d’Europa nel 1984 e 1988 - e capirete subito che il calcio negli ultimi ventiquattro anni ha conosciuto un’involuzione qualitativa preoccupante. Si può affermare che la Spagna attuale è un’ottima squadra, ma nella consapevolezza che oggi quel che passa il convento non è granché. Se, come si dice, nella notte tutte le vacche sono grigie, non occorre molto per distinguersi. Bisognerebbe – lo dico da anni – riflettere sullo stato di salute del nostro football, le squadre che ai giorni nostri definiamo divertenti, trent’anni fa le avremmo forse definite noiose. All’indomani della finale degli Europei del 1996, vinti dalla Germania, un quotidiano italiano uscì con il titolo: “Il calcio è malato, curiamolo”. Oggi, il trionfo della rappresentativa iberica è stato commentato con titoli come: “Ha vinto il calcio”. Viene da pensare che la differenza tra il presente e dodici anni fa è che ci siamo talmente abituati ad un football mediocre che abbiamo dimenticato cos’è (e cos’è stato) davvero il bel calcio.
Un altro aspetto della situazione da prendere in considerazione ci riguarda da molto vicino. La Spagna ha vinto con tutti gli avversari che ha incontrato, tranne uno: l’Italia. Non solo. Se in semifinale le “furie rosse” hanno umiliato la Russia ed in finale hanno steso al tappeto la Germania molto prima del novantesimo, con i nostri non sono riusciti a segnare un solo gol in centoventi minuti. Aggiungiamo che le più grandi parate Casillas le ha fatte contro gli azzurri e che nello stesso incontro l’attacco spagnolo di certo non ha fatto soffrire particolarmente la nostra difesa. Qualcuno – e dubito che abbia torto - ora sostiene che la vera finale sia stata Spagna-Italia. E l’accoglienza riservata a Pirlo e compagni al loro rientro in Italia induce a ritenere che siano in molto ad essere del medesimo parere. Eppure, il signor Roberto Donadoni è stato messo cortesemente alla porta, manco gli azzurri fossero stati eliminati con una prestazione da far arrossire. Non è stata data una seconda possibilità al Ct dell’unica nazionale con cui i Campioni d’Europa abbiano davvero rischiato di perdere. Nulla da eccepire sulle qualità e le capacità di Marcello Lippi, al quale si deve solo gratitudine. Con lui ci auguriamo di tornare a vincere. Ma resta l’amarezza, per due ragioni. La prima è il trattamento riservato a Roberto Donadoni, un giovane tecnico su cui forse valeva la pena investire, lasciandogli portare a termine il suo lavoro. La seconda è che la scelta della Federazione è emblematica, riflette un’attitudine assai diffusa nel nostro Paese: nel calcio, come in tutti i settori (economia compresa), l’Italia è un Paese che non perdona nulla e concede poche opportunità ai giovani, preferendo aggrapparsi agli uomini del passato. Avere meno di sessant’anni nell’Italia di oggi è quasi una disgrazia.
Mauro Ammirati

venerdì 27 giugno 2008

Le macerie del dialogo


C’era da aspettarselo. Non poteva durare, infatti non è durato. Il dialogo tra Veltroni e Berlusconi è stato accantonato non appena la politica italiana ha toccato uno dei suoi nervi scoperti: la cosiddetta questione giustizia. Il decreto sulla sicurezza, la sospensione dei processi per i reati meno gravi, quindi il proposito dichiarato dal governo di tutelare con uno «scudo» i rappresentanti delle prime quattro cariche dello Stato dalle indagini giudiziarie durante l’esercizio del loro mandato sono stati più che sufficienti per disfare in pochi giorni la tela che Veltroni aveva pazientemente tessuto sin da quando aveva preso le redini del neonato Partito Democratico. Punto ed a capo, si torna alla conflittualità ad oltranza ed all’incomunicabilità che avevano caratterizzato la politica nazionale dal 1994 agli inizi di quest’anno. Le elezioni politiche del 2008 ed i primi mesi della nuova legislatura parlamentare avevano destato la speranza (o il timore, punti di vista) che si fosse ad una svolta nei rapporti tra centrodestra e centrosinistra. D’altra parte c’erano tutte le condizioni per ritenere che la politica italiana vivesse sotto un’altra temperie: ambedue i poli avevano rinunciato ad allearsi con le ali estreme del rispettivo schieramento, il più grande partito del centrosinistra aveva scelto come propria guida il kennediano Veltroni e Berlusconi aveva concesso un’apertura di credito al candidato antagonista che sembrava preludere ad una nuova stagione. Invece, oggi ci tocca constatare che Pdl e Pd scelgono lo scontro, in luogo del confronto. Ma – ed è questo il punto – sarebbe un errore pensare che il ritorno al muro contro muro sia dovuto alle misure che il governo ha preso ed a quelle che intende prendere in materia di giustizia (per quanto detta questione sia importante, parliamo pur sempre del principio della separazione dei poteri dello Stato). La linea del governo sulle toghe ha fatto solo da detonatore ad una situazione che era già esplosiva all’interno del Pd. La fiducia accordata da Veltroni a Berlusconi nei mesi passati ha suscitato più malumori e mugugni che consensi nel partito nato dalla fusione tra Ds e Margherita. Per buona parte del Pd il centrodestra italiano restava e resta un’anomalia nel novero delle democrazie occidentali, per molteplici ragioni: il conflitto d’interessi che Berlusconi non ha mai voluto risolvere, la convinzione che il leader del Pdl abbia scelto di far politica in prima persona per evitare di farsi processare in Tribunale e per difendere le sue aziende che operano nel settore televisivo da una nuova legge antitrust, infine la convinzione che Pdl e Lega in realtà rappresentino una destra populista e demagoga, più sudamericana che europea. Tenere a bada questa parte (cospicua) del suo partito per Veltroni è stato sempre più difficile dopo la disfatta nelle urne del 14 aprile e la capitolazione alle elezioni comunali di Roma. Quando alle due sconfitte predette si è aggiunto il “cappotto” alle elezioni amministrative in Sicilia, il segretario del Pd ha capito che la linea del dialogo avrebbe portato il suo partito sull’orlo d’una scissione o ad un travaso di voti verso l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, acerrimo avversario del Cavaliere. In altri termini, Veltroni ora deve seguire il suo partito, il contrario non è più possibile. Con o senza decreti e disegni di legge sulla sicurezza, sospensione dei processi e «scudo» contro le inchieste della magistratura, alla rottura tra centrodestra e centrosinistra saremmo arrivati comunque. Troppa radicata la reciproca diffidenza tra i due poli, troppo scarsa la fiducia vicendevole perché questo dialogo reggesse ancora di più. Non poteva durare, infatti non è durato.
Mauro Ammirati

giovedì 26 giugno 2008

A Villa Medici Cinema d'Autore



Da qualche settimana a Roma si è conclusa la rassegna “Le Vie del Cinema Da Cannes a Roma”. Tra i vari eventi sicuramente il più interessante è stato il dibattito “Presente e Futuro del Cinema Italiano d’Autore” che ha visto la partecipazione degli addetti ai lavori in campo cinematografico ed i protagonisti della kermesse francese quali: Paolo Sorrentino, Riccardo Munzi e Marco Tullio Giordana, rispettivamente registi de “Il Divo”, “Il resto della notte”, “Sangue pazzo” e Domenico Procacci, il lungimirante produttore di “Gomorra”.
Questi personaggi non hanno solo parlato dei successi che i film italiani, in particolare “Gomorra” ed “Il Divo” hanno avuto a Cannes, vincendo il premio della giuria, ma si sono anche confrontati riguardo la rinascita d’un nuovo linguaggio cinematografico, che resta legato alla tradizione del cinema realista italiano ma, nello stesso tempo, trova un modo nuovo, un punto di vista originale e moderno di raccontare l’Italia, tutti e quattro i film, infatti, affrontano tematiche legate alle questioni socio-politiche italiane con i suoi protagonisti passati e presenti.
Durante l’incontro si è discusso di quanto importanti siano i finanziamenti, sia quelli statali, che si spera possano dare più sostegno in seguito al ripristino della taxcredit, sia quelli privati, legati alla figura del produttore societario e indipendente, figura essenziale senza la quale non potrebbero esistere molti dei film che oggi vediamo. Finanziamenti necessari per produrre delle belle opere che ci facciano conoscere oltralpe, che mettano a tacere tutti coloro che dicono che il cinema italiano è morto o che, trasportati dai facili entusiasmi, si esaltano per i premi di Cannes ma poi rinnegano l’elogio, se ad altri festival i film italiani fanno solo capolino. Sostentamenti e finanziamenti che però a nulla servono se non si crea la giusta sinergia tra autori e produttori e se non ci sono leggi che incentivino o tutelino chi fa parte di questo mondo, affinché non soccomba sotto le leggi del mercato o dei sistemi oligopolistici.
Quello che questi esperti autori e produttori, a mio parere hanno voluto dire, è che il cinema italiano va sostenuto sempre e comunque a di là delle vittorie e delle sconfitte, perché è solo con la costanza, l’impegno ed il rischio di cimentarsi anche in film meno commerciali, che si riesce a costruire una salda tradizione cinematografica. Il cinema italiano non è solo commedia, Garrone e Sorrentino lo hanno dimostrato, mettendo in scena una Napoli che, se dalle cronache ci appare brutta, sporca e cattiva, in realtà, continua a partorire talenti e fare da sfondo a capolavori; dico questo perché Sorrentino è di origini napoletane così come Toni Servillo, attore di entrambi i film vincitori a Cannes e perché Gomorra è interamente ambientato a Casal di Principe, uno degli habitat della camorra. Questi film, a quanto pare, non sono piaciuti sola alla critica francese ma anche al pubblico italiano visto che fino ad oggi hanno incassato nelle sale più di 8 milioni di euro. Non siamo mica gli americani, come recita il titolo di una vecchia canzone di Vasco, ma dobbiamo far bene quello che sappiamo fare da italiani e se ci manca un cinema spettacolare fatto di esplosioni e mega effetti speciali questo non significa che non sappiamo fare cinema. Di quello critico-espressivo non possiamo non sentici padroni. Il nostro cinema è quindi ancora vivo, tanto da trasformare in fascinazione e farci appassionare anche le brutture del nostro Paese... e ditemi se questa non è arte o magia!
L’auspicio, alla fine di questo incontro, è che il cinema italiano abbia un grande futuro, che vi sia una presa di coscienza, sopratutto da parte dello Stato e dei politici, di quanto importante sia la cultura cinematografica, di quanto importante sia un educazione alla visone che non è fatta solo di Grandi Fratelli, ipnotizzatori di menti.
Marta Ronzone

mercoledì 18 giugno 2008

Ma ora basta con questa rivalità



Dunque, l’abbiamo sfangata, l’Italia riesce ad accedere ai quarti di finale del Campionato europeo, sconfiggendo per 2-0 nei novanta minuti regolamentari i cugini d’Oltralpe – non accadeva dal 1978, Mundial argentino, ero un bambino ma già avvezzo a patire per la nostra Nazionale di calcio (in Italia l’amore per il colore azzurro lo succhi con il latte materno). Grazie anche alla lealtà ed alla professionalità della rappresentativa olandese (gli Oranges potevano disinteressarsi alla partita con la Romania e, come suol dirsi, “tirare il piede indietro” nei contrasti, lasciando vincere l’avversario, ma hanno fatto esemplarmente il loro dovere), ora ci apprestiamo ad affrontare la fortissima Spagna, dopo aver ritrovato entusiasmo ed orgoglio. Tutto bene, siamo felicissimi. Anzi, no. Una cosa ci sarebbe da dire, nella consapevolezza che a molti miei connazionali non farà affatto piacere (forse qualcuno mi manderà anche a quel paese). Perché, ecco, abbiamo ottenuto un risultato importante e, per come eravamo messi, quasi miracoloso, ma ora… Ora sarebbe bene farla finita, una volta per tutte, con questa rivalità con i francesi. Nei giorni immediatamente precedenti l’inizio degli Europei ho sentito troppi parenti, amici e conoscenti dire: «Sono disposto a scambiare la qualificazione con una vittoria con la Francia.» No, cari compatrioti, così non va bene. Questa rivalità non fa onore a noi né a loro. Come disse, tempo fa, l’allora Presidente francese Chirac: «Italia e Francia sono sorelle latine.» Può capitare tra parenti stretti che vi siano incomprensioni, momenti difficili, litigi… ma l’antagonismo aspro, l’avversione e l’antipatia sono un’altra cosa. Personalmente non riesco a provare acredine per la “sorella latina”, perché essere latini è bello ed a Parigi come a Roma un latino – fosse pure sudamericano - si sente a casa sua. D’accordo, sui vini, la moda e la cucina ci pestiamo i piedi, ma può succedere solo – appunto – a noi latini, cioè a gente che ha i gusti raffinati, ama le frivolezze che allietano la vita e la buona tavola. Dicono che, in realtà, a mettere zizzania nella nostra parentela sia stato il ct francese Domenech. Ma via, siamo seri. Se basta qualche frase pronunciata da un allenatore per suscitare antipatia per un intero popolo, cosa dovremmo fare con la Germania, nella quale viene mandato in onda, in queste settimane, uno spot televisivo pubblicitario in cui l’italiano viene rappresentato come truffatore, inaffidabile e, sotto sotto, anche mafioso? Dovremmo forse consegnare al governo di Berlino la dichiarazione di guerra? Quanto alla grandeur, di cui i transalpini sono imbevuti e che irrita un po’ noi italiani, direi che, tutto sommato, è un peccatuccio veniale, nessuno è perfetto. Per i francesi, in fondo, è un modo come un altro di dimostrare che hanno rispetto di se stessi e, soprattutto, della loro storia. Una caratteristica che, però, non impedisce loro di rispettare le patrie altrui. Pochi mesi dopo che li avevamo sconfitti in finale all’ultimo mondiale, con tutte le polemiche che erano seguite alla testata di Zidane a Materazzi, i francesi ci accolsero a Parigi con molta civiltà. Noi ricambiammo nell’incontro successivo, a Milano, fischiando la Marsigliese. Vorrei soltanto che fatti così esecrabili non avessero più a succedere. Perché è bello sapere di appartenere al popolo di Dante, Petrarca e Manzoni. Ma è giusto anche inorgoglirsi di essere latini.
Mauro Ammirati

venerdì 13 giugno 2008

Il dibattito nel Pd

Dalle “notti bianche”, che erano il suo fiore all’occhiello quando era Sindaco di Roma, alla “notte dei lunghi coltelli” o, come direbbe il grande Eduardo, alla “nuttata”, per indicare un momento particolarmente difficile. Era inevitabile che le due sconfitte, quella del 14 aprile e quella delle elezioni municipali della Capitale, portassero ad una resa dei conti in casa Pd, com’era altrettanto inevitabile che le accuse più pesanti venissero rivolte al leader, Walter Veltroni. È così da sempre e dovunque, è una legge della politica che non risparmia nessuno. Così ora nello stesso partito c’è chi chiede un congresso straordinario, mentre si discute e ci si divide su un’altra importante questione: il gruppo in cui confluire tra un anno nel Parlamento europeo. Due grandi problemi per Veltroni, al punto che il medesimo leader in un suo intervento, di qualche giorno fa, ha parlato esplicitamente, allo scopo di scongiurarlo, di rischio di «scissione». Andiamo con ordine.
Il congresso straordinario non avrebbe alcun senso se il fine perseguito non fosse quello di rimettere in discussione la leadership, cioè la linea da questa adottata. Non sono pochi nel Pd a ritenere che sia stato un grave errore la decisione di «correre da soli», ossia di rinunciare all’alleanza con l’estrema sinistra. E rilevante è anche il numero di coloro che rimproverano a Veltroni di aver scelto la strada del dialogo con Berlusconi, in luogo di un’opposizione dura ed intransigente, la strategia scelta da Di Pietro, il quale potrebbe trarre enormi benefici in termini elettorali dalla nuova fase di rapporti tra Pd e centrodestra. Qui occorre soffermarsi, perché talune accuse verso l’ex Sindaco di Roma, sono probabilmente ingenerose. Una volta ottenuta l’investitura a segretario del neonato partito, Veltroni non poté fare altro che constatare il fallimento del disegno politico di Prodi e dei suoi seguaci. «Sbagliare è umano, perseverare è diabolico», dice un vecchio adagio. Perseverare nell’alleanza con la sinistra antagonista, dopo due esperienze di governo conclusesi come sappiamo, sarebbe stato semplicemente «diabolico». Forse, se il 14 aprile ai voti della sinistra verde e neocomunista si fossero aggiunti quelli del Pd, oggi Berlusconi non sarebbe Capo di governo, ma probabilmente l’esecutivo starebbe discutendo su come trovare un accordo su termovalorizzatori, centrali nucleari, legge Biagi… ed altre questioni sulle quali il governo Prodi s’impantanò senza riuscire in alcun modo a venirne fuori.
La scelta del gruppo cui aderire nel Parlamento di Strasburgo è questione terribilmente seria. Veltroni l’ha resa ancora più complicata accettando candidature di alcuni radicali nelle liste del suo partito. In Europa il bipolarismo è tra socialisti e popolari (o se preferite conservatori), non esiste nelle grandi democrazie occidentali, fatta eccezione per gli Stati Uniti, una grande forza politica di massa come il Pd, che non è socialista ma le cui radici non sono neppure nel popolarismo. Problema spinoso, ma anche qui puntare l’indice sulla leadership serve a poco. Nel caso qualcuno l’abbia dimenticato, milioni di militanti e simpatizzanti, mesi fa, parteciparono alle elezioni primarie per scegliere il gruppo dirigente, stilando l’atto di nascita di questo nuovo soggetto politico. Se un progetto così ambizioso rischia di essere accantonato dopo la prima sconfitta o perché non si quali compagni di strada scegliere in Europa, allora significa che i suoi stessi fondatori nel Pd non hanno mai creduto.
Mauro Ammirati

giovedì 5 giugno 2008

Un po' meno yankee


La speranza di molti filoamericani italiani, ora, è che il futuro Presidente degli States si chiami Barak Obama. Non vivono un momento felice gli amici degli States in Italia, l’antiamericanismo in Europa non è mai stato così diffuso e palpabile come oggi – è doloroso scriverlo, ma serve a poco nascondersi la verità – e, contrariamente a quanto molti credono, la guerra in Irak può spiegare solo fino ad un certo punto il fenomeno in questione. Il conflitto armato in Medio Oriente per rovesciare il regime di Saddam, semmai, ha solo alimentato un sentimento che su questa sponda dell’Atlantico c’era già da tempo, l’avversione agli yankees (un termine che dalle nostre parti non è proprio un complimento) era già profondamente radicata da noi quando i marines entrarono a Bagdad. Credo sia molto difficile spiegare ad un cittadino statunitense l’antiamericanismo del Vecchio continente, ma è necessario perché egli capisca le ragioni dello schieramento che a Roma, a Parigi, a Berlino… ora sostiene Obama e, particolarmente, con quanta attenzione verranno seguite anche da noi le imminenti elezioni presidenziali. La causa di tante tensioni e, soprattutto, incomprensioni che caratterizzano da decenni le relazioni tra il popolo statunitense e quelli europei – e talvolta tra i rispettivi governi - è d’ordine culturale, qualcosa che attiene alla scala di valori, alla concezione del mondo e dei rapporti tra gli uomini, alla Weltanschauung, come dicono tanti nostri intellettuali. Agli occhi d’un europeo gli americani sono eccessivamente individualisti, in ultima analisi egoisti, interessati unicamente all’arricchimento personale, alla competizione, al perseguimento del successo, indifferenti ai bisogni materiali e morali dei propri simili, gente assai poco incline a praticare la solidarietà. L’opinione dominante in Europa è che è inaccettabile che lo Stato neghi ad un cittadino l’assistenza sanitaria, che permetta di vendere armi come fossero un bene di consumo e che condanni a morte uomini e donne che non hanno sufficiente denaro per pagarsi un buon avvocato. E se tutto ciò avviene in America si ritiene comunemente sia dovuto al fatto che il sistema politico-economico americano rifletta e sia diretta espressione della cultura del suo popolo, estremamente individualista, fino ad essere aggressiva. La guerra in Vietnam, ieri ed in Irak, oggi, sono considerate semplicemente connaturali ad uno Stato intrinsecamente aggressivo. Perciò, in Italia, può bastare che si provi ad ampliare la base Nato di Vicenza perché il governo rischi di cadere e che decina di migliaia di persone si mobilitino al solito grido, oggi come quarant’anni fa: yankee, go home! Può capitare, altresì, che dalla Grecia a Stoccolma si accusi l’America di negare pari opportunità agli afroamericani, fingendo d’ignorare le origini di Condoleeza Rice e Colin Powell (solo per fare due nomi). E di certo, non ha aiutato ad abbattere questi luoghi comuni la presidenza a Washington, negli ultimi otto anni, d’un texano che cita la Bibbia ad ogni occasione, è figlio di petrolieri ed in politica non si spinge oltre il “conservatorismo compassionevole”. Bush jr. è visto come il tipico wasp, agiato ed ipocrita, che ostenta la sua religiosità, ma si guarda bene dal praticare le virtù evangeliche (qui nessuno ha dimenticato che da Governatore negò la grazia ad una condannata alla pena capitale). Obama, invece, è un nero, a ragione o a torto è ritenuto un figlio dell’altra America, quella dei ghetti e dei diseredati, pertanto, quantunque il suo programma sia fumoso, molti europei ritengono che con lui alla Casa Bianca le due sponde dell’oceano si riavvicinerebbero e le due costole dell’Occidente tornerebbero almeno a parlarsi, superando l’incomunicabilità degli ultimi anni. Difficile dire fino a che punto sia condivisibile tale congettura, ma, di certo, la nomination del giovane candidato democratico ha accresciuto enormemente l’interesse dell’opinione pubblica europea verso queste elezioni presidenziali.
Mauro Ammirati

mercoledì 4 giugno 2008

Un tema "insolito"


«Il 2 giugno? È la festa della parata delle Forze Armate», «veramente in questo momento non ricordo…», «mi faccia pensare… il 2 giugno è la festa della liberazione…», «cosa accadde il 2 giugno 1946? Non saprei…» Queste sono alcune delle risposte che un giornalista ha raccolto chiedendo alle numerose persone ieri presenti a Roma alla Festa della Repubblica (era la Festa della Repubblica, sveliamo l’arcano) se sapessero cosa si stesse celebrando. Di quel referendum in cui i nostri genitori, nonni e bisnonni scelsero la forma di Stato da dare al loro Paese moltissimi italiani (chissà, forse la maggioranza) sanno poco o niente. Non che io ci prenda gusto ad affliggere coloro che, come, si ostinano ad amare l’Italia, ma devo aggiungere che parlando con studenti universitari spesso mi è capitato di ascoltare frasi come questa: «Garibaldi? Sì, ne ho sentito parlare, a scuola… qualche volta…» Non c’è affatto bisogno che la Lega si affanni a screditare il nostro Risorgimento, ci hanno già pensato tanti italiani da sé, con la loro indifferenza. Non c’è bisogno che si vada a parlar male dell’Eroe dei due mondi a chi ignora che egli sia mai esistito o cos’abbia fatto di storicamente importante. Ma c’è dell’altro. Non molto tempo fa, gli inviati d’una trasmissione televisiva («Le iene», se non ricordo male, ma potrei anche sbagliarmi) si misero con una telecamera ed un microfono, una domenica mattina, davanti una chiesa cattolica. Terminata la funzione, cominciarono a rivolgere ai praticanti (tali si definivano gli intervistati) domande come: «Chi sono i quattro Evangelisti?» e «Conosce i Dieci comandamenti? Può dirmeli in ordine?» Pochissimi diedero le risposte giuste, i più tirarono ad indovinare (a proposito: contrariamente a quanto pensano tanti praticanti, San Paolo, Apostolo delle genti, non era uno dei Dodici Apostoli). Notoriamente gli italiani sono un popolo che legge poco. Quel “poco” fa riferimento ad una media ponderata, il che significa che un numero straordinariamente elevato di italiani non legge affatto. Secondo alcune indagini statistiche recenti, nel nostro Paese, molti manager e dirigenti d’azienda, persone il cui grado d’istruzione si ritiene sia medio-alto, non legge più di tre libri l’anno. Il dato più importante – vengo al punto – è emerso da un’altra indagine statistica: le nazioni in cui si legge di più, guarda caso, sono le stesse che hanno il più alto tasso di crescita economica. Non sono abituato a prendere numeri e tabelle come fossero oracoli, ma forse è il caso di chiedersi se un Pil così basso come il nostro non sia dovuto anche ad un certa indolenza intellettuale. E, dal momento che si parla tutti i santi giorni di riforma della scuola, sarebbe forse anche opportuno domandarsi se questa scarsa propensione alla lettura non possa essere combattuta con altri metodi e programmi didattici. Magari gioverebbe alla nostra economia ed aiuterebbe – hai visto mai! - a creare qualche posto di lavoro. Nell’ultima campagna elettorale Ferrara ruppe gli schemi, si parlava sempre dei “soliti” temi, così il direttore del Foglio, ad un certo punto, pose un tema “insolito”: sai che c’è, disse, parliamo d’interruzione volontaria della gravidanza. Allo stesso modo, è auspicabile che oggi qualcuno costringa le varie forze politiche ad includere un altro tema insolito nel dibattito di tutti i giorni. Sarebbe bello se uno dicesse: sai che c’è, parliamo di come favorire la crescita economica leggendo di più.
Mauro Ammirati

giovedì 29 maggio 2008

Un uomo del suo tempo


Il ventennale della morte di Giorgio Almirante è stato l’occasione per tornare a parlare d’una delle figure più discusse e controverse dei primi quarant’anni di storia della Repubblica italiana. Il nuovo Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, vorrebbe intitolargli una via della capitale e siccome la toponomastica è importante la comunità ebraica ha fatto sapere di essere assolutamente contraria. Di Almirante si è discusso ieri anche alla Camera dei Deputati, in particolare dei suoi interventi pubblicati, durante il Ventennio, sulla rivista “La difesa della razza”. «Frasi vergognose», le ha definite il Presidente dell’assemblea, Gianfranco Fini, suo successore alla guida del M.s.i.-D.n., su indicazione proprio del leader dimissionario, sul finire degli anni ’80. Ancora oggi, Almirante divide, suscita polemiche anche aspre, infiamma il dibattito politico e riaccende vecchie passioni. Ma chi era davvero quell’uomo cui anche gli acerrimi avversari, anzi i nemici, riconoscevano una grande capacità di comunicazione ed un ascendente fuori dal comune non solo sugli elettori missini? Diciamolo subito: era un leader che rifletteva e personificava la doppiezza del suo stesso partito. Esistevano due Almirante, perché il M.s.i. aveva due anime, era un partito combattuto tra il cuore e la ragione, con un piede nel “sistema” ed uno fuori, restando per mezzo secolo nel guado, sul crinale che divide la liberaldemocrazia e l’ideologia della destra radicale e rivoluzionaria. Era una forza politica che indossava la camicia nera e la giacca in doppiopetto, che si sforzava di guardare avanti ma non riusciva a liberarsi della nostalgia, che voleva essere borghese e rassicurante per la cosiddetta maggioranza silenziosa, ma nel contempo proponeva la socializzazione e la partecipazione agli utili nelle imprese, che chiedeva il presidenzialismo insieme ad una versione aggiornata della Camera delle corporazioni. Era una destra che voleva essere filoccidentale, ma era prigioniera dei riflessi condizionati tipici degli ex repubblichini che la rendevano ostile agli U.s.a., Non deve sorprendere che Almirante parlasse d’un Europa unita «dall’Atlantico agli Urali», che predicasse la «pacificazione nazionale», la fine della guerra civile italiana, nemmeno che andasse a rendere omaggio alla salma del segretario del P.c.i. Enrico Berlinguer, passando da solo tra due ali di folla e numerose bandiere al vento con falce e martello e che poi chiedesse che qualcuno dei suoi nemici facesse un gesto di buona volontà, portando un mazzo di fiori a piazzale Loreto, dove tanti anni primi anni il Duce, Claretta Petacci ed alcuni gerarchi fascisti erano stati appesi per i piedi. Non deve sorprendere neppure che dicesse che il M.s.i. era una forza politica sinceramente democratica, aggiungendo però che le sue radici ideologiche erano non nel «fascismo regime», ma nel «fascismo movimento», cioè, storicamente, nel primo e nell’ultimo fascismo. Almirante era tutto questo perché conosceva bene il suo partito, essendone stato uno dei fondatori. Sapeva che le contraddizioni del M.s.i. erano costituzionali, genetiche, erano nel Dna. «Né rinnegare, né rinnegare», era il motto dei missini, consapevoli che era impossibile ricostruire lo Stato etico gentiliano, ma ciononostante diffidavano del modello di democrazia parlamentare. Era impossibile anche per un leader amato come lui prendere il M.s.i. ed aiutarlo a superare la soglia oltre la quale avrebbe potuto integrarsi nella democrazia occidentale. La svolta di Fiuggi arrivò nel 1994, cinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino, la fine delle ideologie e della Guerra fredda. In Italia eravamo sotto un altro cielo. Il cielo sotto cui era vissuto Almirante certe scelte non le avrebbe mai consentite. Almirante non era un santo, né un diavolo. È stato solo un uomo del suo tempo.
Mauro Ammirati

martedì 27 maggio 2008

Ci si aspetta di meglio


Dall’opposizione ci si aspetta e si esige non solo che faccia il suo mestiere, ma che lo faccia anche bene, nell’interesse di tutti, governo compreso. L’opposizione deve essere l’avvocato del diavolo, la coscienza critica d’un Paese, il rappresentante delle minoranze e, soprattutto, la voce di chi non ha voce, solo così riesce ad essere un baluardo contro il rischio della «dittatura della maggioranza», come insegnava due secoli fa de Tocqueville. Se si pensa a quanto sia importante tale ruolo, è avvilente – dispiace scriverlo - la polemica di questi giorni su alcuni gravissimi fatti avvenuti di recente. Ci riferiamo ai raid a Roma contro i negozi di proprietà di extracomunitari, all’incendio d’un campo nomadi nei pressi di Napoli, nonché all’uccisione, in Toscana, d’un uomo per mano del padrone dell’abitazione in cui era stato sorpreso a rubare. Cosa legherebbe i casi poc’anzi menzionati? Secondo l’opposizione, il «clima» instaurato in Italia dal Pdl, prima con la campagna elettorale, poi con i provvedimenti adottati nel Consiglio dei ministri di Napoli. Il nuovo governo ha voltato pagina scegliendo la linea della fermezza contro il crimine e l’immigrazione clandestina, ma in tal modo, sostiene buona parte della sinistra, ha incoraggiato le aggressione xenofobe e gli aspiranti “giustizieri della notte”. Sembra che molti privati cittadini non aspettassero altro che un esecutivo come quello appena insediato per mettersi, finalmente, a sparare ai ladri, a terrorizzare i rom e devastare esercizi commerciali gestiti da stranieri. Il «clima» spiegherebbe anche la tragedia di Verona, dove la politica del Sindaco leghista Tosi avrebbe una qualche relazione con il pestaggio a morte d’un povero ragazzo da parte di cinque giovani con simpatie nazi. Non è un caso che sia avvenuto proprio a Verona e non in un’altra città, è opinione diffusa in certi ambenti. Dunque, il «clima», il vento che tira, i nuovi equilibri politici, espressione dell’Italia uscita allo scoperto il 14 aprile, un Paese razzista ed incapace di controllare le sue pulsioni omicide, che nel centrodestra ha trovato la sponda che cercava. Non c’è altra spiegazione per pestaggi, massacri, spedizioni punitive e perfino le troppe svastiche disegnate sui muri che rattristano l’Italia dei giorni nostri. Francamente, non mi sembra che simili teorie siano indice d’acutezza e profonda capacità d’analisi. Prendendo il «clima» come indizio si può accusare chiunque di qualsiasi cosa. In piena campagna elettorale una donna che aveva appena abortito fu interrogata dalla Polizia. Il fatto suscitò molto clamore, si parlò d’un «clima contro i diritti delle donne» ed il dito accusatorio fu puntato su Giuliano Ferrara ed i candidati della lista «Aborto? No grazie». Questo avviene quando i fatti vengono letti attraverso le lenti dell’ideologia. Il medesimo errore che oggi commette l’opposizione, il cui ruolo, lo ripetiamo, è fondamentale per la vita democratica. Perciò ci cadono le braccia quando si lascia intendere che la sinistra ha perso le elezioni perché gli italiani sono imbevuti di xenofobia e hanno visto troppi film di Charles Bronson. Da chi dovrebbe disturbare il manovratore ci si aspetta che faccia di meglio.
Mauro Ammirati

lunedì 26 maggio 2008

Il prezzo dell'ingovernabilità


In sessant’anni di storia della Repubblica, la caratteristica principale dei governi nazionali italiani è sempre stata la debolezza, da intendersi come incapacità di decidere, di assumersi responsabilità e di prendere problemi di petto sfidando, se del caso, l’impopolarità. In Italia i governi non hanno mai deciso, hanno concertato, concordato, cioè si sono seduti ad un tavolo con – a seconda della situazione da affrontare – sindacati, enti locali, associazioni di categoria, comitato spontanei di cittadini… trattando ad oltranza, fino a che non venisse raggiunto un accordo con un ampio consenso e se l’accordo era irraggiungibile allora veniva tutto rinviato a tempi migliori, lasciando che i problemi degenerassero fino ad incancrenire (vedi l’immondizia di Napoli, solo per restare ai giorni nostri). Come hanno spiegato in qualche migliaio di saggi e volumi autorevoli studiosi di diritto costituzionale, all’indomani della Seconda guerra mondiale, dopo un ventennio di regime fascista, i costituenti ebbero timore di disegnare un sistema politico che garantisse un governo “forte”, un esecutivo che avesse il potere di decidere ricordava troppo quello che aveva portato l’Italia prima alla dittatura, poi alla disfatta militare, lasciando un Paese in macerie. Alle imperfezioni della Carta costituzionale e delle varie leggi elettorali sperimentate, ad impedire la governabilità si aggiunsero, nel corso dei decenni, altri fattori come la mediocrità di leadership più preoccupate di mantenere i consensi e coltivare i rispettivi orticelli, piuttosto che preservare la credibilità delle istituzioni ed il decoro dello Stato. Abbiamo semplificato, ma essenzialmente l’analisi è questa. Dunque, si può facilmente comprendere per quale ragione il quarto governo Berlusconi oggi venga visto, almeno in Patria, come un elemento di discontinuità non solo rispetto a quello precedente – che è cosa normalissima – ma a tutta la storia repubblicana. Il tempo per il nuovo Presidente del Consiglio di insediarsi ed ecco che vengono subito presi misure e provvedimenti anche impopolari su Pubblica amministrazione, immigrazione, criminalità, nuove discariche, fisco, perfino su un argomento fino a ieri tabù come il nucleare. Il nuovo ministro alle Infrastrutture, Altero Matteoli, annuncia che quei Comuni che si opporranno all’apertura di nuove discariche saranno sciolti, Berlusconi su questo fronte promette fermezza, si consideri che le nuove norme in materia che ci si appresta ad approvare in Parlamento prevedono la detenzione per coloro che provassero ad impedire che nuovi siti venissero utilizzati per scaricare rifiuti. Agli americani, gli inglesi e gli svedesi sembrerà un fatto assolutamente normale, cosa ci sarà mai di strano in un governo che decide, costoro si chiederanno. Il fatto strano è che, appunto, decide. In Italia, finora, l’atteggiamento di risolversi ad agire ai vertici delle istituzioni non è stato la regola, ma l’eccezione. Cercate, quindi, di comprendere il nostro stupore. Neanche i precedenti tre governi presieduti da Berlusconi furono un segno di discontinuità, sotto questo profilo. Quello in carica, invece, rappresenta un elemento di rottura, un’inversione, dovuta non soltanto alla composizione bipartitica della coalizione che lo sostiene, ma anche ad un mutamento culturale che è avvenuto nella società italiana. Fino a poco tempo fa, anche il cittadino comune preferiva un governo debole della propria parte, che tutelasse gli interessi del proprio ceto sociale, ad un altro esecutivo in grado di decidere, ma della parte avversaria, che cioè rappresentasse interessi di altri ceti. Per molti italiani il governo Prodi, seppur debolissimo, era comunque una garanzia che non sarebbe stata elevata l’età pensionabile. Gli ultimi anni, però, hanno presentato il conto dell’ingovernabilità. Nella lotta alla criminalità, alla disoccupazione ed alla crescita del debito pubblico, l’Italia sta pagando un prezzo troppo alto. Gli italiani hanno, così, cambiato abito mentale: meglio un governo che prenda decisioni, al limite anche sbagliate, piuttosto che un Paese, di fatto, senza governo.
Mauro Ammirati

venerdì 23 maggio 2008

"The Walking Mountain", il film su Primo Carnera


“La montagna che cammina”, così venne definito il primo pugile italiano che vinse il campionato di pesi massimi nel 1933, diventando famoso in tutto il mondo. La pellicola si apre con un Primo Carnera ancora bambino, ma già grande nella mole rispetto ai suoi coetanei e già consapevole di cosa sia la sofferenza, soprattutto quella dovuta alla povertà ed alla fame. Il piccolo Carnera pensa solo a saziarsi, a mangiare in maniera spropositata e cresce in maniera smisurata. Emigra in Francia per sopravvivere, ma la sua forza e la sua grandezza gli serviranno solo a diventare un fenomeno da baraccone. Il suo destino, però non è quello e qualcuno, che oggi sarebbe definito un talent scout, lo intuisce. Un’intuizione che finirà per convincere lo stesso gigante buono che nella sua ingenuità afferma: «Se Dio mi ha dato queste mani, un motivo deve pur esserci.» Inizia così ad allenarsi per diventare pugile, ma pochi credono in lui, la sua mole non dà certezze in quello sport, non dà guadagni... Ma si sbagliavano. In breve tempo Primo Carnera diventa il più grande pugile dei suoi tempi, ottiene tante vittorie e dimentica l’odore del tappeto, dell'essere un perdente. La sua fama arriva oltreoceano, le sue vittorie rendono orgogliosi gli italiani emigrati, per molti realizza il Sogno Americano e il regime fascista lo osanna. La fortuna sembra seguirlo, nel giro di poco tempo sposerà anche la donna della sua vita. La sconfitta, però, era alle porte: Max Bear lo mette al tappeto, nonostante la sagacia lo porti a rialzarsi per ben 10 volte. La scarsa cultura e la tanta, troppa semplicità non perdonano, manager incalliti e senza scrupoli gli derubano gran parte dei guadagni. Ma ormai è un Mito e tale resterà negli anni, i figli ne raccoglieranno le memorie e non patiranno la fame.
Enzo Martinelli è molto bravo a ripercorre le tappe del grande pugile italiano, tanto popolare nel periodo fascista ed a illustrarne la storia anche a chi non lo conosceva, perché troppo giovane. Ammirevole il modo in cui il regista ne ha rappresentato anche la semplicità, che spesso non si crede debba appartenere ad un mito. Bellissima dal punto di vista tecnico la ricostruzione in digitale del Madison Squadre Garden e delle enormi platee che seguivano gli incontri di boxe. Stilisticamente invece troppo artificioso il passaggio dal bianco e nero della pellicola invecchiata alla color correction moderna e qualche perplessità sorge riguardo l’interpretazione dei personaggi, si fa fatica ad affezionarsi e ad esserne coinvolti, colpa forse del doppiaggio. In definitiva, il film tecnicamente e narrativamente non fa una piega, eppure se qualche episodio didascalico fosse stato omesso per approfondire la caratterizzazione dei personaggi, nonché la sensibilità di questa montagna d’uomo che soccorre i suoi avversari, che diventa simbolo di riscatto e di gloria per un' intera nazione e che è fiero di incassare pugni per dare un futuro ai propri figli, forse ci sarebbe stato un filo di commozione in più nel vederlo e non solo nel raccontarlo. E, magri, non sarebbe sembrato a chi è appena uscito dalla sala, di aver seguito la cronistoria di un mito dall’odore di fiction.
Marta Ronzone

martedì 20 maggio 2008

Ma è il mio Paese


Domanda: è possibile amare l’Italia, prescindendo da chi la governa? È possibile – forse riformulata così suona meglio - che un giorno l’italiano medio dica, come gli statunitensi: giusto o sbagliato è il mio Paese, giusto o sbagliato è il governo del mio Stato, della Repubblica di cui sono cittadino…? Perché fino a qualche giorno fa (forse illudendoci, ma speriamo di no), ritenevamo che quel tanto sospirato giorno non fosse poi così lontano. Ci riferiamo ad un fatto avvenuto solo qualche settimana fa, precisamente alla risposta che Massimo D’Alema diede al figlio del colonnello Gheddafi, il quale aveva detto senza mezzi termini che l’eventuale nomina di Calderoni a ministro avrebbe guastato i rapporti tra Libia ed Italia. Giustamente, D’Alema rispose che l’Italia era uno Stato sovrano, dunque libero di darsi i ministri che voleva. D’Alema, cioè uno dei massimi esponenti dell’opposizione e del Partito socialista europeo. Sembrava davvero che anche da noi, almeno nei rapporti con l’esterno, la fazione, finalmente, cedesse il posto alla nazione. Sembrava. L’impressione di avere preso un abbaglio, che in realtà tutto fosse rimasto come prima, di essere stati troppo ottimisti l’abbiamo avuta constatando che nessuna voce autorevole del Partito democratico o dell’Italia dei valori si è levata per stigmatizzare le dichiarazioni d’un ministro spagnolo che ha consigliato a Berlusconi di farsi visitare da uno psichiatra (!), offrendosi di pagargli le sedute. Uno statista d’un altro Paese dà del malato di mente al nostro Capo di governo e nessuna personalità dell’opposizione che mostri indignazione (provate ad immaginare anche per un solo momento se fosse avvenuto il contrario). Così, all’improvviso e tristemente, sono tornati alla mente ricordi di fatti non troppo lontani nel tempo. Per esempio, un vicecapo di governo belga (per di più d’origine italiana) che si rifiuta di stringere la mano al nostro ministro Tatarella, la candidatura di Rocco Buttiglione a commissario europeo che viene respinta anche grazie al voto di molti europarlamentari italiani dello schieramento avverso, intellettuali italiani che si rifiutano di partecipare ad eventi culturali all’estero adducendo di non voler rappresentare un Paese governato da Berlusconi… Ricordiamo anche il Re di Spagna che si rivolge a Chavez, mentre costui sta insultando lo spagnolo Aznar, dicendogli: «Perché non stai zitto?» Ecco, ci piacerebbe se, un giorno, un uomo politico italiano in una situazione simile si comportasse allo stesso modo. E, detto tra noi, non ci pare di chiedere troppo.
Mauro Ammirati

lunedì 19 maggio 2008

Una risorsa, un potenziale problema


Quella della cosiddetta “badante” è la figura centrale del nuovo welfare state italiano. In un Paese come il nostro, che – statistiche alla mano – invecchia spaventosamente, le risorse da destinare all’assistenza sociale con gli anni non possono che aumentare ed il rischio che un giorno non siano più sufficienti per garantire una vita dignitosa ad un numero ragguardevole di cittadini, soprattutto agli anziani, è tutt’altro che remoto. Quelle centinaia di migliaia di donne provenienti dall’Europa dell’Est e – numericamente molto meno – dall’Africa e che si prendono cura dei nostri ultrassettantenni oggi svolgono un ruolo insostituibile nel tessuto sociale italiano. Come giustamente è stato fatto osservare da diversi studiosi della materia, in Italia, negli ultimi anni, è stato impiantato un welfare state “fai da te”, fondato su due pilastri: i giovani rinunciano a sposarsi (o si sposano oltre i 35 anni) restando a vivere con i proprio genitori, mentre alla vecchia generazione provvedono, appunto, le badanti o collaboratrici familiari. Normale che il neoministro dell’Interno, Roberto Maroni, abbia dichiarato che proprio queste ultime saranno escluse dalle nuove restrizioni che ci si appresta ad apportare alla legislazione sull’immigrazione. Qualora tutte le badanti tornassero (o venissero rimandate) a casa, per un milione circa di famiglie italiane sarebbe un dramma. Ed è altrettanto vero che diversi settori della nostra economia dovendo fare a meno della manodopera di immigrati avrebbero seri problemi sul piano della competitività, qualche azienda addirittura abbasserebbe, come suol dirsi, la “serranda”. Aggiungiamo che, dal punto demografico, gli immigrati sono molto più prolifici degli italiani, il che è rassicurante per i conti del nostro sistema previdenziale, il quale non reggerebbe a lungo in presenza di forti squilibri nel rapporto tra lavoratori attivi e pensionati. Per farla breve, siamo tutti abbastanza assennati per comprendere che il nostro Paese di immigrati ha bisogno eccome. Se certe distinzioni le fa perfino un leghista d’origine controllata come Maroni, qualcosa significherà. Il problema è che una risorsa, quantunque necessaria, se non è bene utilizzata può diventare un problema. La questione italiana del momento è tutta qui: l’immigrazione rischia di andare fuori controllo, per troppi anni il fenomeno non è stato tenuto dalla classe politica nella debita considerazione, così da risorsa è diventato un problema. Solo per menzionare un fatto, l’indulto – così adducono i suoi fautori - è stato una conseguenza dell’incremento della popolazione carceraria, che a sua volta è stato una conseguenza dei tanti reati commessi da immigrati. Ora, ciò che si sta cercando di fare è chiudere la stalla prima che scappino i buoi, intervenire prima che sia troppo tardi, cioè prima che si renda necessario un altro indulto, che un altro campo nomadi venga incendiato, che un’altra donna rom venga salvata miracolosamente da un linciaggio… Alcuni ministri spagnoli accusano il governo italiano di xenofobia, dimostrando di non avere compreso che l’unico modo efficace di prevenire la xenofobia è quello di disciplinare e regolamentare con un certo rigore l’utilizzo d’una risorsa che potenzialmente è sempre un problema.
Mauro Ammirati

sabato 17 maggio 2008

Gli ostacoli sulla strada del dialogo


La buona volontà è sempre da apprezzare. Se Berlusconi e Veltroni scelgono la via del dialogo, anteponendo – contrariamente a quanto è avvenuto dal 1994 ad oggi – l’interesse generale a quello di parte, se si riesce a sostituire il confronto all’incomunicabilità, possiamo solo rallegrarcene. Così come è da apprezzare il metodo che si è convenuto di adottare nel caso in questione: affrontare, una per una, poche questioni, cominciando da quelle sulle quali in passato si sono già manifestate convergenze (come la diminuzione del numero dei parlamentari), piuttosto che provare a scrivere insieme grandi progetti di riforma costituzionale (il meglio è nemico del bene). Ciò non toglie, purtroppo, che sulla strada tracciata dai leaders del Pd e del Pdl restino due grandi ostacoli. Il primo è il referendum Segni-Guzzetta, che è stato solo rinviato e che, quindi, è destinato a suscitare nuovamente forti tensioni, specie all’interno del centrodestra, essendo particolarmente temuto dalla Lega Nord. Tecnicamente, prima ancora che politicamente, non sarà facile disinnescare quella bomba. Per inciso: non è affatto vero che la Calderoni abbia dimostrato, in realtà, di essere una buona legge, la semplificazione del quadro politico che si è concretizzata sotto i nostri occhi in occasione delle ultime elezioni politiche è da attribuire unicamente alle scelte strategiche di Pd e Pdl e si è realizzata “nonostante” la formula elettorale. Il secondo ostacolo da superare in questa nuova fase del rapporto tra i due poli è il federalismo fiscale. Occorre ricordarlo ancora una volta: la Lega nel Settentrione è fortissima, ma rappresenta un elettore su cinque e nel resto del Paese è quasi inesistente. Il referendum confermativo sulla devolution del 2006 ha dimostrato inconfutabilmente che, a dispetto di quanto in molti affermano, alla stragrande maggioranza degli italiani la causa federalista non sta poi tanto a cuore. Ed abbiamo più d’una ragione per ritenere che specie al Sud l’idea di ripartire le risorse secondo il disegno leghista provochi più preoccupazione che altro. Inutile nasconderselo, il problema è tutt’interno al centrodestra ed a dimostrarlo possono bastare le cifre relative alla consultazione referendaria summenzionata, le quali attestano che una percentuale rilevante di elettori dell’allora Cdl due anni fa si espressero contro la devolution, approvata dal Parlamento e poi sottoposta al giudizio degli italiani. Berlusconi ripete spesso che senza la Lega non si vince. I numeri (e le elezioni del 1996) gli danno ragione. Il punto è che Bossi è consapevole di rappresentare un partito che, almeno per il momento (in futuro vedremo), non è nazionale, ma territoriale, persegue gli interessi del Nord portando in dote all’alleanza i suoi numerosi consensi. Per un partito nazionale come il Pdl, invece, la questione è particolarmente complicata. Se in materia di poteri alle Regioni si spinge oltre un certo limite, metà del suo elettorato gli volta le spalle. Il problema non è trovare un accordo tra alleati, magari riunendosi in una baita alpina, come avvenne qualche anno fa. Perché non serve ai generali disegnare grandi strategie militari se poi i loro eserciti non li seguono.
Mauro Ammirati